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Gods Of Metal 2008 – Day 2

Il 27 l’abbiamo saltato, succede. Qualcuno dei nostri c’era, ma si è concentrato sugli headliner e poco altro e quindi non abbiamo di che raccontarvi dell’ennesima calata italiana degli Iron Maiden e dell’eterogeneo manipolo che li ha attorniati nelle ore precedenti alla loro esibizione.
I commenti raccolti nei giorni successivi parlano di una prestazione al solito scintillante e di alcune belle prove di illustri comprimari quali Airbourne e Apocalyptica, a testimonianza che, anche al di là dell’evento-Iron, la sostanza non è mancata a uno dei Gods Of Metal più belli della storia.
Abbondanza e qualità si sono bilanciati in un modo che è raro vedere nei nostri festival, tesi spesso a enfatizzare il ruolo dell’headliner, a discapito di un degno trattamento dei gruppi di supporto. Il canovaccio lo conoscono bene tutti quelli che frequentano i concerti da anni, vale a dire suoni pessimi, tempistiche ballerine e spesso contratte rispetto ai programmi iniziali, intoppi in serie, pubblico restio a farsi coinvolgere in massa, se non per nomi davvero grossi e, diciamolo pure, generalisti.
Non parliamo poi di tutte le diatribe sulle presunte incompatibilità di genere, che a casa nostra fanno storcere il naso appena si osa mettere uno dopo l’altro bands estreme con altre di estrazione più classica, figuriamoci poi se si piazza qualche ensemble addirittura un po’ ibridato con altri tipi di musica. Apriti cielo….e via di bottigliate.
Quest’anno invece poche balle e molta sostanza e un bill che, oltre ad essere pauroso nei nomi, si è rivelato stellare anche alla discesa in campo dei protagonisti. La giornata di sabato, in particolare, ha avuto nel sestetto finale un climax qualitativo francamente eccezionale, perché vedere sei re del metal estremo avvicendarsi sul palcoscenico con una tale carica e veemenza ha lasciato un segno indelebile nel cuore di molti appassionati.

imm

Il giovane e promettente quintetto del North Carolina, acclamato da una buona parte della critica come gruppo innovativo ed eclettico, in grado di lasciare una profonda impronta sullo sviluppo del metal a sentire i commenti di chi ben li conosce, parecchio incuriosiva chi, come il sottoscritto, della loro proposta mai ne aveva udita una nota. Sono tra l’altro i primi che riusciamo a vedere, dato che entriamo nell’Arena Parco Nord quando le ultime note degli Stormlord vanno spegnendosi.
Si vede che arrivano da un contesto musicale un po’ distante da quello che di solito si vede al Gods dato che, visivamente, sembrano quasi un gruppo di amici che suona a una festa scolastica, piuttosto che qualcuno che sta per esibirsi di fronte a un’importante platea come questa.
Dato marginale, quest’ultimo, perché quando iniziano a esibirsi le doti strumentali emergono chiare e lampanti, pur lasciando qualche personale perplessità sul reale valore dell’ensemble. Sul fatto che sappiano suonare, poco ci piove, i passaggi molto tecnici si sprecano, così come si deve riconoscere a questi ragazzi di saper giostrare songs articolate e dalle poliedriche sfumature, che saltano dall’assalto hardcore al post rock, da tenui istanti di malinconia a crescendo progressivi, forse l’elemento più incisivo in assoluto.
Da qui alle lodi sperticate, però, ce ne passa, soprattutto se si fa il confronto con quanto avverrà poco dopo con certi grossi calibri. Il concerto risulta nel suo insieme gradevole, certo, non si possono imputare impacciature o errori tecnici e anche la tenuta del palco non difetta di troppa rigidità dei protagonisti nel presentarsi al pubblico. Quello che manca invece è la classica scintilla che rende un brano apparentemente normale un pezzo da novanta, le canzoni del gruppo non infiammano come quelle dei veri grandi, ma risultano buoni esercizi di stile e nulla più.
Peccato, forse in un futuro prossimo questi simpatici americani aggiusteranno il tiro, per ora bisogna accontentarsi.

Giovanni Mascherpa

imm

A dare il via al tourbillon di giganti dell’estremo che ci trapaneranno le orecchie fino a sera ci pensano i Dillinger Escape Plan, al battesimo in un grande festival nel nostro paese, da sempre un po’ restio ad accettare gruppi così di confine come questo nelle rassegne metal.
Fortuna che oggi ad assiepare le prime file sono soprattutto extreme metallers e non c’è alcun segno di freddezza da parte dell’audience quando i cinque salgono sul palco.
L’attacco è da infarto, i Dillinger mettono subito sul piatto il loro lato più schizoide porgendo agli ascoltatori alcuni pezzi da Calculating Infinity, un disco che ha fatto epoca e le cui strutture in continua evoluzione alla velocità della luce sono riproposte pari pari al cd, con l’aggiunta di una ancor più depravata carica letale. Segnati in modo indelebile dalla pazzia della loro musica, i musicisti saltano come cavallette in ogni angolo del palco, in particolare Ben Weinman sembra davvero posseduto da un’energia inarrestabile, che lo porta ad arrampicarsi ovunque e a far roteare la sua chitarra all’impazzata, per poi riprenderla e tornare ad aggredirne le corde senza sbavature.
Greg Puciato, muscolosissimo e compatto singer, si mette addirittura a scalare l’impalcatura del palco, quasi con una mano sola, dato che nell’altra afferra saldamente il microfono.
Nella zona adiacente le transenne è l’ora delle prime mischie, non ancora così allargate come per le bands seguenti, ma già colme di invasati che, giustamente, non riescono a mantenere l’aplomb davanti all’onda sonora che li investe.
Se i brani del primo full-lenght esaltano la violenza più schizzata, gli estratti da Miss Machine e Ire Works mostrano con quanta disinvoltura i Dillinger sappiano affrontare diversi registri musicali e di come questi, anche nel contesto live, che potrebbe portare ad estremizzare tutte le componenti verso un assalto all’arma bianca, emergano in tutte le loro sfaccettature.
Da una insana Destro Secret, a una trascinante e melodica Setting Fire to Sleeping Giants non ci sono cali di prestazione e la stessa When Good Dogs Do Bad Things, nella versione originale cantata da Mike Patton, viene resa bene da Puciato, che è qualcosa in più che un semplice urlatore hardcore.
Lo sfoggio di ferina energia del quintetto si chiude con Weinman che rovescia una cassa e quasi la devasta, infine decide semplicemente di salirvi sopra e di dare ancora sfoggio dei suoi istinti animali, prima di far calare il sipario su una grande esibizione.

Giovanni Mascherpa

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In una recente intervista per la promozione del nuovo studio album dei suoi The Great Deceiver, Tomas Lindberg aveva promesso che la reunion degli At the Gates avrebbe spaccato il culo a molti. E si può affermare, senza ombra di dubbio, che lui è un uomo di parola. Era uno dei come back più attesi dell’anno. Il ritorno sulle assi di un palco di una delle band più significative degli anni ’90, che ha tracciato il solco per la nascita e la successiva esplosione planetaria del death melodico “made in Gothenburg”, che ha dato vita ad una pietra miliare del metal estremo quale Slaughter Of The Soul, ancora oggi un solido punto di riferimento per tantissimi gruppi.
L’atmosfera dell’evento è palpabile e i lati del palco, finora popolati da qualche sparuto tecnico, iniziano ad essere occupati da personaggi più o meno conosciuti, tra cui i nostri Lacuna Coil.
L’arena bolle e il fango nel pit pure quando alle 14.40 gli svedesi fanno il loro ingresso on stage. Sul fondo troneggia il telo con lo storico kalashnikov sul quale è avviluppato un serpente. Il compito di dar fuoco alle polveri spetta a Slaughter of the Soul e quando Tompa urla il fatidico “GO” si scatena l’inferno. Asciutto e tirato come sempre, con il cappellino d’ordinanza calcato sugli occhi e il portamento leggermente curvo su se stesso, Lindberg sputa nel microfono tutta la sua rabbia nichilista. I gemelli Bjorler invece pagano qualche stravizio e paiono leggermente appesantiti ma il suono velenoso e graffiante che esce dai loro strumenti è manna per tutti i metalheads che ai piedi del palco si stanno scannando come se non ci fosse domani. Il già citato Slaughter Of The Soul viene saccheggiato e qui si parla di schegge impazzite del calibro di: Cold, Suicide Nation, World Of Lies e Nausea. Vengono sparate fuori tra le acclamazioni generali anche Terminal Spirit Disease, Burning Darkness, Windows e Kingdom Gone: dei tornado! La furia e la devastazione messa in musica sono semplicemente sublimi, mentre le melodie disperate che fuoriescono da ogni loro pezzo ci assalgono inesorabili.
La band lascia per un attimo lo stage prima di darci il colpo di grazia che tutti aspettavano con la stupenda Blinded By Fear, manifesto di una delle formazioni cardine del metal estremo, che è tornata per picchiare duro.

Enrico Mascherpa

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Come si fa a non voler bene ai Testament e come fanno loro a non voler bene al pubblico Italiano?! Il 2008 è stato l’anno giusto per l’uscita del loro nuovo attesissimo lavoro. Disco che avrà fatto sicuramente vibrare il cuore di ogni thrasher, aspettando di farlo esplodere definitivamente alla prima esibizione live. Quale occasione migliore se non il Gods Of Metal, appuntamento diventato imprescindibile per i californiani nelle stagioni in cui si trovano a girare l’Europa per i festival estivi. Ogni loro show si trasforma in un festoso massacro a cui tutti bene o male finiscono per partecipare, non è possibile rimanere fermi e compassati davanti alla carica coinvolgente e sconvolgente di questa band, non è davvero pensabile rimanerne indifferenti.
Tra le ovazioni generali Billy e soci piombano on stage poco dopo le 16 attaccando con Over The Wall: nel pit si scatena la lotta nel fango, tutti dentro, non si fanno prigionieri! Inizia a volare gente, sia “oltre il muro” che per terra, innescando grovigli e ammucchiate di natura squisitamente suina. Nel puttanaio generale compare anche la solita rozza banda di sudamericani che fa da contorno a buona parte dei concerti estremi del nord Italia e che ogni volta si distingue per la propria natura selvaggia e ad alto tasso alcolico. Tra tutti si segnale un demente a piedi nudi nella bolgia! Si prosegue a bomba con Into The Pit, The New Order e la splendida Apocalyptic City. L’illustre presenza di Skolnick si fa sentire, si muove da capo a capo del palco sferzando la rovente atmosfera con assoli sfavillanti e riff di straordinario gusto. Sono lui e Bostaph l’arma in più di questi Testament. Quest’ultimo ricorda a tutti i suoi trascorsi nell’ensemble più violenta del globo, pestando con veemenza, classe e varietà sulle pelli. Poderosa come tradizione la prestazione di Chuck Billy, soffre solo qualche problema tecnico al microfono ma è roba di poco conto, il growl viene toccato poco lasciando ampio spazio alle tonalità più pulite di inizio carriera. Lui e Peterson sono l’incarnazione del thrash metal!
Tra una Pratice What You Preach e una Alone In The Dark da favola, arrivano anche gli estratti dal nuovo Formation of Damnation. Per ora solo due, l’opener More Than Meets The Eye e la spaccaossa Henchman Ride, in attesa di una promozione più corposa, magari in un headliner tour.
Il climax viene però raggiunto quando la band attacca una insperata D.N.R e la successiva 3 Days In Darkness che fanno tremare tutto il parco nord spianando la collinetta alle nostre spalle, con buona pace di tutti gli eretici che durante tale maelstrom sonoro se ne stavano insulsamente a cazzeggiare.
La chiusura è affidata a Disciples Of The Watch che mette il sigillo ad una prestazione terremotante in cui groove e adrenalina sono stati perennemente al limite massimo.
Mosh It Up!!!

Enrico Mascherpa

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In una giornata votata a celebrare alcuni dei più grandi interpreti della storia del metal estremo, non poteva mancare uno dei gruppi più di rottura che il genere abbia mai avuto: i Meshuggah, creatori di uno dei suoni più personali e deliranti che sia mai stato modo di udire a questo mondo.
La loro presenza ultraterrena era attesa in modo spasmodico, sia da chi ne aveva già saggiato le qualità in sede live, sia da coloro che mai erano venuti in contatto con l’aliena entità svedese.
E’ stata, come abbondantemente previsto, una carneficina di immani proporzioni; ma è stata soprattutto un’esperienza alienante, dove il terrore lancinante che Kidman e soci sanno generare su di un palco si è fuso nel malato piacere di vedersi così squisitamente legnare in piena faccia.
Un muro, un muro denso e compatto di suono sferragliante e meccanico, disarticolato e sincopato come su disco quello che ci siamo trovati dinnanzi, con l’aggiunta del fascino stregante che può dare il fatto di vederseli lì davanti e capire che sì, è tutto vero, non ci sono trucchi e non ci sono inganni, sono essere umani quelli che suonano e non macchine programmate da una mente perversa. Precisi, feroci, mani che maneggiano gli strumenti come macchine di tortura, uno sguardo freddo e penetrante che non ti concede alcuna compassione, alcuna emozione, questi sono i Meshuggah; si parte con un estratto da Nothing, dall’incedere pachidermico e soffocante, il suono appare inizialmente un po’ basso e il pubblico si avvicina per meglio godere delle bordate che escono dalle casse, che abbisognano di tutta la potenza che gli ampli possono fornire.
Se sul primo pezzo la tensione sale fino all’orlo dell’umana sopportazione, è con la seguente Bleed che gli argini si rompono e mischie gigantesche si scatenano a bordo stage. L’incalzare ossessivo delle spezzettate ritmiche dettate da Haake smuove ogni essere dotato dell’udito; chi si massacra nel mosh, chi fa headbanging, chi fatica a realizzare cosa si sta trovando davanti, soggiogato dagli eventi.
Poco dialogo da parte del frontman, ma il pubblico è tenuto in pugno con il carisma che solo i più grandi possiedono; Kidman appare più volte sul punto di cadere in trance trascinato dal suono della band, mentre Hagstrom e Thordendal non perdono un colpo nemmeno sugli assoli., mentre Haake sembra suonare in un’altra, psicotica, dimensione.
The Mouth Licking What You’ve Bled è l’uomo che si contorce nelle sue frustrazioni, Electric Red e Pravus scotennano e ipnotizzano, Rational Gaze bastona senza sosta, Suffer In Truth ci ricorda da quanto tempo i Meshuggah ci schiacciano col loro coacervo di rabbia e tocco divino; qualcuno quasi non ci crede, sbatte le palpebre sbigottito, ma la realtà, in casi come questi, è ancora meglio della fantasia.
Stoccata finale ai nostri neuroni, il grande hit della band, quella Future Breed Machine che dà il via all’ultimo sfrenato massacro orchestrato dagli svedesi, che come al Frozen Rock chiudono dopo 10 brani di forza inarrestabile tra applausi scroscianti e con la sensazione che, se mai c’è stata una manifestazione aliena a questo mondo, beh, questi sono loro.

Giovanni Mascherpa

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Uno dei ritorni più attesi e sperati della storia del metal, uno di quei sogni ad occhi aperti che schiere di metallers hanno fatto per anni, si è realizzato sul calare di un torrido pomeriggio di fine giugno, con tre dei quattro uomini che hanno scritto la leggenda ad imbracciare di nuovo, tutti insieme, i loro strumenti ed il quarto, che ha subito una grave emorragia cerebrale qualche anno addietro ed è ancora in fase di recupero, che ha voluto esserci comunque al fianco dei suoi compagni, mentre un altro prendeva il suo posto alla batteria.
L’impossible dream si è materializzato con l’apparire rilassato e leggero di un Jeff Walzer un poco invecchiato, col pizzetto che un tempo non c’era ed un approccio alla folla che è quanto di più solare possa provenire da un cantante death metal, figura di solito truce e ingrugnata. Bill Steer sembra invece che sia stato congelato nel 1995, anno di uscita di Swansong, ultimo album degli inglesi.
Amott è quello che più si è visto in questi anni nel giro metal, alla guida dei suoi Arch Enemy, il suo capello arancione e la faccia scavata fanno abbastanza impressione, sembra quello a cui gli anni hanno fatto più male; i tre si posizionano con Walker al centro, Amott alla sua destra e Steer a sinistra, mentre il sampler di introduzione a Inpropagation fa presto strada al pezzo vero e proprio.
Bastano pochi attimi per capire che non c’è ruggine a gravare sull’operato del quartetto, che disegna oggi come allora trame di un death fantasioso, spietato e agilmente contorto; dall’opener di Necroticism si passa a quella di Heartwork, Buried Dreams fa cantare a squarciagola l’audience bolognese, poi l’inconfondibile intro di batteria di Corporal Jigsore Quandary provoca un’altra esplosione del pubblico. Senza soluzione di continuità col brano forse più celebre di Necroticism, si ritorna al futuro con Carnal Forge, poi è la volta di Incarnated Solvent Abuse e delle sue accelerazioni spezzacollo, No Love Lost fa vibrare le corde vocali dei presenti per un altro di quei chorus che non lasciano scampo, mentre This Mortal Coil è energia allo stato puro, quindi Embodiment rallenta i ritmi, prestandosi più ad un ascolto attento per carpirne il lento crescendo che alla mischia selvaggia.
Il growl di Walker è sempre unico e inconfondibile, tiene il passo di tutte le parti vocali senza accusare cali e infonde un pulsare instancabile del suo basso alle interazioni di Steer e Amott; la coppia di chitarre sembra che non abbia mai smesso di suonare assieme, tanto si scambiano le parti con sincrono perfetto e pennellano gli assoli, donando l’atmosfera originaria ai brani.
Arriva la rockeggiante Keep On Rotting In The Free World, il riffing catchy e tranciante di Death Certificate e quindi spazio al materiale più estremo di Symphonies Of Syckness, rappresentato da Exhume To Consume e Reek Of Putrefaction. Una veloce Ruptured In Purulence, in cui risentiamo anche il growling profondo di Steer, dà il là al delirio finale sulle note di Heartwork.
Nella parte conclusiva del concerto, commuovente apparizione di Ken Owen, ancora col passo incerto per i problemi di saluti patiti, che legge un breve messaggio in inglese e in italiano, a testimoniare il suo attaccamento alla band e il fatto che in questo gruppo regnasse, e regni ancora, una solida amicizia tra i suoi membri.
Anche per questo, oltre che per un’esibizione oltre ogni più rosea aspettativa, grazie davvero di essere tornati, cari vecchi deviati Carcass.

Giovanni Mascherpa

imm

E finalmente loro! I sovrani dell’estremo, coloro che hanno portato il concetto di violenza in musica dove nessuno aveva ancora pensato potesse arrivare. Sempre leader, sempre una spanna sopra gli altri, loro sono realmente irraggiungibili. Troppo superiori a quella pletora di band che da sempre tenta di emularne le gesta ma che spesso e volentieri cade fragorosamente nel ridicolo. Non hanno mai accettato compromessi, la loro carica distruttiva non ha mai conosciuto ostacolo. Cadute di stile nella loro carriera non ce ne sono, solo dischi che sono Storia e live act che nessuno (NESSUNO!) è in grado di creare.
Stasera il rito è destinato a compiersi per l’ennesima volta, la quinta sulle assi del Gods Of Metal. Ci portiamo nella zona sotto il palco, ormai ridotta ad un acquitrino ricoperto di immondizia, e ci accorgiamo che la densità popolativa è stranamente bassa. Due sono le ipotesi formulate, la prima vuole che sia la stanchezza a stemperare gli ardori dei metalheads convenuti, provati da una giornata davvero sfiancante. La seconda sostiene invece che la preferenza di stare un po’ più arretrati, in una zona franca, sia dettata dalla PAURA di quello che possa accadere una volta che lo sfregiatore di Los Angeles abbia imbracciato gli strumenti. Lo stage è imponente come al solito: due impenetrabili muri di Marshall ad affiancare la batteria e lo splendido fondale di Reign in Blood aizzano da subito la folla.
Sono le 21 circa quando la disturbante Darkness Of Christ inizia ad invadere l’Arena Parco Nord con la sua carica negativa istigando, se mai ce ne fosse bisogno, al massacro. Pronti via, Disciple irrompe furibonda scatenando il finimondo. L’urlo “God hates us all” si alza forte e straziante nel cielo bolognese instillando forse un po’ di paura ai partecipanti del vicino gay pride.
Seguono a ruota Cult e la micidiale Chemical Warfare, posta a sorpresa ad inizio set, durante le quali i quattro cavalieri dell’apocalisse mettono in chiaro l’intenzione di voler annientare tutto e tutti. La band appare in forma strepitosa, forse anche migliore rispetto alle ultime performance su suolo italiano. La voce di Araya è demoniaca, sputa fuori odio e terrore e soprattutto non tradisce cali, dove altre volte saltava qualche parola oggi non manca una battuta. La coppia di asce è quanto di più maestoso ed efferato ci si possa immaginare, Hanneman (in perenne lievitazione) e King incutono sempre un notevole timore reverenziale. Sua maestà Lombardo dietro al suo immenso drum kit quasi non si vede, ma si fa sentire tremendamente bene bastonando con brutalità e precisione disarmante le proprie pelli.
Prima pausa per il tradizionale “Thank you very much for coming today” e per annunciare la monumentale War Ensemble tra il delirio generale. Christ Illusion a questo punto sale in cattedra: Jihad e Eyes Of The Insane si abbattono spietate su di noi ribadendo l’eccelsa qualità dell’ultimo lavoro marchiato Slayer. Alla fine, curiosamente, i pezzi riproposti da quest’ultimo saranno maggiori di quelli suonati in occasione del tour a promozione del disco durante l’ Unholy Alliance pt.II del 2006.
Ci si muove tra passato e presente con Die by The Sword, Ghosts of War, la velenosa Spirit in Black, la fulminante Payback e la recente Supremist. Entriamo così nella seconda parte dello show con una pioggia inesorabile di classici ad attenderci. Nel frattempo il sole è calato del tutto e il buio si è impossessato finalmente del Gods Of Metal, giochi di luce e fumo a profusione esaltano l’impressionante impatto della band americana. Dead Skin Mask ci accompagna in un viaggio nei nostri incubi peggiori, Hell Awaits è una veemente cavalcata verso gli inferi mentre la micidiale accoppiata Postmortem-Raining Blood innesca l’ennesima mischia oceanica. Gli assoli incrociati di Jeff e Kerry lacerano la cappa di umidità che ci opprime mentre Dave fa tuonare la sua batteria in attesa che piova sangue. Nel mezzo vi è Captor of Sin con il suo bruciante assolo iniziale e che certo non poteva mancare in un tale olocausto sonoro.
Il gruppo lascia per un attimo lo stage prima dell’assalto finale che si materializza nel trittico apocalittico South of Heaven-Mandatory Suicide-Angel of Death. Anche in quest’ultimo inno oltranzista Araya non cede per un secondo lasciando al pubblico solo il leggendario urlo iniziale, mentre nello stacco finale di doppia cassa Lombardo fa tremare il parco nord per una manciata di lunghissimi secondi.
Ancora una volta gli Slayer si sono rivelati micidiali: un ora e mezza di concerto, diciotto canzoni suonate a livelli a cui solo loro possono ambire e solo qualche sporadica pausa. Chi li dà per finiti ormai da anni non può che continuare a rosicare consapevole di essere nel torto.
The Rancid Angel of Death Fly Free Again!!!

Enrico Mascherpa

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