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Atheist + Exhumed

E’ tempo di sognare. Perdersi in un mondo colorato, in continuo slancio verso emozioni nuove e ardite, sfidando l’impossibile e l’improbabile, dando forma e armonia alla follia, è sempre stata la missione degli Atheist, una delle band più originali, inclassificabili, inarrivabili che il panorama estremo abbia mai sfornato. Il 2006 li ha visti rientrare in grande stile dal vivo, la pioggia di applausi raccolta nei tour estivi li ha definitivamente convinti che il mondo era finalmente pronto ad accoglierli a braccia aperte e orecchie spalancate. Ci si dimentica sovente che se oggi gli Atheist sono una leggenda, all’epoca di Unquestionable Presence, il loro parto discografico più acclamato, se ne andarono in tour coi Cannibal Corpse a beccare insulti perché troppo avanguardistici e anticonformisti rispetto al pensiero dominante dei metallers dell’epoca. Il tempo, nella musica, è sempre il giudice più illuminato e adesso il combo di Kelly Shaefer è atteso come un Messia ovunque intenda professare la propria musica.
Per quanto il following attuale degli autori del recente Jupiter sia piuttosto importante, la data del Live, l’unica in Italia del tour di supporto al nuovo disco, risente dei mali endemici dei concerti italiani: prezzi alti, pochi fans rispetto all’offerta concertistica, ancora meno gente disposta a uscire di casa per nomi che non siano, almeno in parte, catalogabili come “mainstream”. Il Live è semideserto quando entriamo, una ventina di minuti prima del support act, gli Exhumed, gruppo dalla storia meno scintillante degli headliner, ma pur sempre degna di nota.

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Dove sono finite le borchie? Il chiodo? Non lo mette più nessuno? Ma siamo sicuri che siano davvero gli Exhumed? Ricordavo i ragazzi per essere un ensemble meravigliosamente old-school nel modo di vestire e di stare sul palco, con un gusto delizioso per i dettagli di maniera del metal e un atteggiarsi da cattivi che non poteva non mandare in brodo di giuggiole. Adesso li ritrovo ripuliti e molto più ordinari nel vestiario, maglietta e jeans come un ensemble esordiente qualsiasi, pronto a suonare alla festa del liceo. L’impatto visivo, devo dire la verità, mi ha fatto rimanere un po’ male, un po’ di ignoranza metallara piace sempre, fortunatamente è l’unico dettaglio fuori posto nell’esibizione del quartetto. Dall’apparenza quasi troppo giovane rispetto alla carriera che hanno alle spalle (sono in giro dai primi anni ’90) questi operai specializzati del death/grind/thrash sanno bene come mettere il pepe al culo all’audience, in attesa dell’evento principe della serata. Le canzoni del combo hanno una forte matrice grind a deturparne, in senso buono, i connotati, e un riffing che passa, a seconda dell’umore del momento, dal death vecchia maniera al thrash più sanguinario e slayeriano. Non danno nell’occhio come una volta, però ora gli Exhumed hanno la splendida dote di unire rozzezza e un certo controllo della situazione, il caos è sempre tenuto al guinzaglio e i musicisti possono esaltare la loro killing art senza cadere nella confusione. Sovrintende alle operazioni il terrificante drumming di Danny Walker, che abbina a un tiro micidiale, dato abbastanza per scontato in un simile contesto sonoro, passaggi di grande complessità e variazioni di intensità nel martirizzare i tamburi, tali da sfidare i nomi più venerati tra i batteristi del metal estremo. L’interesse va crescendo nel corso del concerto, anche i quattro strumentisti si sciolgono a poco a poco e guadagnano ulteriori punti verso il pubblico andando a pescare molti pezzi dal passato remoto. Se nel 2011 ti permetti di scavare nello strato ricco di humus della scena in un’annata qualsiasi tra il ’90 e il ’94, puoi solo trovare tesori, e importa poco che gli Exhumed non abbiano mai deviato dalla retta via e un certo sound l’abbiano portato avanti anche successivamente. Grida di giubilo, headbanging, accenni di pogo tra i (pochi) che hanno voglia di mettere alla prova muscoli e ossa, qualcuno che canta il testo dei pezzi insieme a Matt Harvey: per essere un act underground, basta e avanza per gridare, se non al miracolo, al successo pieno. Qualcuno osserverà che dal vivo il growl diventa più che altro un urlo strozzato, ma è un dettaglio trascurabile rispetto alle vittime lasciate sul campo dopo i quaranta minuti di show. Piccola annotazione di colore a margine: strepitosa la maglietta dei Cryptic Slaughter di Harvey: thrash/core ‘till I die!

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E’ con viva emozione che accingiamo a vedere all’opera gli Atheist: troppo forte il carico di sensazioni che ti infonde la loro musica, troppo immaginifiche le note prodotte per non sentirsi vicini a un catapultamento in un’altra dimensione, nell’istante in cui la musica verrà sparata fuori dalle casse ai lati dello stage. Puntuali per portarci nell’estasi, i nostri giungono sul palco guidati dal fumatissimo frontman, bandana di ordinanza in testa, sorriso a trentadue denti, tatuaggio leopardato su entrambi gli avambracci, un carisma che rapisce alla prima occhiata. Dimenticate che è un concerto di metal estremo, volate col pensiero, andate in trip usando solo la vostra testa (niente additivi, please), aprite la mente e lanciatevi in scia a Kelly Shaefer, Jonathan Thompson, Chris Baker, Steve Flynn, Trsvis Morgan: si parte. L’attacco di Unquestionable Presence, tralasciando suoni non all’altezza, peggiorati di molto rispetto agli Exhumed, è già una prima risposta, convincente, alle domande sui perché della venerabilità del gruppo. Un incipit quieto, da jazz club nella serata in cui si suona in punta di dita e ci si bea di quanto è colta la propria musica, introduce a un riff techno-thrash che squarcia il velo di calma apparente: le teste roteano beate, le prime file ribollono, Kelly inizia la sua personalissima interpretazione del mestiere di frontman. Il singer sembra in preda a visioni, scatta fulmineo e poi si ferma, allunga le braccia in ogni direzione e sbarra gli occhi, come se cercasse di descriverci ciò che vede e volesse farci entrare in un mondo tutto suo. E fatalmente anche nostro, perché passare in una zona ignota della mente, con gli Atheist, è inevitabile. In quattro minuti di pezzo accade di tutto e di più, chi li conosce sa cosa aspettarsi dalla band ma dal vivo certi dettagli escono ancora più amplificati nella loro bellezza, anche se il sound poco curato fa perdere qualcosa della contorta espressività della canzone. Il secondo brano in scaletta è un altro varco temporale nell’iperspazio, diverso nell’approccio e ugualmente geniale: da Piece Of Time arriva On They Slay, tecnicissima e solo lievemente più death del pezzo precedente. Kelly è senza freni e riesce a coprire entrambi i ruoli, entertainer e cantante, sbattendosi come un disperato, perché le linee vocali devono adattarsi a continui stacchi e ritmi intricatissimi, e avere un po’ di fiatone e perdere le parole è un attimo. Il nuovo bassista ha il compito più arduo, rivestire il ruolo in passato appannaggio del compianto Roger Patterson e di Tony Choy non è un compito da poco, ma Morgan si dimostra all’altezza e sa anche stare sul palco più che dignitosamente. Con Mineral, da Elements, si perde ogni contatto col pianeta Terra e probabilmente col metal in senso stretto. Suoni liquidi, deliziosamente jazzati e intrippati di fusion, ammantano un chitarrismo insieme elaborato e fluido come l’acqua di un ruscello. Kelly adatta la voce al mutato scenario e ci fa entrare sotto pelle quella sensazione di radiosità e pace infinita che Elements seppe regalare al mondo al momento della sua uscita. Appena prima e appena dopo la traccia di quel seminale lavoro, apprezziamo due song di Jupiter, Second To Sune Fraudulent Cloth, accorgendoci che anche queste funzionano eccome, suonando come un bell’incrocio, per mutevolezza dei ritmi e focus sull’impatto frontale, tra “Piece Of Time” e “Unquestionable Presence”. I fans dimostrano di essere molto affezionati anche ai brani dell’ultimo disco, la spinta del pubblico rimane forte, almeno davanti allo stage. D’altronde, chi è qua non ci è arrivato per caso, e sente l’importanza dell’evento.
La qualità del sonoro, per fortuna, è in miglioramento e si cominciano a udire meglio i passaggi impossibili di Flynn sul suo set di tamburi. Tutto inizia a sentirsi in maniera più roboante, proprio in corrispondenza del momento di massima emozione del concerto: An Incarnation’s Dream impatta in modo indescrivibile sull’audience, soggiogata una volta di più dall’atmosfera mellifluamente delirante del combo. Non ci fossero le regole della fisica a limitare le reazioni di una persona, probabilmente avremmo cominciato a saltare tutti fino al soffitto per l’esaltazione. Si scende per un attimo dall’ottovolante con la più diretta Live And Live Again, ci si tuffa ancora nell’estasi tra le mille sfaccettature di Retribution, con Shaefer che non smette di ringraziare il pubblico tra un pezzo e l’altro, invitando a farsi una fumata insieme al termine dello show. Cosa che farà tempestivamente, concedendosi senza tanti problemi alle richieste dei fans, con una gentilezza e disponibilità da vero signore.
Andiamo verso la conclusione percorrendo in rapida successione, ancora una volta, le diverse visioni dell’universo ateo: Air, che ti fa diventare la testa leggera come il titolo ben sintetizza, Mother Man, che rischia di darti il mal di testa nel provare a star dietro a tutte le sezioni ritmiche racchiuse al suo interno, Faux King Christ, dalla struttura quanto mai assurda e cerebrale. Non siamo neanche all’ora di concerto, e gli Atheist escono di scena, rientrando giusto due minuti dopo, per un singolo bis, Piece Of Time: un ultimo sforzo per band e pubblico, che tirano fuori il massimo per rendere indelebile anche l’ultimo pezzetto di concerto. Un’ora soltanto, che ne vale 10.000 e più di quelle che normalmente uno vive nella propria quotidianità. Scusate se è poco.

Scaletta Atheist:

Unquestionable Presence
On They Slay
Second to Sun
Mineral
Fraudulent Cloth
An Incarnation’s Dream
Live and Live Again
Retribution
Air
Mother Man
Faux King Christ

Piece of Time