“NO MORE AVANTASIA SHOWS”: questo il fatidico annuncio che nel 2011 spezzò il cuore dei numerosi fan del mastodontico progetto di Tobias Sammet. In molti ricordano le lacrime del frontman degli Edguy durante l’ultima esibizione degli Avantasia nell’edizione di quell’anno del Wacken Open Air, e con lui piangevano molti dei suoi sostenitori all’idea di non avere più l’occasione di assistere dal vivo a uno show di Tobias e soci e di doversi rassegnare a consumare al limite del possibile il DVD della “Flying Opera”.
Poi, all’improvviso, quando ogni speranza sembrava ormai perduta, il miracolo: Sammet annuncia l’uscita di un nuovo album degli Avantasiani a cui seguirà un tour che, meraviglia delle meraviglie, comprenderà anche una data italiana. Teatro – mai termine fu più azzeccato – del mirabolante show è l’Alcatraz di Milano, che poco più di un mese prima aveva ospitato gli Helloween e i Gamma Ray nella prima tappa nazionale della seconda edizione dell’ Hellish Rock Tour.
Già dal primissimo mattino davanti al locale si è formata una fila di coraggiosi che, con l’ausilio di generi di conforto di base, si preparano alle dodici ore di attesa che li separano dall’apertura del locale. Decisione estrema ma azzeccata, in quanto gli sprovveduti che si sono presentati a due ore dall’ingresso sono stati costretti a mettersi in coda alla fine dell’isolato, dicendo così addio alla possibilità di intravedere il palco. All’apertura delle porte scatta la corsa alla transenna, una gara senza esclusione di colpi a chi si accaparra la postazione migliore. L’immensa fiumana riempie l’Alcatraz in men che non si dica, l’impazienza sale alle stelle. Ecco che comincia a sentirsi il tema di “2001: Odissea nello spazio”, seguita da “Spectres”, il viaggio nelle fantastiche dimensioni di Avantasia è cominciato e il boato del pubblico è così forte da coprire la musica e far tremare l’edificio. A seguire l’opening track di “The Mystery of Time” altre due tracce del medesimo album, “Black Orchid” e “Invoke The Machine”, in cui a spalleggiare Sammet c’è Ronnie Atkins, voce graffiante dei Pretty Maids e sostituto – insieme ad Eric Martin dei Mr Big – dell’amatissimo Jorn Lande che, nonostante l’eccellente lavoro dei due vocalist, fa pesare la sua assenza. Atkins non sarà più giovane ma di certo sa come scaldare il pubblico, non si risparmia, correndo su e giù per il palco al pari dell’infervoratissimo Sammet. Ma è solo un amuse-bouche alla vera sorpresa della serata che di lì a poco gli avrebbe dato il cambio. Sulle note di “Prelude”, Atkins lascia momentaneamente il palco per far spazio ad uno dei personaggi più controversi e amati della scena power degli ultimi venticinque anni. Ecco spuntare Michael Kiske, introdotto dall’apertura di “Reach Out for The Light”, ed è subito delirio, fra gli over 30 non mancano le lacrime. Con i suoi acuti e i suoi vibrati toglie il fiato, con le sue gag strappa sorrisi, coinvolgente ma allo stesso tempo distaccato, ben disposto ma geloso dei suoi spazi. Che si ami o si odi, Kiske resta sempre uno dei personaggi di maggior rilievo della scena metal europea, è innegabile. Dopo “Breaking Away”, dalla prima “Metal Opera”, Kiske saluta il pubblico e passa il testimone a uno dei più longevi ospiti del progetto Avantasia, il frontman dei Magnum Bob Catley. Spendiamo qualche parola su di lui: Bob Catley non è aggressivo, né imponente, né vivace quanto i colleghi che dividono il palco con lui, ma lì, con la sua zazzera di capelli bianchi, minuto e ben nascosto sotto una giacca e una camicia troppo grandi per lui, parla al cuore di tutti. Bob Catley non sconvolge raggiungendo immani picchi sonori né producendosi in elaborate coreografie, no. Bob Catley è invece un signor interprete, l’intensità è il suo punto di forza, mettendo da parte la presenza per fare spazio a tutte le sfumature della sua voce fa dimenticare che lui sia davanti a te, trasformando la sua prestazione in un’esperienza fortemente soggettiva e personale.
Forte commozione per “The Story Ain’t Over” e brividi lungo la schiena per “The Great Mystery” – che è già un brano di culto – nella sua discrezione Bob Catley rende ogni show degli Avantasia indimenticabile.
Capovolgere lo scenario è compito di Thomas Rettke (Heaven’s Gate), corista insieme ad Amanda Somerville in sostituzione di Cloudy Yang. Piazzandosi al centro della scena, Rettke si esibisce con “Scales Of Justice”, dall’album “The Wicked Symphony”, il pezzo più heavy di tutta la discografia Avantasia. Così perfetto da far impressione, Rettke lascia i presenti a bocca aperta.
Al rientro di Sammet on stage si unisce l’altro grande ospite della serata: Eric Martin (Mr Big), 53 anni e non sentirli. “What’s Left Of Me” è assolutamente perfetta per lui, un plauso a Sammet che è riuscito a cucirgliela addosso. Sardonico e sornione, Martin non manca di scherzare su come Sammet gli abbia affibbiato la maggior parte delle “pussy ballads” per intaccare la sua virilità. Si concede cinque minuti di riflettori, cantando “Volare” di Domenico Modugno insieme alla platea e leggendo un breve testo in italiano da un foglietto prontamente estratto dalla tasca per introdurre “Promised Land”, in cui fa le veci di Jorn Lande. L’esecuzione è certamente impeccabile ma per i fan più recidivi non c’è confronto.
Ora è il turno di Amanda Somerville, che rimpiazza Cloudy Yang in “Sleepwalking”, singolo estratto da “The Mystery Of Time”. Leggiadra, sublime, piena di grazia e vibrante sensualità, trasforma un duetto pop quasi scontato in quattro minuti indimenticabili. Sorge spontaneo chiedersi come mai, dopo anni di collaborazione e visti i risultati, il duetto sia stato affidato alla Yang piuttosto che alla biondissima valchiria. È proprio vero che l’esecutore cambia la sostanza.
Con “Sleepwalking” c’è il giro di boa, ora arrivano gli evergreen. “The Scarecrow” vede un Ronnie Atkins decisamente sotto sforzo ma ben intenzionato a dare il massimo. È qui che si sente la mancanza di Lande più che in qualsiasi momento, questa è la sua canzone per antonomasia.
A seguire i guest si radunano sul palco per “Stargazers”, splendido pezzo enfatico e d’atmosfera da “Angel of Babylon”. Ecco che arriva uno dei momenti clou della serata, l’amatissima ballad “Farewell” cantata da Sammet, Kiske e la bella Somerville, classico pezzo da mani al cielo e lacrima facile. In “Shelter From The Rain” si può apprezzare il melange del timbro cristallino di Kiske con le vette emotive del signor Catley, che resta solo con Sammet e il tastierista Miro Rodenberg per regalare all’Alcatraz la “In Quest For” migliore di sempre. “The Wicked Symphony” è un ritorno ai toni epici, oscura e scenografica, grandiosa oltre ogni dire. Decisamente netto il contrasto con la successiva “Lost In Space”, unica canzone scritta da Sammet ad aver raggiunto la vetta della top ten tedesca, sicuramente commerciale e se vogliamo scontata ma non priva di un suo perché. L’ultimo brano da “The Mystery Of Time” presente in scaletta è la consistente “Savior In The Clockwork”, seguita dalla godibilissima “Twisted Mind” e da “Dying For An Angel”, con Eric Martin a sostituire Klaus Meine.
Qualche attimo di respiro per gli Avantasiani, che si preparano a regalare al pubblico un encore di tutto rispetto: si parte con “The Seven Angels”, eseguita in versione integrale, 15 minuti al cardiopalma in cui il magistrale Oliver Hartmann, colonna portante degli Avantasia sin dagli esordi, dà grande prova di sé; si procede poi con l’emblematica “Avantasia” per chiudere in bellezza con la canzone più amata e più attesa, “Sign Of The Cross”, degna conclusione di un evento grandioso.
Diamo un po’ di spazio a chi ha reso possibile tutto ciò: il pubblico italiano si è trovato davanti un Tobias Sammet al massimo della forma, vitale, inesauribile, instancabile, sempre pronto a guizzare da una parte all’altra del palcoscenico a non voler tralasciare nessuno degli spettatori, capace anche di lasciare il giusto spazio a suoi ospiti facendosi sapientemente da parte al momento giusto, un vero signore. Amareggiato dalla reazione del pubblico italiano durante l’ultima visita degli Avantasia, si ritrova incredulo davanti a una folla ben più nutrita e partecipe che non ha smesso neanche per un secondo di cantare e acclamare con una gioia e un entusiasmo totalmente inaspettati ma più che sufficienti a convincere Sammet a riportare il carrozzone Avantasia nel Bel Paese alla prossima occasione – sempre che la sua proverbiale sfortuna lo permetta.
Chi c’è stato ha la fortuna di aver assistito a qualcosa di più unico che raro, grandi artisti così diversi tra loro che si ritrovano a condividere il palco per tre ore e mezza con una sintonia fuori dal comune. Sentire certe canzoni dal vivo era un’utopia, un sogno che Sammet e soci hanno trasformato in realtà. Non sono mancati i momenti di ilarità, dalle coreografie di Sammet e Kiske, allo stesso Sammet che dimostra il suo amore per la musica italiana storpiando “Gloria” di Umberto Tozzi e “Felicità” di Al Bano e Romina Power (evidentemente aveva adocchiato il manifesto di Al Bano affisso di fronte al locale) storpiandola in “Felix ist das” per canzonare l’infaticabile batterista Felix Bohnke, suo collega anche negli Edguy, a Sascha Paeth che si fa beffe del povero Hartmann che dimentica i testi e ottiene la sua vendetta escludendo il collega dai saluti finali, a Kiske che rovina l’inchino finale passeggiando davanti a tutti gli altri.
In soldoni, i presenti avranno qualcosa da raccontare a figli e nipoti. Chi ha saltato questo giro non può far altro che mangiarsi i gomiti, aspettare qualche anno e augurare ogni bene al caro Tobi per far sì che botte, cadute, scivoloni e incidenti vari non ostacolino il suo ritorno.