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COLISEUM-BISON B.C.-KVELERTAK

Quando l’underground di valore chiama, è un peccato non rispondere presente all’appello. Il trio apparso sulle assi del Magnolia l’ultimo giorno di novembre non dice molto alla massa metallara, sollazza parecchio, invece, le orecchie più smaliziate, o almeno i lettori più attenti delle webzine metal/rock sparse per la rete. Al modico prezzo di 10 euro (nulla di più, e si stenta a crederlo…) e per gentil concessione degli astri, ci viene servito un assortimento di band molto trasversali nel modo di concepire la musica dura del terzo millennio, ensemble imbarcatisi in un tour europeo con pochi danari in tasca e il desiderio di portare ovunque le proprie idee musicali. Come i Mastodon insegnano, i confini tra metal classico, hardcore, punk, sludge e rock’n’roll sono labili e in continua via di rottura, quindi non vale la pena interrogarsi su da che parte stare della barricata, meglio buttarsi a capofitto su tutto quel che passa il convento e vedere cosa se ne ricava. Ecco perché chi interpreta con maggiore libertà e songwriting oculato (leggasi: senza sperimentalismi da intellettualoidi ma con depravato killer instict) il marasma sonoro oggi a disposizione, merita supporto incondizionato e val la pena di essere ammirato in tutto il suo splendore su di un palcoscenico. Su disco mi puoi anche fottere, dal vivo o mi conquisti o la paghi. Coliseum, Bison B.C. e Kvelertak rappresentano, appunto, la categoria di quelli che se ne fregano degli steccati tra un genere e l’altro e proprio nella fusione tra suoni apparentemente inconciliabili hanno trovato la formula vincente.

Preambolo sconclusionato, questo, per introdurre prima di tutto i Kvelertak, sei ragazzacci norvegesi che fanno cozzare con una certa qual armonia punk, rock e metal estremo, con effetti non diversissimi da Disfear e Impaled Nazarene ma con una gradazione di rock’n’roll più corposa. Lo spazio angusto del Magnolia (palco messo di lato, infilato in una qualche maniera in una rientranza) esalta piuttosto che inibire il lato animalesco del sestetto, che vede alla batteria il drummer dei Coliseum per le ultime date del tour europeo, dato che il titolare ha avuto un infortunio al gomito. Poco male e poco importa, il sostituto ha imparato senza sforzi l’esiguo repertorio dei nostri, limitato all’esordio auto intitolato, fattosi notare anche dai più distratti per l’affascinante (e disturbante) copertina raffigurante un enorme gufo antropomorfo intento a cingere le spalle a due ragazze discinte. Il gruppo è composto da dei bei personaggi, vestiti alla bell’è meglio, cazzari, imbevuti di uno spirito rock purissimo, che permette loro di interpretare il concerto privi di qualsiasi inibizione e tentennamento. Pochi ma buoni i presenti, molto attenti alle gesta di questi giovanotti che regalano una mezz’ora scarsa di esibizione, ma da ogni minuto spremono sudore, caos, sangue e abrasione. I pezzi sono direttissimi, in un nanosecondo ti sembra di conoscerli da sempre e ti spacchi il collo, oh se te lo spacchi, e se non la fai sei da ricoverare. Gli urlacci di Erleèd Hjelvik e la sua esagitata presenza scenica si adattano come un guanto alla musica della band, posseduta e rolleggiante quanto basta, con volumi al limite e uno scheletro dei brani scarno e irrobustito a dismisura dalla muscolatura turgida e ipertrofica delle tre chitarre, una muraglia di corrosione impenetrabile a chicchessia. Una ineffabile orgia di rumore ci assale, il tambureggiare insistito sui medesimi patterns di batteria dà un senso di ipnosi strisciante che manda tutto al collasso e suggella una performance benedetta dagli dei del rock. Da tenere d’occhio ora e per il futuro.

Il bisonte della British Columbia è una bestia strana, sguscia via da facili definizioni e consuetudini. Come chi li ha preceduti, i musicisti hanno l’aria svagata e sorniona di chi non si prende troppo sul serio e prende la vita così come viene, e pazienza se il tour lo si fa con poche risorse, stipati in due metri quadri e non esattamente davanti a folle oceaniche. Due voci ad inseguirsi su coordinate feroci e impulsive, un’urgenza hardcore esorbitante bellamente lordata dallo stoner/doom e corde di chitarra ai limiti dell’esplosione: quando il concerto ha inizio, è un vortice da tornado quello che cala all’interno del Magnolia. Delle band di stasera, i Bison B.C. sono quella più fedele al metal e ciò si sente nei lunghi fraseggi strumentali che compaiono dopo i primi minuti di stordente furore. Lava incandescente sgorga dalle chitarre di Dan And e James Gnarwell, una materia modellata in infinite forme, che può assumere quelle di un demone nel pieno della sua ira, come quelle di un angelo salvatore. Gli squarci di melodia offerti dai quattro, pochi e sopraffini, denotano molte assonanze coi Mastodon, ma non sfociano nel plagio e mantengono il gruppo sfuggente a ogni facile definizione che non sia quella di metal band coi contro cazzi.
Una grandiosa attitudine underground sostiene i quattro nel loro nomadismo sonoro e geografico (sono sempre in tour, casa non la vedono manco col binocolo), gli consente tra l’altro di fottersene di ogni orpello scenico e di concentrarsi solo sulla musica, e pazienza se anche la strumentazione sta insieme quasi per miracolo, vedi il basso incerottato di Masa Anzai. Il sound grosso e senza compromessi del Bisonte entra in testa e non ti lascia tanto facilmente, state sicuri che se passate sulla sua strada vi travolge. E qual piacevole dolor.

Dopo due gruppi dai suoni esagerati, l’impatto dei Coliseum, in formazione a tre e con una sola chitarra, è quasi leggero. C’è da far l’orecchio a un ensemble simile ma diverso rispetto a chi li ha preceduti: più punk, dissonante, tagliente e obliquo piuttosto che massiccio, il sound del terzetto del Kentucky non stenta poi molto ad attecchire nell’audience, subito rapita dalle acide sferzate degli americani. Il bassista Mike Pascal prende a calci il muro e si agita disordinatamente per lo stage, il barbuto bassista/cantante Ryan Patterson graffia e bastona che è un piacere, non andandoci mai giù leggero e mostrando un crescendo di virulenza notevole. Il livello della performance, infatti, cresce in sconquassamento e non fa rimpiangere quanto visto finora, anzi, mostra un’altra visuale dei modellamenti subiti dall’hardcore negli ultimi anni. Dritti al punto come potevano essere i loro colleghi degli eighties, i Coliseum hanno un grado di psicosi e di sofisticazione che li rende originali e sanguigni allo stesso tempo. Patterson non si limita a urlare con tutta la forza che ha in corpo, tra un pezzo e l’altro si prodiga in ringraziamenti al pubblico e non smette di ricordare quanto sia importante per la band il rapporto coi propri fans. Tra i tanti che usano parole di circostanza, i Coliseum danno l’idea di quelli che credono fortemente in quello che dicono e ciò rappresenta un altro piccolo tassello a favore dei tre, che a fine show staccano la strumentazione senza troppe cerimonie e fanno fagotto, minimali anche in questo dopo tre quarti d’ora di song brevi e sferzanti, dai pochi fronzoli e dall’appeal assicurato. Finisce la serata, e ce ne andiamo dall’accogliente venue a due passi dall’aeroporto di Linate con la sensazione di averci visto giusto a staccarci dal divano di casa e aver azzardato l’ascolto di tre realtà fino a qualche ora prima a noi sconosciute, e ora nella lista delle band da approfondire a ogni costo.