Tra i dischi prog più interessanti della prima parte del 2009, va sicuramente segnalato quello dei Daedalus, al secondo album dopo un silenzio di ben 6 anni dal predecessore, “Leading Far From A Mistake”. Siamo andati a carpire informazioni sul gruppo a Fabio Gremo, bassista della band genovese.
Nella recensione vi ho definito come un gruppo piuttosto giovane, e ho commesso un errore: non che siate anziani, ci mancherebbe, ma siete musicisti con un po’ di esperienza sulle spalle, non certo un gruppo alle prime armi. Come siete arrivati al progetto Daedalus? Cosa suonavate prima?
I Daedalus esistono dal 2000, quando ho iniziato a radunare alcuni musicisti interessati al progetto. Ciascuno aveva avuto esperienze in altri gruppi, ma posso dire che questo è stato il primo vero passo verso una realtà che non fosse solo amatoriale. Abbiamo trascorso tutti una intensa fase di studio, chi in conservatorio, chi in ambito differente, per poi far convergere le varie idee e tecniche in questo gruppo, che partendo da una matrice così ampia si pone l’obiettivo di definire un suo stile peculiare.
“The Never Ending Illusion” può essere considerato un concept, ha molti riferimenti incrociati tra le varie song?
Il nostro secondo album è effettivamente un concept, anche se un po’ atipico. Non esiste un’unica vicenda che evolve di brano in brano, bensì ciascun pezzo vuole elaborare lo stesso tema da un particolare punto di vista, pertanto ogni canzone può sembrare svincolata dalle altre per ambientazione, collocazione temporale e personaggi, ma è comunque mantenuta legata mediante un filo invisibile, creato da una sensazione di incertezza che permea l’intero lavoro, un desiderio di riscatto verso una realtà opprimente e tetra, così lontana dall’ideale dipinto nella nostra immaginazione.
Potreste spiegarci nel dettaglio il significato simbolico degli elementi in copertina? Mi sembra che dalla cover traspaia molto dello spirito dell’album e dei temi affrontati nelle lyrics.
Abbiamo cercato di rendere palese il significato dell’album a partire dalla sua copertina: la vita che affrontiamo ogni giorno ci pone innanzi una serie smisurata di tentazioni che sembrano voler sviare l’attenzione da ciò che in realtà stiamo vivendo, ossia un annientamento inesorabile degli ideali e della possibilità di una condizione umana che sia libera dalle imposizioni del progresso sfrenato e del desiderio di supremazia. E’ facile abbandonarsi alla dolcezza di un paesaggio o al miraggio di un futuro benessere, ma non si deve dimenticare che la realtà che ci attende è ben più misera e desolata.
Ho trovato abbastanza curioso che il retro del cd avesse un soggetto completamente diverso, e non c’entrasse molto col resto dell’artwork. Come mai questa scelta?
L’autore del retro di copertina è il pittore italiano Fùrnari, che ha un modo di espressione differente rispetto a Mark Wilkinson (autore del resto dell’artwork, NDR), ma altrettanto forte. Ci è piaciuto leggere in uno dei suoi quadri il significato che abbiamo dato all’intero album, la volontà di celare il proprio sguardo dietro uno schermo che consenta di abbandonarsi ai sogni ed all’immaginazione, pertanto abbiamo ritenuto efficace l’accostamento.
Come siete arrivati a lavorare con personaggi del calibro di Roberto Tiranti e Roland Grapow? Che tipo di persone sono?
Conoscevamo già Roberto Tiranti, in quanto nostro concittadino, mentre abbiamo contattato Roland Grapow tramite il sito del suo studio. Entrambi sono persone squisite, estremamente competenti e dotate di una simpatia unica e di un cordiale senso dell’ospitalità. E’ stato un vero piacere lavorare con loro, oltre ad una fonte immensa di esperienza e crescita professionale.
Ci sono sostanziali differenze tra il primo album e “The Never Ending Illusion”?
Chi conosce entrambi gli album potrà notare un cambio radicale di impostazione: se il primo, “Leading Far From A Mistake”, è stato un acerbo tentativo di competere con i grandi nomi del prog metal, eccedendo in tecnicismi e sezioni strumentali, il nuovo si concentra molto di più sull’equilibrio delle parti e sulla coesione tra la musica ed il testo. I suoni sono poi molto più curati, le composizioni sono meglio definite e si ravvisa una maturazione sotto ogni punto di vista.

L’ultimo pezzo, “Mare di Stelle”, è in italiano. Semplice esperimento o siete tentati di usare la nostra lingua in maniera più diffusa nel prossimo disco?
Abbiamo voluto dedicare una canzone alla tradizione musicale della nostra città, con il suo lato cantautoriale e il suo contributo nell’ambito del rock progressivo. La scelta dell’italiano ci è sembrata irrinunciabile. Sicuramente torneremo ad utilizzare la nostra lingua in futuro, se anche non fosse nel prossimo album.
Ho apprezzato molto l’ottimo bilanciamento tra gli strumenti: siete tutti tecnicamente molto validi, ma degenerazioni soliste non ce ne sono nel disco, vi siete dovuti frenare per non cadere in prolungati virtuosismi, o il tutto è venuto così, in naturalezza?
Come accennavo precedentemente, lo stato attuale è il frutto di una ricerca e maturazione stilistica che ci ha portato ad eliminare elementi di pura decorazione per concentrarci su ciò che vogliamo realmente comunicare. Questo è senza dubbio il percorso che vogliamo continuare a seguire.
Nella recensione, magari in maniera un po’ scontata, vi ho paragonato ai “soliti” Dream Theater, Fates Warning, Pain Of Salvation e Sieges Even. A chi vi sentite più vicini? C’è qualcun altro che ha segnato particolarmente la vostra formazione artistica?
E’ innegabile riscontrare nella nostra musica alcuni elementi tipici del prog metal, anzi sarebbe strano non trovarne. Le grandi formazioni che militano in questo genere sono state un riferimento e un’ispirazione per molte nuove realtà, se non per tutte. Personalmente sento più vicina la musica dei Queen e degli Iron Maiden, ma in passato ho ascoltato molto gli album dei Dream Theater fino a “Scenes From A Memory”. La loro influenza si sente forse di più nel nostro primo album, oggi invece siamo più orientati verso qualcosa di più lineare, che prende spunti anche da generi diversi dal metal, come la musica classica e il musical.
Nel tempo, avete cambiato cantante spesso e volentieri (con Davide Merletto siete al quinto singer diverso). Come mai tutti questi avvicendamenti? E’ stata dura adattarsi tutte le volte ad un nuovo cantante?
Trovare un cantante che fosse perfettamente in linea con il nostro stile e rappresentasse appieno la nostra idea non è stato facile, abbiamo provato tante persone e ci siamo fermati solo quando abbiamo capito di aver trovato quella giusta, sia dal punto di vista musicale, sia da quello umano. Il lavoro fatto con i suoi predecessori è stato comunque importante e ci ha aiutato a progredire verso la situazione attuale.
Dal vivo suonate in maniera fedele a quanto sentito su disco, oppure siete più diretti ed aggressivi?
Cerchiamo sempre di proporre dal vivo i brani nella maniera più fedele, ma senza ricercare l’esatta riproduzione del disco. Abbiamo deciso di non ricorrere a basi pre-registrate, ad eccezione di particolari effetti ed introduzioni, proprio per mantenere una dimensione “live” che altrimenti sarebbe vanificata. Ci piace che tutto ciò che l’ascoltatore percepisce durante un nostro concerto sia effettivamente eseguito sul momento.
Cosa dobbiamo attenderci in futuro dai Daedalus?
Quest’anno sarà ancora votato alla promozione del nuovo disco, ma abbiamo già in preparazione un terzo album che sarà auspicabilmente completato per l’anno prossimo. Ricordiamo che “The Never Ending Illusion” è disponibile nei negozi di dischi, eventualmente su ordinazione tramite il distributore Audioglobe.
Grazie per lo spazio che ci avete dedicato, ciao a tutti!