che doveva essere l’evento di maggior pregio dell’estate metallica,
limitatamente al suolo italico, si è trasformato in una delle peggiori
esperienze concertistiche immaginabili. Gli indizi del disastro
imminente andavano probabilmente letti con mesi d’anticipo: il prezzo
esageratamente alto, 75 euro, la location infima, un’area di parcheggio
nel complesso della Fiera di Rho e infine la delittuosa idea di
transennare lo spazio più vicino al palco, così da trasformarlo in un
recinto per pochi fortunati e costringendo tutti gli altri ad accalcarsi
a debita distanza. Alla prova dei fatti, le cose sono andate ancora
peggio. Andiamo con ordine, cercando di elencare per filo e per segno i
motivi che hanno reso il giorno dei Big Four uno dei più nefasti della
storia del metal nel nostro paese.
Arrivati a Rho Fiera,
innanzitutto, ecco il primo salasso dei 15 euro di sosta giornaliera,
una bastonata sui coglioni che si aggiunge alla cifra esosa sborsata per
il biglietto. Completato il percorso che separa dagli ingressi, la
seconda amara constatazione; ci si para davanti una coda infinita per
entrare nell’area concerti, formatasi a causa delle lunghe operazioni di
controllo zaini, effettuate due volte e con la meticolosità di chi si
attende un attacco terroristico da un momento all’altro. Fa già un caldo
assassino quando entriamo, sono appena le 14 e appena vediamo l’area in
cui si svolge la manifestazione ci viene voglia di tornare a casa.
Lunga e stretta, con due torrette inutili a stringere ancora più gli
spazi, l’orrida gabbia davanti oramai inespugnabile, sorvegliata da uno
squadrone di security, messo lì a rigettare indietro tutti tranne i
pochi che fin dal mattino hanno sfidato caldo e fatica per guadagnarsi i
posti migliori. Una inutile mattanza escogitata per far entrare la
gente il prima possibile e obbligarli a soffrire sull’asfalto,
superficie notoriamente adatta a cuocere le persone e alla quale,
all’estero, se possono, preferiscono l’erba, a quanto pare allergica
agli organizzatori nostrani. Ovviamente non c’è uno spazio uno provvisto
di acqua corrente, ovviamente non ci sono spazi all’ombra al di fuori
dei pochi tendoni dedicati alla ristorazione. Per bere e mangiare, come
si usa in Italia, prezzi alle stelle e qualità bassa.
Quando
iniziano i concerti, è chiaro che per stare in una posizione non
eccessivamente defilata ci sia da sconfiggere il limite
dell’impenetrabilità dei corpi. Ressa disumana fin dagli Anthrax,
peggiorata dall’effetto schiacciamento provocato dalle transenne e
dalle due torrette. Se si aggiunge un’altezza del palco insufficiente,
che costringe a stare sulle punte dei piedi appena c’è qualcuno davanti,
e l’aver posto lo stage contro sole, capirete che delizia si sia dovuta
sopportare.
Arriviamo quindi a un altro punto parecchio dolente, ovvero la qualità dei suoni, tristemente oltre l’indecenza, Metallica a parte. Anthrax, Megadeth e Slayer
hanno avuto suoni ridicoli per volumi e qualità, da boicottaggio, e
guarda caso i suoni nettamente migliori li hanno avuti gli headliner,
che sembrava avessero a disposizione 10 volte tanto la potenza di suono
degli altri gruppi. A leggere i commenti in giro per la rete, sembra che
in tanti abbiano visto l’apparizione di una entità celeste al Big 4, il
che cozzerebbe con quanto enunciato nelle righe precedenti. La
spiegazione è semplice: non c’era il normale pubblico metal, per la
maggior parte i presenti erano persone che di solito ai concerti non
vanno, oppure si muovono per Vasco Rossi e Ligabue o qualche altro nome
mainstream. Va da sé che per costoro, dinanzi a un concerto
oggettivamente di gran livello come quello dei Metallica, abbiano avuto
la sensazione di toccare il cielo con un dito. Per chi scrive, avendo
vissuto quasi tre settimane prima l’esperienza galattica dell’Hellfest e
avendo partecipato in passato a eventi organizzati con maggior criterio
e nomi comunque di rilievo, è stata una giornata da dimenticare. Per
quel che mi riguarda, mi terrò bene alla larga dai grandi eventi Live
per gli anni a venire.
Giovanni Mascherpa

I disastri arrivano sovente da lontano. Non si combinano in pochi
giorni, ci vuole dedizione anche a farsi del male. Gli Anthrax si sono
tirati la zappa sui piedi nel momento stesso in cui hanno deciso di
riprendersi Belladonna in formazione nel 2005, perdendo uno dei singer più pregiati della storia qual è John Bush. Il cantante di Spreading The Disease e Among The Living
è oramai la caricatura di se stesso, e lo dimostra ampiamente nella
prima esibizione di giornata, disastrosa oltre l’immaginabile, non solo
per colpa dell’inadeguatezza del singer. Intanto i suoni, che oltre ad
essere bassi come se provenissero da Piazza Duomo hanno tutti i livelli
fuori posto e mortificano ogni strumento. Seguono a ruota i singoli
membri della band, Benante escluso: errori a go-go, riff irriconoscibili, stacchi completamente sbagliati. Un’ecatombe.
Si capisce che le cose girano storte già con l’opener Caught In A Mosh,
sulla quale si manifesta la comprensibile esaltazione di sentire un
pezzo di tale calibro, ma si ha subito l’impressione di ascoltare una
brutta copia dei migliori Anthrax. Belladonna è già in affanno e non
tiene mezza nota, non ci fosse il pubblico a rinforzare i cori saremmo
prematuramente ai titoli di coda. La scaletta, come annunciato urbi et
orbi sul web, è di indiscutibile fascino, peccato latitino gli
interpreti. Indians, Got The Time, Antisocial, Medusa,
non ne scampa una dalla giornata no della truppa newyorkese, con
Belladonna sempre più imbarazzante col trascorrere dei minuti. Di dubbio
gusto e assolutamente fintissima, anche se omaggiata da un boato da
stadio, la comparsa di Scott Ian dopo una manciata di pezzi. Il
chitarrista dichiara che questa è la sua prima data del tour e aggiunge,
molto ruffianamente, che ci teneva a tutti i costi a esserci proprio in
Italia, mostrando la stessa credibilità con la quale deve avere
imbonito i fans di altri 10 stati diversi, ripetendo la medesima scena.
Tra i tanti sprazzi da buttare nell’angolo più buio e dimenticato del
proprio cervello sceglierei l’ardito tentativo di emulazione di Bush
operato da Belladonna in Only, l’unico estratto dal florido periodo, artisticamente parlando, nel quale l’ex Armored Saint
occupava il posto di cantante. Tralasciando gli sguardi perplessi di
quasi tutti i presenti, che manco avevano idea di cosa avessero
combinato gli Anthrax dopo gli anni ’80, si inorridisce nel sentire una
delle travi portanti di Sound Of White Noise essere calpestata in
così completa noncuranza, tra vocalizzi solo abbozzati e presto
dispersi in urletti asfittici e senso del groove mandato a farsi
benedire. Chiude questo scempio I Am The Law, e finalmente le orecchie trovano riposo.
Giovanni Mascherpa

L’intro di “Trust” accoglie sul palco la band di Dave Mustaine, che al
dire il vero non parte proprio benissimo, visto che anche le successive
“In My Darkest Hour” e “Wake Up Dead” non sono eseguite col piglio
tipico di chi vuole farsi valere, complici anche i suoni osceni e i
volumi bassissimi. Con la successiva “Hangar 18” però la situazione
cambia radicalmente, e come un buon vecchio motore diesel che ha bisogno
di scaldarsi un po’ prima di dare il meglio di sé, i Megadeth
cominciano ad ingranare, mostrando a tutti la loro perizia tecnica
invidiabile, esaltata da una chimica di gruppo che sembra essere
praticamente perfetta, merito soprattutto di un Chris Broderick
pazzesco, che suona con naturalezza e semplicità anche le parti e i
solos più intricati come se militasse nella band da anni. Benissimo
anche la sezione ritmica, con il solito Ellefson preciso come un
metronomo e un Drover che migliora concerto dopo concerto. Tra i grandi
classici come “Sweating Bullets” , “A Tout Le Monde” e “Symphony Of
Destruction”, i Megadeth regalano ai fan l’inedita “Public Enemy No. 1”,
che a dire il vero non ha impressionato più di tanto i presenti, vuoi
per la totale mancanza di conoscenza della canzone da parte del
pubblico, vuoi perché il pezzo risulta alquanto moscio e poco
coinvolgente. L’apoteosi arriva pero’ verso la fine del concerto, quando
dopo avere proposto la praticamente onnipresente “She Wolf”, i quattro
eseguono la pietra miliare “Peace Sells” e il capolavoro “Holy Wars…The
Punishment Due”, che esaltano a dismisura i metal kids presenti. Una
prova più che discreta, nulla da dire. Come esecutori rimangono
sicuramente i migliori del lotto, il problema è che la voce di Megadave
stasera non era proprio perfetta (per usare un eufemismo), e la scaletta
a mio parere poteva essere impostata un pochino meglio, magari
recuperando un paio di pezzi un po’ più pesanti e veloci, soprattutto
essendo benissimo a conoscenza di quale band sarebbe salita sul palco
dopo di loro. Concerto godibile, ma dai Megadeth era lecito aspettarsi
qualcosa di più.
Scaletta:
Trust
In My Darkest Hour
Wake Up Dead
Hangar 18
Head Crusher
Poison Was The Cure
1.320
Sweating Bullets
Public Enemy No.1
A Tout Le Monde
Symphony Of Destruction
She-Wolf
Peace Sells….But Who’s Buying?
Holy Wars…The Punishment Due
Wladimir Marconi

Al tramonto arrivano loro. La band che ha fatto dell’intransigenza e
della mancanza di compromessi il proprio vessillo, che non si è mai
snaturata, che ancora insegna a miriade di band estreme come si sta al
mondo. Arrivano gli Slayer. Mi è bastato incrociare per un attimo lo
sguardo di Tom Araya non appena messo piede sullo stage per capire che
il concerto sarebbe stato un vero e proprio massacro e che ci sarebbe
stato da divertirsi. E infatti non mi sbagliavo. “World Painted Blood”
apre le danze, seguita subito dopo da una “War Ensemble” eseguita con
una ferocia disumana, quasi a mettere subito in chiaro che stasera sarà
dura per chiunque reggere il confronto con i quattro di Los Angeles. Le
successive “Postmortem” e “Temptation” non fanno altro che confermare
questa tendenza e solo la successiva “Stain Of Mind” fa si che si tiri
un po’ il fiato (si fa per dire…). Una “Disciple” il cui chorus è
cantato a squarciagola dai fan assiepati sotto il palco precede “Dead
Skin Mask”, “Hate Worldwide” e “Mandatory Suicide”, che giunta alla fine
introduce improvvisamente la spaventosa “Chemical Warfare” senza
nemmeno dare al pubblico il tempo di prepararsi ad una mazzata simile.
Si continua senza pause con “Dittohead” e “Seasons In The Abyss”, che
fanno da preambolo a “Snuff” e alla sulfurea “South Of Heaven”. Quando
si pensa che “il peggio sia ormai passato” gli Slayer, come un serial
killer che infierisce sulle proprie vittime, concludono l’opera con il
micidiale trittico “Raining Blood”- “Black Magic”-“Angel Of Death”, che
scatenano un autentico inferno sotto il palco.Giunti alla fine della
scaletta non si può far altro che prendere atto della prova maiuscola
della band californiana. Tutti in splendida forma, soprattutto Tom
Araya, che da quando è costretto a causa dell’operazione alle vertebre
cervicali a cui si è sottoposto a stare praticamente fermo, ha
guadagnato molto in prestazione vocale e sembra molto più amichevole coi
fan rispetto al solito. King è stato pressoché perfetto, e la mancanza
del suo compare Hanneman non si è fatta sentire più di tanto, visto che
il sostituto Gary Holt ha svolto il suo compito in maniera egregia. Di
Lombardo neanche parlo, è talmente mostruoso che a volte mi fa venire
seri dubbi sul fatto che sia umano o meno. Sognavo e speravo di
assistere ad una prova del genere. Lo volevo perché ultimamente un po’
troppa gente li dava per finiti, per scoppiati. In troppi avevano
dubitato di loro, sostenendo che non erano più quelli di un tempo. Bene ,
gli Slayer stasera hanno risposto a modo loro, tappando la bocca a
tutti quanti, dimostrando che quando sono in forma non ce n’è per
nessuno. Sono saliti sul palco, hanno spaccato tutto e se ne sono andati
come se nulla fosse. L’unica nota vergognosa sono stati i volumi da
oratorio che li hanno accompagnati durante l’esecuzione dell’intera
setlist. Avessero avuto i volumi che stranamente si sono fatti più alti e
potenti durante il concerto dei Metallica, avrebbero raso al suolo
l’intera area concerti. Ma chissenefrega, quando questi suonano in
questo modo puoi solo ringraziare di avere assistito ad uno degli
spettacoli più intensi che il metal possa mai regalare. A mio parere i
migliori. E non solo stasera.
Scaletta:
World Painted Blood
War Ensemble
Postmortem
Temptation
Stain Of Mind
Disciple
Dead Skin Mask
Hate Worldwide
Mandatory Suicide
Chemical Warfare
Dittohead
Dead Skin Mask
Seasons In The Abyss
Snuff
South Of Heaven
Raining Blood
Black Magic
Angel Of Death
Wladimir Marconi

Al di là di gusti e disgusti sugli ultimo 20 anni di dischi, l’ambito
live è rimasto per i Metallica una inattaccabile torre d’avorio, un
habitat in cui non sono mai scesi da livelli d’eccellenza anche quando
l’ispirazione dei dischi era, molto eufemisticamente, latitante. Con il
furbesco ritorno al metal di Death Magnetic si poteva immaginare
che la scelta dei pezzi da eseguire dal vivo potesse orientarsi verso le
bordate thrash del primo periodo, certamente neanche i più ottimisti
avrebbero immaginato una set-list così infarcita di classici come poi è
effettivamente avvenuto.
Da consumati uomini di spettacolo quali
sono e famosi per i palchi faraonici e di grande impatto visivo, i
Metallica optano per questo tour per uno stage scarno a livello
architettonico, poiché il fulcro visuale diventano stavolta le immagini
dei quattro mentre suonano e delle prime file adoranti, rimandate
attraverso l’enorme sfondo e i maxischermi ai lati del palcoscenico.
Dopo la solita intro morriconiana contornata dalle immagini de Il Buono, Il Brutto e Il Cattivo, ecco la prima scarica di elettricità: Hit The Light
è un cavo ad alta tensione che fulmina la moltitudine accorsa a Rho
Fiera. Come volevasi dimostrare, i suoni dei primi tre gruppi erano
stati tenuti deliberatamente bassi per essere innalzati in modo
spropositato con gli headliner, così da evitare scomodi paragoni a
Hetfield e compagni in caso di concerto super di uno degli altri Big 4.
Doverose polemiche a parte, è chiaro che il gruppo è in palla e bramoso
di fare la voce grossa. Arriva Master Of Puppets e al fuoco di
fila del primo pezzo si sostituisce un bombardamento atomico: il
sentimento di dominazione dittatoriale promulgato dal pezzo schiaccia
inesorabilmente sia i fans più scafati che i novizi, uniti in un unico,
roboante coro, quando James concede la parola, invero abbastanza spesso.
Il leader della formazione, da vecchio marpione qual è, spreme ogni
stilla di energia per essere all’altezza della sua fama, e se alla
chitarra ritmica non perde un colpo, è chiaro che la scelta di far
cantare l’audience appena possibile è una soluzione necessaria per non
lasciarlo completamente senza ossigeno. I Four Horsemen continuano a far
tremare le coronarie della fascia più tenacemente metallica dei
presenti e scaricano in faccia il primo di una clamorosa serie di
ripescaggi, The Shortest Straw. I primi accenni di quiete arrivano con Welcome Home (Sanitarium), melodia benedetta anche da chi vorrebbe i ‘Tallica sempre col coltello tra i denti. Ride The Lightning inonda di riff vincenti l’Arena prima del piccolo squarcio dedicato alla produzione post anni ’80: Through The Never, All Nightmare Long, unico estratto da Death Magnetic, e Sad But True,
si inseriscono nel contesto scintillante della serata. Giunti a questo
punto, è chiaro che la vigorosa prestazione dei nostri sta soddisfando
un po’ tutti, anche se parlare di perfezione assoluta sarebbe erroneo.
La dimestichezza con le grandi arene e le doti da entertainer permettono
di supplire a qualche piccola smagliatura, da ricercare in primis in un
Lars Ulrich più in vista per le boccacce e un modo di proporsi
molto leccato che per i colpi dati alla batteria, mentre Hetfield fa la
voce grossa alla chitarra ma alla voce, pur cavandosela, palesa qualche
difficoltà nei brani dove ci sarebbe da ringhiare feroci. Detto questo,
non va sminuita la portata tellurica dello show, che prosegue con la
monumentale The Call Of Kutulu, benedetta da una esecuzione impeccabile, e con One,
per la quale vengono utilizzati alcuni effetti scenici a base di botti e
fuochi d’artificio, in corrispondenza dei samples bellici a inizio
brano.
La botta orgasmica è prolungata dalle seguenti For Whom The Bell Tolls, Blackened, Fade To Black ed Enter Sadman.
La band quindi sparisce e sono portati sul palco altri amplificatori,
essendo il momento della cover da eseguire tutti insieme, modello
famiglia allargata, per i membri di tutti i gruppi del festival. Una
scena fintissima, diciamolo, piaciuta molto ai meno smaliziati e
decisamente di meno a chi sa benissimo che, senza palate di soldi a
giustificare la cosa, tanti di quelli saliti sul palco scambiandosi
sorrisoni non si guarderebbero nemmeno in faccia. Ad ogni modo, Die Die My Darling risulta divertente, anche se quel che arriva in chiusura è di ben altra sostanza. Damage Inc. e Creeping Death
sono un epitaffio da sogno, nessuno potrebbe chiedere di meglio e i
Four Horsemen le suonano con la brillantezza dei primi minuti.
Si
può dire che almeno gli headliner abbiano giustificato la presenza
all’evento, per i tanti non abituati ai concerti metal i Big Four
rappresenteranno l’apice della propria esistenza in fatto di musica
live, mentre la sparuta minoranza metallara se n’è tornata a casa
sognando le verdi lande tedesche, francesi, e di qualsiasi altro luogo
disposto ad accogliere con civiltà, organizzazione e decoro chi
frequenta i concerti.
Tracklist:
The Ecstasy of Gold (intro)
Hit the Lights
Master of Puppets
The Shortest Straw
Seek & Destroy
Welcome Home (Sanitarium)
Ride the Lightning
Through The Never
All Nightmare Long
Sad But True
The Call of Ktulu
One
For Whom the Bell Tolls
Blackened
Fade to Black
Enter Sandman
Die Die My Darling
Damage Inc.
Creeping Death
Giovanni Mascherpa