Per i Crashdiet l’Italia è evidentemente una seconda casa. In un anno, il 2011, che li ha visti in giro da primavera fino a pieno inverno, hanno fatto visita nel Belpaese sia a inizio che a fine tour. Mentre in aprile aprivano per dioscuri del glam The 69 Eyes e Hardcore Superstar, ora hanno modo di ritagliarsi il loro meritato spazio da headliner. Per la data milanese l’appuntamento è fissato nel piccolo ma accogliente Legend 54, un po’ defilato in zona nord del capoluogo lombardo, in un quartiere che definire grigio è poco. A supporto delle star svedesi due compagini nostrane, Tabby Cats e Hell In The Club, con i primi abbastanza discutibili e modesti, oltre che non perfettamente in linea con le coordinate soniche della serata, e i secondi degni emuli dei migliori nomi della scena attuale.
Giocano praticamente in casa i Tabby Cats, in città sono abbastanza conosciuti e possono godere di un buon supporto nonostante non siano glam al 100% e abbiano molto di punk e, in generale, del rock commerciale americano nel sound. Contagiano le prime file con tanto entusiasmo e voglia di scatenarsi, macinano le loro canzoni facili facili con un largo sorriso sulle labbra, creando un dialogo immediato con l’audience. Per il puro e semplice intrattenimento possono andare bene, se si pretende qualcosa di meglio allora bisogna cambiare aria: le canzoni sono poverelle, davvero all’acqua di rose, dalle poche idee e dall’interpretazione perfettibile, approssimativa sotto ogni punto di vista. Sono appena accettabili i pezzi più rockeggianti, quelli dalle melodie più in evidenza invece si inabissano nel pop/punk a stelle strisce, e tanto per marcare bene le proprie fonti di ispirazione propongono una cover dei Sum 41 (???!!!!). Per fortuna si intendono bene con la maggior parte dei presenti, che vanno dietro alla loro leggerezza e sembrano gradire l’umorismo adolescenziale del singer. Finale con il palco gremito di gente e serata, in ultima analisi, positiva per il riscontro del pubblico, nonostante una prestazione per nulla trascendentale.
Immagine curatissima da glamster doc, gli Hell In The Club si presentano sulle assi del Legend 54 con ben altra solidità rispetto a chi li ha preceduti. Voce nasale e leggermente strascicata, il vocalist/chitarrista Dave mostra la tempra del leader e anche i suoi compagni denotano professionalità e disinvoltura nello stare sul palco. Da poco fuori con il primo disco Let The Games Begin, i quattro hanno da offrire un cocktail di vecchi trucchi del mestiere: linee melodiche frizzanti, chorus lascivi, cadenze abbastanza spinte, oltre a una cura per gli assoli che regala qualche piccola delizia tecnica.
Il materiale originale fa faville, né troppo leggero né eccessivamente heavy, si apre facilmente breccia tra i fans dei Crashdiet, che non rimangono fermi a braccia conserte e rispondono prontamente agli stimoli provenienti dal palco.
Singolare l’atteggiamento sobrio scelto dalla band, tutto sommato controllata per essere interprete di un genere figlio degli eccessi come pochi altri, ma questo non intacca la bontà della prova, corroborata da un paio di cover ben interpretate. La prima è “Lit Up” dei Buckcherry, grazie alla quale si accende un prolungato sing-a-long orchestrato dal singer, la seconda è “Same Ol’ Situation (S.O.S.)” dei Motley Crue, molto competitiva nel confronto con l’originale e specchio di un gruppo nient’affatto male sia per qualità dei pezzi che per il modo di intendere il live.
“Breakin’ The Chainz” schiude le porte all’universo festaiolo e ribelle del quintetto svedese, padrone della situazione già al primo ritornello, intonato da tutti i propri aficionados, ben riscaldati dalle esibizioni precedenti. I volumi non sono il massimo, non si alzeranno per l’intero concerto, ma basta la spinta del pubblico a sopperire abbondantemente a questa pecca. Si nota chiaramente che il nuovo frontman Simon Cruz, rispetto a come lo avevamo visto nel 2010, si è ormai calato perfettamente nel ruolo e si muove per il palco in assoluta scioltezza; è migliorata anche la tenuta vocale, difatti non sfigura sia nei pezzi tratti da “Generation Wild”, sia negli estratti dai primi due dischi. Non pretende di cantare alla stessa maniera dei due cantanti venuti prima di lui, interpreta alla sua maniera e non esce sconfitto nel confronto con le versioni degli stessi brani in studio. La scaletta è proporzionalmente suddivisa fra i tre album finora pubblicati, con poche sorprese e un maggior entusiasmo suscitato nei pezzi più incalzanti, piuttosto che in quelli ad alto tasso di melodia. Le canzoni più cariche e ritmate sono quelle che fanno cantare e muovere un po’ tutti, i momenti clou arrivano proprio in corrispondenza delle varie “In The Raw”, “Riot In Everyone”, “Queen Obscene/69 Shots Of Gasoline”. Duranti questi brani, in corrispondenza del chorus, la band è quasi sovrastata dal calore del pubblico, veramente generoso nel tributare onori al combo svedese, che vista l’età media dei presenti pare faccia breccia soprattutto sugli adolescenti, anche se non mancano rocker di vecchia data, glamster incalliti e metallari di lungo e medio corso. Nessun calo di tono e nessuna incertezza frenano i Crashdiet, che si congedano dopo poco più di un’ora con il manifesto d’intenti “Generation Wild”, lasciando tutti soddisfatti, soprattutto le girls salite sul palco su invito della band verso la fine dell’esibizione. Gli svedesi sono sempre più una sicurezza della scena hard rock attuale.