Successivamente alla reunion del 2008 i Cynic non hanno smesso un attimo di girare il mondo e sfornare nuova musica, imbarcandosi in lunghi tour che non hanno mai lasciato fuori la nostra penisola. Grazie all’amicizia di lunga data fra Trevor dei Sadist e la band ci sono state un alcune date da puro culto nel 2008 e nel 2010, ora è il turno del Rock’n’Roll di Romagnano Sesia ospitare il combo di Masvidal e Reinert, che alla luce dell’ultimo ep sembra volgere il proprio sguardo a una musica sempre più lontana dal metal e tendente a suoni sfumati, soffusi, destinati a ricreare una dimensione meditativa dai pochi agganci con quanto prodotto nella prima fase di carriera. E’ anche l’occasione per testare la validità della nuova line-up, visto che accanto ai due membri storici figurano due new entry al basso e alla chitarra in sostituzione di Robin Zielhorst e Tymon Kruidenier. In tournee con gli autori di “Focus” troviamo i misconosciuti Chimp Spanner, formazione strumentale inglese in bilico tra progressive, post-core e post-rock, mentre in apertura ci sono gli Onelegman, band italiana approdata quest’anno all’esordio discografico con “The Crack”.
Davanti a un pubblico già piuttosto folto e formato in larga parte da giovanissimi, in parziale controtendenza rispetto alle precedenti apparizioni italiane dei Cynic, nelle quali vi era stato un forte zoccolo duro di deathsters navigati tra i presenti, provano a scaldare la venue gli Onelegman. La line-up, a dispetto dei pochi anni di attività della band, non è poi così giovane e appare sufficientemente rodata e in grado di tenere con molta professionalità il palco. Il genere proposto non è esattamente in linea con gli headliner né con l’altro gruppo di supporto, nonostante ciò la partecipazione emotiva risulta essere discreta fin dalle prime battute. Si evidenzia subito la reale natura dei nostri, fautori di un crossover dalle forti similitudini con il filone new metal di seconda metà anni ’90. Le ritmiche si destreggiano nella classica contrapposizione fra aperture impetuose e rallentamenti groovy, mentre la chitarra ha modo di svariare fra molteplici registri, annoverando riff rock, istrionismi assortiti, assoli ben calibrati e improvvise incursioni nel metal. La voce convince solo a tratti, nelle parti melodiche e nei chorus incarna spesso gli stereotipi del rock moderno americano e del tanto vituperato new metal, se la cava con urlate rabbiose nei frangenti più infuriati ed esce davvero convincente, così come tutto il gruppo, nelle parti fuori dagli schemi che ogni tanto gli Onelegman si ricordano di suonare per dare un senso al termine “crossover”. Quando finalmente la batteria esplode in una serie di patterns irregolari e singhiozzanti, la chitarra inizia a delirare e il singer si butta a pesce in vocalizzi “pattoniani”, prende finalmente forma qualcosa di veramente interessante: il resto è piacevole, superiore alla media del materiale new metal che si poteva sentire nel periodo di massimo successo del genere, ma non si odono pezzi davvero memorabili. Al di là delle perplessità personali, va detto che si crea una buona chimica tra musicisti e spettatori, che supportano con applausi convinti le gesta dei quattro e non mostrano alcuna freddezza per il loro operato. Gli Onelegman se ne accorgono e non mancano di ringraziare sentitamente un’audience da cui hanno probabilmente ricevuto più di quanto si aspettassero.
La faccia di una scimmietta stilizzata ci sorride dal maxischermo a fondo stage e da due teloni posti in mezzo al palco: è il simbolo, abbastanza enigmatico, dei Chimp Spanner, compagni di tour dei Cynic dei quali nessuno o quasi, prima di stasera, ha mai sentito parlare in Italia. Si presentano con un breve discorso di uno dei due chitarristi, probabilmente il leader del quartetto, visto che è dal suo strumento che passano le linee guida delle trame sonore. L’assenza di un singer fa sì che ci sia campo libero a ogni possibile scorribanda strumentale e si possa insistere fino allo sfinimento sugli intrecci strumentali, oltre che su un dinamismo esasperato, frutto della maestria del responsabile dei tamburi, incline a non concedere tregua ai suoi compari, messi realmente a dura prova dalle poche concessioni alla linearità fatte dal drummer. I suoni sono liquidi, pulitissimi e sempre potenti, fragorosi, perché è vero che i Chimp Spanner inondano di melodia le composizioni, ma ci tengono a mantenere una discreta “botta”. I pezzi viaggiano veloci, strabordanti di assoli e ritmiche intricate, creando l’effetto di uno sferragliamento celestiale, interrotto da stacchi melliflui, in alcuni casi fin troppo languidi, mentre in altri momenti il riffing si compatta all’inverosimile fino a una sorta di Meshuggah/Fear Factory in versione leggermente più edulcorata. Una musica per far viaggiare la mente, per perdersi, per rimanere abbagliati; i Chimp Spanner potrebbero essere la colonna sonora di un’esplosione stellare e tendono al siderale in ogni istante dell’esibizione. La loro proposta risulta stranamente immediata, non scivola nel tedio, ha qualche leggero cedimento nelle parti affrontate con meno foga, in cui non guasterebbe un supporto vocale, ma in generale i ragazzi si difendono bene e si beccano i favori di un pubblico che pur non conoscendoli è ben disposto verso un metal tanto progressivo e celestiale e ne dà prova con ovazioni e scrosci di applausi nello spazio tra un pezzo e l’altro. In poche parole, un buon antipasto per la portata principale della serata.
A vedere il Rock’n’Roll tanto gremito e adorante, impaziente di essere circondato dalle ariose volute sonore di Masvidal e dal dedalo percussivo di Reinert, viene da pensare che finalmente i Cynic stiano avendo il successo mancato per manifesto avanguardismo all’epoca di “Focus”. I nostri hanno aperto una breccia anche tra gli under 20, numerosissimi all’interno del locale novarese, tanti alla prima esperienza live con i maestri americani.
Masvidal sfoggia la consueta calma olimpica, lo sguardo timido e in pace col mondo, l’atteggiamento rilassato, ne fanno un unicum del panorama metal mondiale; eppure, questo leader silenzioso emana un carisma molto più forte di molte piccole e grandi rockstar dai comportamenti sopra le righe. Piazzato al lato destro del palco, introduce con pizzicori misurati alla sei corde il primo pezzo della serata, tratto dall’ultima fatica in studio “Carbon-Base Anatomy”. Di metal qua non c’è traccia, i suoni sono delicatissimi, idem la voce, qualche leggero sussulto arriva giusto da un tappeto ritmico pacato ma assai poco lineare, il resto è un qualcosa di impalpabile come la tela di un ragno, vicino a una dimensione spirituale e trascendente ancora più del materiale precedente degli americani. Il concerto fortunatamente non scivola verso una reinterpretazione in chiave non-metal di quanto prodotto in passato, e se il futuro vedrà probabilmente i Cynic sempre più lontani dai gusti del metallaro medio, oggi una certa durezza si sente ancora, anche se pure i riff più energici risuonano sfumati e ovattati. I nuovi arrivati hanno esclusivamente compiti di gregariato, il basso rimane abbastanza nascosto e sovrastato dal tocco di Reinert, la seconda chitarra si limita a dare risalto ai dettami impartiti da quella di Masvidal, che accende di un lucore accecante ogni nota, le dona vita, dolcezza suprema. Ogni assolo scatena stupore e deliri assortiti, in molti sgranano gli occhi e cercano di imprimere indelebilmente nella propria memoria gli attimi che stanno vivendo, sicuri che una tale estasi non la si vive tutti i giorni. Il feeling meravigliosamente alieno della voce bionica di Paul e dei riff intrippati di fusion, lanciati fuori da ogni logica terrena, lasciano di stucco chi non ha mai potuto apprezzare il gruppo dal vivo, mentre per quelli che hanno già avuto questa esperienza si tratta di una gradita conferma. La scaletta è leggermente più sbilanciata su quanto creato da “Traced In Air” in avanti, quel poco di asprezza presente nei Cynic degli anni ’90 rimane giusto nel growl, senza infamia e senza lode, di Max Phelps, e anche i brani di “Focus” sembrano, più o meno percettibilmente, ulteriormente levigati e ammorbiditi rispetto a come li ricordavamo. Ad ogni modo, una “Veil Of Maya” o “How Could I” destano ancora adesso entusiasmi incontenibili, assieme ai pezzi più conosciuti dell’ultimo full-lenght, vedi ad esempio il ritornello di “Evolutionary Sleeper” cantato sospirando da buona parte degli astanti.
Ancora una volta, abbiamo assistito a una esperienza uditiva fuori dai canoni e da qualsivoglia paragone, uno spaccato di un altro mondo scevro delle nevrosi e delle negatività della vita reale e avviluppato in una serenità e una pace estatica. Certo, la deriva verso fusion, jazz, sperimentazione potrà allontanare a poco a poco i fans della prima ora, ma la qualità della musica, siamo sicuri, resterà eccelsa, come oggi ci è stato modo di apprezzare un’altra volta.