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FULL OF HATE FEST

Quando venni a conoscenza del bill di questo festival, mesi fa, mi dissi: dai, non ci sperare, chissà dove lo fanno. Tempo due giorni e scopro che lo fanno ad un quarto d’ora di tangenziale da casa mia. E allora…
Eccomi al Full of Hate Festival, tour che porta in giro un bel quartetto di band da Europa e Stati Uniti. La giornata è perfetta, è cominciata bene e finirà ancora meglio.
L’esterno dell’Estragon è ormai un ritrovo per vecchi amici di concerto, alle 18:30 si aprono le porte e poco dopo inizia il concerto. È l’ora dei Keep of Kalessin.

I Norvegesi sfornano mezz’ora abbondante del loro symphonic black metal, saltellando qua e là per la loro purtroppo esigua discografia, prendendo soprattutto da Kolossus, il loro ultimo capolavoro.
L’unica pecca di questa esibizione sono stati i bassi un po’ troppo alti. Solo quello. Il quartetto fa il suo lavoro e lo fa veramente bene, c’è poco da dire.
I Keep of Kalessin sono una band purtroppo poco conosciuta ai più, ma che ha un potenziale immenso. Se da disco sono ottimi, live sono meglio. Suonano con perizia e velocità, e verso la fine ci regalano un quadretto da lasciare a bocca aperta quando il chitarrista si lancia in un’improvvisazione, seguito poi dal batterista che da prova di tutta la sua tecnicità.
Insomma, ottima prova anche se breve. Troppo breve purtroppo. In molti attorno a me speravano che tornassero sul palco, ed io ero tra questi.

Pochissimo tempo dopo ecco che saltano sul palco gli Olandesi Legion of The Damned, con il loro thrash/death veloce e molto cattivo. In tour per promuovere il loro ultimo LP, The Cult Of The Dead, la scaletta verte principalmente su quello, ma non manca anche Son Of The Jackal, che causa a dir poco il delirio tra la folla di metallari nella platea.
I Legion suonano bene e interagiscono ancora meglio col pubblico. Il cantante macina qualche kilometri e saltella come una cavalletta mentre grida nel microfono qualunque cosa che sia cattivissima.
I testi dei Legion non sono famosi per essere una band per catecumeni. Per farla breve, perché purtroppo la mia memoria per le tracklist dei concerti è a dir poco penosa, la band mette benzina su un falò già molto caldo, scaldando ancora di più il pubblico in attesa dei due grandi mostri sacri che li seguiranno sul palco di Bologna.

Al termine della loro esibizione è tempo degli statunitensi Obituary, tra le prime band death metal della storia.
Questa volta però devo dire che mi hanno un po’ deluso. A parte il bassista, molto simpatico con le sue facce divertenti ma…gli altri sembrano distanti. Certo, sono in circolazione da 20anni e hanno una certa età, ma almeno presentare le canzoni prima di cominciare sarebbe stato bello.
La scaletta prevede da quel che ricordo pezzi soprattutto dai primi album, Slowly We Rot viene cantata da buona parte del pubblico pagante, è sicuramente l’highlights della loro esibizione ma per il resto, sono apparsi troppo concentrati a finire e scendere dal palco per andarsene a dormire. Peccato, perché gli Obituary erano una delle grandi aspettative della serata.

Ed è ora del main event. Finalmente da headliner, gli svedesi Amon Amarth approdano a Bologna in tutta la loro vichingaggine, con tanto di corni alla cintura e rune incise sulle chitarre. Capelli al vento, torsi nudi e doppio pedale, la macchina da guerra marcia verso il valhalla a tutta velocità a suon di un growl potente del cantante Joan Hegg.
Beh, c’è poco da dire, sono la devastazione totale.
Il pogo che si scatena non ha eguali, i nostri si presentano in forma a dir poco smagliante, ben nutriti e pasciuti, in un’atmosfera di allegria generale sfornano la scaletta che negli ultimi giorni è apparsa su internet, ed è puro spettacolo. Hegg interagisce spesso e volentieri col pubblico, incitandolo ad urlare sempre più forte, e fomenta sempre di più questo fuoco che è scaturito dagli opener Keep of Kalessin.
La furia si scatena durante Death in Fire, con With Oden By Our Side assistiamo ad un singolare ballettino di chitarristi e bassista. Beh, è certamente un’emozione unica vedere gli Amon Amarth dal vivo, farlo dalla prima fila è sicuramente indimenticabile. E devo ammettere che farò fatica a scordarmi un concerto così ben architettato, organizzato e suonato. Sul finale poi, su The Pursuit of the Vikings, è fantastico vedere l’entusiasmo che ancora ci mettono gli svedesi, dopo tanti anni sempre in giro a suonare e a portare la mitologia norrena in tutto il mondo.
Tanto di cappello per una band che finalmente ha avuto il suo festival da headliner.
I guardiani di Asgaard non si smentiscono, così come chi li accompagna in questa marcia piena di odio in giro per il mondo.