Serata grandi firme al Fillmore di Cortemaggiore, il secondo sabato di aprile accoglie nel locale piacentino la calata di un quartetto nerboruto e fantasioso, che tocca l’Italia in questa sede e a Roma nel giorno seguente. Due date di un tour europeo dove tre vassalli di buon valore accompagnano una delle live band più incendiarie della storia recente, e non solo, dell’heavy metal.
I Death Angel ci omaggiano della loro presenza nel tour di supporto ad un disco, “Killing Season”, che ha avuto responsi altalenanti; la sua furia, la sua voglia di picchiar duro senza troppi intermediazioni, va infatti a scontrarsi con una eccessiva semplificazione delle trame sonore, un tempo ricche di intrecci chitarristici, di contaminazioni funky, soul e molto altro ancora, corredate da contorcimenti ritmici dilanianti, tutti elementi che nell’ultimo nato si trovano a stento.
Nonostante le perplessità sulla loro ultima fatica in studio, però, la carica assassina che riescono a sprigionare on-stage queste leggende del thrash californiano è sempre un ottimo motivo per riversarsi in massa a un loro concerto, considerato anche il ricco antipasto alla loro esibizione.
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Si inizia poco dopo le 21 con quegli sguaiati casinari degli Extrema, di cui purtroppo perdiamo le prime canzoni; hanno poco tempo a disposizione, una mezz’oretta scarsa, ed è davvero un peccato che nemmeno in Italia abbiano goduto di maggior rilevanza nel bill. La ciurma del Perotti non se ne lagna, prende a cazzotti il pubblico col suo mix vincente di thrash, groove e melodie catchy, che appaiono a stemperare la tensione, tra una sfuriata e l’altra del quartetto. Per questo tour cambia il bassista, dalla vistosissima cresta rossa e con qualche anno di meno di colui che va sostituire; è questo un avvicendamento solo temporaneo, che nulla toglie all’impatto del gruppo, sostenuto da alcuni suoi fedelissimi sotto il palco, un vero e proprio Extrema Team che cerca di scatenare un po’ di mosh in un pubblico abbastanza fermo e non molto numeroso. La prestazione dei milanesi è comunque adrenalinica, vivace e compatta come da tradizione e l’interazione con chi è nelle vicinanze dello stage è forte e calorosa; pur non supportati da una condizione ambientale positivamente animalesca, come quella dell’Italian Gods, la performance convince appieno.

Mentre l’affluenza va lentamente crescendo, si schiude il tendone (siamo in un ex-teatro e tale orpello scenico è rimasto) per lasciar spazio ai Demolition, che hanno tutto della band thrash tedesca brutta-sporca-cattiva. In verità sono austriaci, ma la sostanza non cambia. Singer grezzissimo con canotta della salute nera corta, che lascia intravedere un ombelico ben poco sexy e un’ordinaria pancetta etilica, gli altri quattro membri dell’ensemble seguono a ruota in termini di stile e la musica proposta è in linea con l’immagine trasandata dei musicisti. Thrash della vecchia scuola, qualche vaga influenza death nel cantato sporco di Wolfgang Süssenbeck e tanta energia, in brani dove è il mid-tempo serrato e velenoso a farla da padrone, con le accelerazioni relegate al ruolo di colpi finali da assestare all’ascoltatore. Il singer dichiara origini napoletane da parte di padre e in effetti sfodera un buon italiano, con cui arringa spesso e volentieri la folla. Anche uno dei due chitarristi comunica con orgoglio le proprie italiche radici e intanto cerca con occhio voglioso e piacione pulzelle tra il pubblico. Sono un’onesta band di genere questi tedeschi e si sente che la passione per il genere e la convinzione nella propria musica è davvero genuina, risultando una gradita sorpresa della serata.

Dopo due gruppi squisitamente rozzi e casinari, piomba una certa eleganza e raffinatezza stilistica coi Mercenary, sestetto danese in bilico tra power melodico, sfumature virtuosistiche e thrash alla svedese, ossia cromato e scintillante come l’ondata dei gruppi dei 90’ ha insegnato. Se a livello di sonorità le cose cambiano parecchio, ciò che gli svedesi hanno in comune con chi li ha preceduti è la disinvoltura con cui stanno sul palco e approcciano l’audience. Le capacità strumentali sono ottime e assecondano il divagare della band tra melodie trascinanti, guidate dal singing, spinto su tonalità molto estese, di Mikkel Sandager, e gli intrecci di chitarre più serrati, il tutto accompagnato da tastiere molto presenti ma non esageratamente sviolinanti. C’è anche un contraltare più ruvido al lead vocalist, nella persona del corpulento bassista René Pedersen, che a dire il vero è l’elemento meno convincente di tutto il canovaccio.
L’audience reagisce con meno fervore di prima, lo sbarluccichio strumentistico dei Mercenary coinvolge solo le prime file ma, al di là del fatto che non incontrano in pieno i gusti di chi li ascolta, anche questo gruppo fornisce una performance di spessore.

Scocca la mezzanotte, gli occhi dei presenti sono ora vigili e attenti in direzione del palco, calano i Death Angel. Qui sarebe opportuno fermarsi, perché ogni parola pronunciata per descrivere quel che accade sopra e sotto lo stage nell’ora e tre quarti di concerto, sarebbe superflua e incolore, rispetto alla pura realtà dei fatti. Il verbo scritto non può dire dell’energia, del feeling supremo, del senso di onnipotenza musicale che questi demoni sorridenti sanno far erompere dagli amplificatori, non ci sono spiegazioni razionali alla mostruosa forza dirompente che riescono a tirar fuori tutte le volte che suonano dal vivo, è un’alchimia che solo i Grandi hanno ed è loro unico patrimonio, un qualcosa di ignoto ai mortali.
Proviamo comunque l’ardua impresa, di dipingere a grandi ed imperfette linee quello che si può provare in compagnia di un siffatto Angelo della Morte.
L’avvio è dato dall’arpeggio di Lord Of Hate, l’opener di Killing Season, ed è subito chiaro che non sarà un concerto ordinario: quello che su disco risulta un brano abbastanza scolastico e poco fantasioso, qui al Fillmore stacca letteralmente la testa dalle spalle, incandescente come lava scatena un mosh leggendario. L’ultima fatica dei Death Angel la fa da padrone in scaletta e ciò permette di rivalutare in modo clamoroso pezzi che non sembravano possedere il tiro dei classici passati. Ma tant’è, chi è Re Mida del metallo tutto può e le orecchie assorbono con gaudio massimo bordate come Carnival Justice, inno al furore più cieco, o meglio ancora Buried Alive e Soulless, i cui cambi di velocità spazzano come un tornado la platea, mentre bridge e chorus delle medesime mettono a dura prova le corde vocali degli astanti.
Quando poi ci si sposta sui vecchi cavalli di battaglia, l’effetto è ancora più dirompente, con Ted Aguilar a supportare le divagazioni soliste di un Rob Cavestany che anche stasera tocca le corde della sua chitarra in modo divino, potente e preciso; egli irradia una classe suprema, che sgorga inarrestabile come il sudore dalle fronti di coloro che si agitano scomposti ai piedi del gruppo. Le scorribande di Voracious Soul e Evil Priest gettano nel caos le prime file, che possono riposare le loro membra solo quando il maestro di cerimonia Mark Osegueda decide di darci qualche attimo di tregua. Qui si compie la trasfigurazione, col piccolo singer che dopo avere intonato con iraconda passione liriche dure e senza speranza, si concede sorrisi e ringraziamenti per il calore dimostrato a lui e ai compagni; nel mentre, ci dà di superalcolici senza mostrare stordimento alcuno.
Da Act III, la melodia ricercata di Seemingly Endless Time ci ricorda qual pozzo di caleidoscopica creatività è codesta release, mentre 3rd Floor ha un attacco talmente crudo e furioso, che appare quasi modificata, dato l’impeto con cui è suonata, maggiore di quello dello stesso brano su “Frolic Through The Park”.
The Art OF Dying è rappresentato dal crescendo irresistibile The Devil Incarnate, dove Mark modula in modo diverso dal consueto la sua voce. Kill As One sembrerebbe chiudere il sipario, ma c’è ancora qualche cartuccia da sparare: la band torna a suonare dopo pochi minuti sulle note di uno dei suoi capitoli più originali, Bored, uno dei massimi esempi di thrash contaminato, che va a fondersi a un’altra perla assoluta quale Disocntinued.
Osegueda afferma che era da tantissimo tempo che codesti brani non erano eseguiti nelle esibizioni dal vivo, sottolineando così la specialità dell’evento. Tanta gentilezza d’animo è doppiata da una Throned By The Wolves mastodontica e da una Resurrection Machine assolutamente clamorosa, soprattutto se si conosce la sua primigenia versione in Killing Season. La chiusura è lasciata ad un altro estratto da The Ultraviolence, per un totale di una ventina di pezzi, dove l’unica esclusa dell’ultima release è stata The Noose, mentre il resto è stato suonato per intero, su livelli francamente allucinanti. Si noti, tra l’altro, che prima e dopo lo show i musicisti si sono trattenuti tra i fans, a cui non hanno negato foto e autografi a profusione, mostrando di essere dei gran signori e di avere un grande rispetto e per chi segue le loro gesta.
Ho già speso troppe parole, la maggior parte inutili, perché quando si assiste a spettacoli di tal fatta rimane davvero ben poco da commentare, se non suggerire, caldamente e insistentemente, a chiunque apprezzi questo tipo di musica, di andare ad assistere ad un’esibizione dei Death Angel il prima possibile. Per farsi del bene e per capire chi comanda, chi detta il massimo standard, tra i gruppi in circolazione.
Perché di gente che suona su questi livelli, in giro, ce n’è soltanto una cerchia elitaria.