Gli Hourglass sono stati autori nel 2009 di un disco tra i più belli ascoltati in ambito prog negli ultimi anni, “Oblivious To The Obvious”. Non è un album per tutti, è lungo (a volte fin troppo), impegnativo, ma sfoggia qualità compositive sopra la media e, nel complesso, ha anche una scorrevolezza che, con i loro minutaggi-monstre, pochi si aspetterebbero. Fiutata la release di spessore, abbiamo deciso di andare a sentire cosa aveva da dirci il chitarrista Brick Williams, entusiasta dell’ultima fatica del gruppo.
Un album come “Oblivious To The Obvious” è una grande sfida al music-business e alle sue regole: un doppio album, pieno di canzoni lunghe e complesse, non ha vita facile nell’era degli ascolti veloci e superficiali sull’i-pod e del download selvaggio. Dove avete trovato il coraggio di scrivere quest’opera?
Siamo sempre stati una band che scrive semplicemente ciò che si sente, senza tanti altri pensieri per la testa. Se una canzone finisce per diventare lunga 20 minuti, va bene così, vuol dire che così doveva venir fuori. Se il risultato è una song di quattro minuti, che va bene anche da essere mandata in radio, va bene lo stesso. Noi scriviamo musica così come essa scaturisce da noi stessi, dalla nostra ispirazione, e quel che viene, viene. Io preferisco questa strada, non amo le restrizioni alla creatività. Credo che troppi musicisti siano eccessivamente concentrati sullo scrivere song da 3-5 minuti che siano adatte al formato radiofonico. Secondo me bisogna soltanto scrivere ciò per cui ti senti ispirato e lasciare che ogni pezzo vada al proprio posto. Se cercassimo il successo come musicisti pop, allora sì che dovremmo tenere un minutaggio delle canzoni adatto alle radio, ma non è certo il nostro caso. Gli Hourglass non stanno di certo provando a diventare una pop band da classifica.
Cosa significa “Oblivious To The Obvious”? Quali sono i temi principali toccati nelle lyrics?
Il titolo deriva dalla canzone che porta lo stesso titolo. Il pezzo narra di un uomo che realizza che alcuni dei suoi problemi nella vita di tutti i giorni sono una diretta conseguenza della sua educazione. Le azioni sbagliate che i suoi genitori avevano commesso nel crescerlo ora si stavano ripetendo nelle sue esperienze di genitore, ripeteva con i suoi figli quanto i suoi genitori avevano di male con lui. In questo senso egli è stato “Ignaro dell’Evidenza”, perché avrebbe dovuto riconoscere le colpe delle proprie azioni, originate dalle esperienze della sua giovinezza. Ci vuole una vita piena di esperienze totalmente diverse, modificate rispetto a quelle che ha vissuto in passato, perché riconosca le sue colpe e inizi un percorso di cambiamento dei suoi difetti e di quelle che sono le sue priorità nella vita.
”Oblivious To The Obvious” ha ricevuto ottime recensioni e commenti, da quel che ho potuto leggere su internet. C’è qualche opinione sul vostro album che vi è piaciuta particolarmente?
Alcune delle cose più belle dette sull’album mi sono arrivate dalle mail dei nostri fan. Tanti di loro hanno espresso un grande entusiasmo per i testi del disco e per la musica. Un nostro fan è psicologo e mi ha mandato una mail di apprezzamento per le lyrics della title-track: mi ha spiegato che attualmente vede molte storie simili a quella che è raccontata nel testo della canzone e mi aveva scritto per dirmi che era rimasto molto impressionato dai testi del disco in generale.
Ci sono significati particolari dietro le parole dei vostri testi, qualche simbolo/metafora che usate per descrivere una certa cosa, e il lettore non può capire tutto al primo impatto, ma solo dopo una spiegazione da parte di chi il testo l’ha scritto?
Non in “Oblivious to the Obvious”. Ho cercato di essere abbastanza chiaro coi miei testi, ma ne ho scritti altri in passato più oscuri e vaghi, tipo “Plains of Remembrance” da “The Journey Into”, o “Altered State” da “Subconscious”. Di solito cerco di essere piuttosto diretto. Non ho il desiderio di essere come Jon Anderson (cantante degli Yes, n.d.r.) e confondere i miei fans con le parole che scrivo. In ogni caso, adoro Jon Anderson.
Voi avete sempre composto album molto lunghi, non avete mai pensato di cambiare la vostra dimensione musicale e cercare di scrivere materiale differente?
Abbiamo recentemente discusso la possibilità di scrivere pezzi più corti per il prossimo disco. Il problema è che non sono sicuro che la cosa accadrà realmente. Abbiamo già un nuovo brano tra le mani, che vorremmo portare sui 4-5 minuti di durata, ed è già arrivato tranquillamente ai 6-7 minuti. Non c’è niente da fare, bisogna comporre solo ciò che ci si sente davvero, non bisogna sottostare a forzature. Per me è meglio lasciare che le song prendano la loro forma, quella a cui sono destinate, senza mettere tanti paletti. Poi, che vengano lunghe o brevi, poco importa. Non vorrei preoccuparmi di avere del materiale più breve sul prossimo cd, ma vedremo cosa accadrà. Posso assicurare che avremo alcune composizioni molto lunghe, com’è nostra tradizione, anche nel nuovo album. Nessuna preoccupazione per i nostri fans a riguardo.
Una delle vostre caratteristiche è di essere abbastanza orecchiabili e immediati, nonostante la vostra forte identità prog. Quanto è importante essere catchy e non troppo complicati?
Apprezzo molto quanto hai detto. Noi proviamo sempre a scrivere delle melodie che catturino immediatamente l’attenzione e questa è sempre una grande sfida. Il nostro bassista Eric Blood ha avuto molto da lavorare sulle melodie in “Oblivious To The Obvious” e credo sia molto dotato nello scrivere quelle giuste, quelle che meglio si adattano allo spirito della composizione. In tutti i nostri album ci siamo concentrati molto su questo aspetto. Devi avere delle buone melodie se vuoi che una song possa rendere al meglio, esprimere al massimo il proprio potenziale.
Qual è la maggior difficoltà che bisogna saper affrontare quando si scrivono pezzi da 15-20 minuti?
Finire prima di arrivare a 30 minuti, ha ha ha. Parlando seriamente, direi che la cosa più importante è fare in modo che il pezzo scorra bene dall’inizio alla fine. Se sei in grado di scrivere una canzone molto lunga che suona bene dall’inizio alla fine, non vi è ragione perché questa non debba piacere solo perché dura tanto. Certamente, nella musica progressiva lo scrivere canzoni di molti minuti è dato per scontato, ma non puoi nemmeno scrivere pezzi lunghi tanto per farli, bisogna sapere cosa si sta facendo. Le lyrics stesse possono diventare molto lunghe perché la storia che si sta raccontando è complessa da descrivere e da spiegare. Può essere che stai mirando ad avere una song che necessita di tempo per crescere ed esprimersi del tutto, delle volte occorre avere pazienza per avere l’effetto desiderato.

Voi arrivate dallo Utah, certamente non il centro del mondo quando si parla di metal. Com’è la vita per una metal band nel vostro stato?
Non tanto buona. La scena musicale in generale, nello Utah, è abbastanza povera, non solo quella metal.
Qual è la band prog metal che ti piace di più?
Sono un grande estimatore di Symphony X e Dream Theater. Ho sempre amato i Tool e vado matto per i Porcupine Tree, anche se non sono esattamente metal. Personalmente sono un grande fan delle prog band degli anni ’70: Rush, Kansas, Emerson, Lake & Palmer, Genesis, Yes, Jethro Tull. Questi sono i gruppi con cui sono cresciuto e che sono in cima alla mia lista delle band preferite tutt’oggi.
Quali sono i gruppi a cui i recensori paragonano più spesso gli Hourglass?
Ci avvicinano molto spesso a Enchant, Dream Theater e Rush. Se mettessi giù una lista di tutte le band a cui siamo stati accostati, diventerebbe molto lunga. Non posso credere che così tanti act siano stati avvicinati a noi da parte di chi ci ascolta, o siano stati menzionati in raffronto alla nostra musica nelle recensioni: credo siano stati citati più o meno tutti i gruppi che vanno dai Porcupine Tree ai The Moody Blues, fino ai Pink Floyd, ai Marillion e ai The Alan Parsons Project. Quest’ultimo paragone mi ha proprio shoccato, perché io adoro The Alan Parsons Project, ma sentire da qualcuno che suonavamo come loro mi ha davvero sorpreso, non me l’aspettavo. Sono spesso prese come termini di paragone rispetto alla nostra proposta bands che non abbiamo neanche mai ascoltato, il che mi strappa sempre un sorriso.
Puoi darci una breve descrizione di ogni album della vostra carriera?
Abbiamo realizzato “The Journey Into” nel 2002 ed è stata una esperienza da capogiro: abbiamo registrato, mixato e masterizzato tutto l’album in 14 giorni. Abbastanza pazzesca come situazione, oltre che molto bella. Abbiamo cominciato proprio allora a trovare il nostro sound. Dopo di che, è stata la volta del nostro secondo disco, “Subconscious”, del 2004. Si tratta di una release più professionale un po’ sotto tutti gli aspetti, anche se comunque molto stressante. Sono riuscito a mettere molte ottime idee nei testi e ho scritto quelle che considero le mie lyrics migliori di sempre. Anzi, di tutte quelle contenute in questo disco, credo che le migliori di tutte siano quelle di “Exit Wounds”. Con “Oblivious to the Obvious” ci siamo portati a un altro livello, per quello che riguarda il tempo speso e gli sforzi profusi nella realizzazione dell’opera. Spero che il risultato rispecchi tutto l’impegno che ci abbiamo messo. Abbiamo impiegato così tanto tempo per completare l’ultimo lavoro che, se mi guardo indietro, mi meraviglio di come siamo riusciti a tenere la rotta e ad andare sempre avanti nonostante le difficoltà che ci sono state nel frattempo.
E’ senza dubbio il nostro album più ambizioso e sono orgoglioso delle song che abbiamo scritto. Ho sempre voluto scrivere un doppio album, e ora posso dire che ce l’ho fatta.

Preferisci il progressive metal o il progressive rock degli anni ’70? Perché?
Dipende dallo stato d’animo in cui mi trovo. Adoro entrambi e ascolto anche molta altra musica. Sono un grande fan dei Beatles, dei Toto, di chitarristi come Steve Vai, Steve Morse, Joe Satriani, e mi piace moltissimo la musica classica. Cosa ascolto dipende essenzialmente dal mood del momento.
Un’ultima domanda: in tutti questi anni di carriera, le tue idee su come dovesse suonare la vostra musica sono cambiate in modo significativo? Perché?
No, non direi. Negli anni siamo diventati un po’ più metal, ma non ci siamo nemmeno induriti così tanto rispetto agli esordi. Come ti ho già detto, scriviamo semplicemente ciò che ci sentiamo di fare, quello che suoniamo è semplicemente quel che ci sembra buono in quel momento, non riflettiamo mai troppo sulla direzione da prendere. Cerchiamo di essere più creativi che possiamo. Non vorrei mai che qualcuno ci dicesse che suoniamo come il clone di qualcun altro. Vorrei sentirmi dire che abbiamo il nostro sound, che esiste un “Hourglass” sound.