In un giorno che avrebbe dovuto vedere i nostri eroi pallonari a lottare per il titolo europeo e invece, ahimè, li vede sulle spiagge da qualche giorno, si consuma l’ultima tornata di gruppi del Gods 2008. Varietà è la parola d’ordine della giornata, coi Judas headliner, gli Iced Earth del rientrante Barlow appena prima, i Morbid Angel con Vincent e molto altro ancora. Le forze, per i tanti che hanno presenziato anche ai giorni prima, sono quelle che sono, si vedono facce ustionate e occhi in cui l’energia lascia sempre più spazio alla spossatezza, ma urge ritrovare un po’ di carica perché la tavola è ancora imbandita, con piatti che definire succulenti è dir poco….

Fratello Metallo pare essere scomparso, il suo quarto d’ora di esibizione non si sa se verrà recuperato oppure è definitivamente saltato, fatto sta che, un 5 minuti prima rispetto all’orario programmato, quando ancora in tanti si chiedono dove sia finito il buon Frate Cesare, giungono a timbrare il cartellino i francesi Nightmare, l’unica band di metal classico della giornata, insiema ovviamente agli headliner Judas Priest.
Hanno solo 20 miseri minuti per accattivare le simpatie degli astanti, il cui numero è tutto sommato accettabile, data l’ora, il caldo e la stanchezza che molti hanno accumulato dai giorni addietro.
I classic metaller d’oltralpe non hanno nulla di speciale da offrire, solo un buon heavy metal dalle tinte anni ’80, ruvido e compatto e con canzoni dalla discreta fattura.
Il cantante ricorda in qualche modo un Dio più grezzo e sicuramente meno dotato, però esegue bene le sue parti e si sbatte per coinvolgere il pubblico con estrema convinzione, aiutato anche dagli altri musicisti, piuttosto mobili e sempre sorridenti per tutto il concerto.
I suoni sono già all’altezza, fatto non trascurabile in un festival che, negli anni passati, ci ha spesso abituato a trattamenti meschini da questo punto di vista per gli acts di apertura. Uno show apprezzabile, anche se abbastanza interlocutorio, che contribuisce comunque a donare ancora maggior varietà al bill odierno.
Giovanni Mascherpa

Uno non fa in tempo ad allontanarsi un attimo che subito si ricomincia a suonare, rendendo anche oggi assolutamente inutili gli orari del programma, puntualmente anticipati senza dare alcun avvertimento.
Il talentuoso ensemble marchigiano propone subito un brano dall’ultimo ep, che si fa immediatamente notare per alcune parti chitarristiche assolutamente non convenzionali in un contesto death metal. Ma si sa che gli Infernal Poetry amano stupire e sperimentare, sorretti da una tecnica strumentale di prim’ordine e da un’attitudine live tra le migliori che si possano trovare nelle giovani bands nostrane.
Fa un po’ caldo per i pantaloni lunghi con bretelle (almeno queste abbassate…) e ginocchiera che formano la divisa da concerto dei nostri, ma a parte qualche ragionevole considerazione espressa dal singer sull’accanimento del sole sui loro corpi, direi che non ci sono influssi nefasti sulla performance musicale. Killer sono e killer rimangono gli Infernal Poetry, colpiscono duro soprattutto coi tre estratti da Beholding The Unpure, che rispondono ai nomi di Always Lay Beneath, The Frozen Claws Of Winter e (mi pare) Crawl, Paolo Ojetti è il solito invasato che morsica il cavo del microfono, agita i lunghi rasta al vento e sfoggia molteplici tonalità di screaming, growling e psicosi varie, che riempiono di veleno l’aria.
Tra una birra e l’altra, con la schiuma che esce e va un po’ da tutte le parti, il cantante trova anche il coraggio di bere del vino rosso in bottiglia di plastica lanciatogli da un fan, vino che avrà avuto la temperatura della sabbia del Sahara. Il tempo è tiranno e si arriva abbastanza rapidamente alla conclusione della performance, non prima però dell’ultima mazzata, con la decisiva partecipazione di Trevor, per un brano che andrà sul prossimo disco del gruppo, Nervous System Failure.
Il pezzo ha un ottimo tiro e la consueta verve psicotica dei marchigiani, il contributo di Trevor dà un tocco speciale al tutto e mette il suggello ad un’ottima prestazione, che speriamo possa avvicinare altri fans alla musica degli Infernal Poetry.
Giovanni Mascherpa

Annunciato da dietro le quinte da Frate Cesare medesimo, il frate metallaro fa la comparsa un’ora e mezza dopo rispetto all’orario preventivato e ha suonato per 10 minuti scarsi. L’esibizione bolognese dimostra in modo lampante quanto la presenza del simpatico religioso servisse alla Live come bieca promozione dell’evento, tanto per attirare su di sé le principali emittenti televisive e le testate giornalistiche più importanti. Dal lato prettamente artistico, infatti, sfido chiunque a trovare il benchè minimo interesse per un tale misera riproposizione del dogma metallico: dei due pezzi che Fratello Metallo riesce a far conoscere al pubblico, il primo si risolve in un banalissimo ripetersi di incitamenti nei confronti del metallo, il secondo uno sconclusionato tentativo di parlare di sessualità dal punto di vista cristiano.
Ora, dato che la genuinità e la reale passione del frate non sono assolutamente in discussione e nemmeno la sua volontà di suonare dal vivo può prestarsi a mere considerazioni di carattere commerciale, direi che agli organizzatori si può imputare un’odiosa speculazione su un personaggio che negli anni si è fatto ben volere dal pubblico del Gods con la sua presenza al più importante metal happening italiano, e che non meritava di essere oggetto di una tale operazione.
Insomma, per il futuro speriamo che Frate Cesare si faccia ancora vivo sul palco, ma solo nella veste di un entusiasta appassionato del genere e portatore di messaggi positivi, come musicista invece poco ha da dare al mondo del metal.
Giovanni Mascherpa

Agli Enslaved tocca una posizione nel bill che, in altre edizioni, avrebbe totalmente mortificato le loro qualità con suoni inadeguati, disinteresse collettivo e un minutaggio ridicolo. Quest’anno si è cambiato registro e, se già con le esibizioni precedenti non erano stati fatti danni, coi norvegesi si è proceduto ancora sulla retta via.
Non c’è ovviamente una ressa clamorosa per gustarsi il fantasioso act del Nord Europa, ma il supporto di chi sta sotto si fa comunque sentire e non lascia sola la band, intanto che essa tesse le sue ricche trame.
Se al Wacken dello scorso anno la scelta dei pezzi aveva spaziato su tutta l’ampia discografia di un gruppo che, dagli albori viking/black, si è progressivamente portato ad un ibrido di metal estremo e prog anni ’70, oggi c’è spazio esclusivamente per la fase più recente del loro operato. Se da un lato si taglia fuori il pubblico più avvezzo a sonorità dirette e brutali, così si può apprezzare ancora più a fondo uno stile che coniuga benissimo ferocia (perché la violenza dei riffs, seppur attenuata, non è scomparsa) e cura per le melodie, con le tastiere retrò a danzare con le chitarre dirompenti di Grutle Kjellson e Arve Isdal.
Lo screaming scartevetrante di Grutle è il segno più tangibile del retaggio black, che duetta con le vocals pulite del tastierista Herbrand Larsen. Le due anime della band si possono quasi cogliere anche a livello visivo proprio nei due singer, l’uno dall’aria più grezza e sbragata, l’altro elegante e curato dietro alla sua postazione da tastierista.
Grande feeling e nessuna incertezza nella prova odierna degli Enslaved, che portano a termine i loro tre quarti d’ora con le acclamate e bellissime title-track degli ultimi due lavori, Isa e Ruun.
Chapeu.
Giovanni Mascherpa

Se gli Enslaved avranno probabilmente sofferto un po’ le torride temperature bolognesi, gli Obituary ci si ritrovano come a casa, nella loro amata Florida. Caldo umido e fondo paludoso per una volta ben si adattano al sound della band che sta per salire sul palco.
Ad una breve intro strumentale segue subito una bomba come Find the Arise e il lungo crinito John Tardy balza on stage sfoderando, oltre al classico bermuda mimetico, un’improbabile maglia a maniche lunghe. La band alza subito il tiro facendoci fare un balzo indietro a fine anni 80/inizi anni 90. Il frontman ruggisce con il suo rantolante quanto profondo growl mentre il resto della band alle sue spalle macina inarrestabile purissimo e incontaminato death metal “Tampa bay style” tutto rallentamenti e ripartenze. Il suono è dannatamente grezzo, zero fronzoli, solo riff che sono catenate e stop’n’go calibrati alla perfezione da un Donald Tardy mostruoso che pesta deciso, disegnando la struttura ritmica di ogni canzone. Perez e Santolla (momentaneo sostituto di Allen West), inspessiscono il wall of sound creato dalla batteria investendoci con assoli dilanianti.
L’impatto deciso, prepotente e genuinamente ignorante trasporta la platea nell’ennesima bolgia animalesca sia sui pezzi storici che sugli estratti dall’ultimo Xecutioner Return, di cui campeggia anche il telone in fondo al palco. I cinquanta minuti a disposizione del gruppo passano davvero troppo in fretta e tra una Insane e una malatissima Slow Death ci si ritrova alla devastante Slowly We Rot, vero e proprio monumento al death metal più vero e brutale, che come storia insegna chiude ogni show degli americani. Alla fine sono gli applausi sentiti dell’audience a dominare la scena, ringraziando gli Obituary per un concerto orgogliosamente old school.
Enrico Mascherpa

A pochi minuti dallo show dell’Angelo Malsano il cielo, fino a quel momento azzurro in modo quasi insultante, si appanna, ingrigisce e, da chissà dove, arrivano delle nuvole a spezzare l’abbrustolimento fin lì perpetrato dai raggi solari.
L’apparizione dei musicisti durante il soundcheck a poco a poco satura l’aria di una greve tensione, si percepisce a pelle il carisma emanato da quei tre loschi individui che, quasi vent’anni fa, diedero alla luce Altars Of Madness; e se ne percepisce anche il fascino ambiguo, nel volto tirato e scavato di Pete Sandoval e Trey Azagthoth, come nella monumentale figura di David Vincent, una delle voices of death per antonomasia. Inguaiato in una maglia di lattice fetish da morire, con pentacolo rovesciato al centro, vistosissimi ed enormi orecchini ad anello ai lobi, il singer floridiano sembra un latin lover dannato, uno di quelli che non fa prigionieri col gentil sesso neanche per sbaglio.
Ultima band estrema della tre giorni, i re del death floridiano sparano subito una cannonata letale con Rapture, gettando in un istante ai propri piedi l’audience bolognese. Il growl di Vincent non si è appannato in anni dediti più ai giochini sessuali on stage dei Genitorturers, la band della moglie, che alla musica coi controcoglioni, e la sua capacità di rendere personale e colorito un cantato così estremo come il growling lascia ancora oggi di stucco.
La set-list va ovviamente a toccare solo i primi quattro dischi, con predilezione per i brani più in your face, tutti annunciati con vocione baritonale dal Vincent, che non perde mai occasione di stimolare il pubblico a dare di più e a scatenarsi nel mosh.
La prestazione strumentale è, tanto per cambiare, di raggelante precisione; Sandoval continua ad essere uno dei migliori martellatori di pelli del globo e sembra sdoppiare i propri arti nel riprodurre quella doppia cassa ossessiva su cui tutta la musica della band si poggia. Trey concede poche occhiate al pubblico, per entrare in completa simbiosi con la sua Ibanez, da cui tira fuori riff profondi e assoli dal lancinante stridore.
Da brividi poi i gemiti chitarristici di perle come Immortal Rites e Chapel Of Gouls, con quest’ultima che si conclude con un maelstrom di note partorito dalla sei corde di Azagthoth. Peccato che, come per l’esibizione degli Obituary, ci sia decisamente meno gente nelle prime file rispetto al giorno prima, dove non oso pensare cosa sarebbe accaduto sotto il palco.
C’è spazio per un inedito dal platter or ora in lavorazione, intitolata Nevermore, dove ci è sembrato di cogliere parecchio di quel feeling che aveva reso pietre miliari i primi lavori del gruppo; un pezzo veloce, intricato il giusto, che non molla mai e sempre diretto al punto, proprio come ai loro esordi.
Dopo una scaletta con tanti brani alla velocità della luce, per chiudere si pensa bene di asfissiare l’aria con due macigni di prima categoria, Where The Slime Live e soprattutto l’apocalisse di God Of Emptiness, lenta allo spasimo prima, lama che infilza nel petto in un istante dopo. E poi fu il silenzio….
Giovanni Mascherpa

Dall’orgia di violenza a Vivaldi suonato da una chitarra elettrica il passo è bello lungo, e allora via al rimpasto delle prime linee, con le facce più truci e gli animi più esagitati che danno finalmente riposo alle membra, e tanti che finora sono rimasti ai margini dell’arena che finalmente si mettono in posizione eretta.
Sorprendentemente, almeno per un ignaro non conoscitore di Malmsteen e delle sue gesta, ci sono più occhi rivolti ai musicisti adesso di quanti ce ne fossero per i Morbid Angel, e per non farli scappare via tutti alla prima sviolinata del suo strumento, il pacioccoso musicista svedese lascia grande spazio alle canzoni cantate.
Tanto per non sbagliare, e anzi per attirare anche qualche scettico come il sottoscritto, alla voce c’è Tim “Ripper” Owens, che per adattarsi al suo datore di lavoro attuale sembrerebbe essere un pelino salito di peso. Rising Force posta in apertura attira come mosche allo zozzo gli astanti, Ripper è il solito animale da palco e reinterpreta senza problemi i classici di Malmsteen. Il quale sembra, solo visivamente si intende, la caricatura di se stesso, per quanto è gonfio e sfatto, con la camicia aperta fin quasi all’ombelico e la ciccia che deborda un po’ ovunque. Dal lato musicale, siamo su tutt’altro fronte, non si esagera nemmeno in autocompiacimenti fini a se stessi, qualche parsimoniosa citazione del repertorio classico, la sei corde scaraventata di qua e di là come un satellite attorno al suo ubertoso pianeta, ma al fumo dell’esibizionismo si preferisce puntare al succoso arrosto artistico.
Qualche morsicata alle corde, che fa tanta scena e manda in brodo di giuggiole i suoi fans (chissà poi perché….), ma soprattutto tanta buona musica, e forse il fatto di avere vicino un personaggio di un certo spessore come Owens fa sì che sembri di trovarsi di fronte ad un vera band e non ad un one-man show. Un’ultima concessione ai soliti clichè ce l’abbiamo con la frantumazione della propria chitarra da parte di Yngwie sull’ultimo pezzo, con le varie parti che vengono donate al pubblico, che si massacra nel tentativo di arraffare il cimelio.
Unico appunto, l’aver suonato un po’ meno di quanto aveva a disposizione, ma oggi questo matto svedese ha convinto anche qualcuno dei suoi detrattori, mentre per gli estimatori c’è stato davvero da divertirsi.
Giovanni Mascherpa

Si potrebbe stare a parlare per ore delle reali motivazioni che hanno portato il padre/padrone Schaffer ad allontanare l’eccellente quanto sfortunato Tim “Ripper” Owen in favore del ritorno del figliol prodigo Barlow, ma alla fin dei conti sono cose di poco conto di fronte ad un concerto come quello di stasera.
La band si presenta in stato di grazie sulle assi del Gods sfoderando una prestazione scintillante. Lo storico frontman, incurante del termometro in procinto di esplodere, si presenta on stage con il chiodo (ben presto abbandonato), inizia cantare e fa esplodere il pubblico in un boato di giubilo.
Chiariamo le cose, Ripper era e rimane un signor cantante, forse uno dei migliori sulla piazza, capace di non far rimpiangere un tale Halford dietro al microfono dei Judas Priest e di essere altrettanto convincente con la band americana, ma i pezzi degli Iced nessuno riesce a cantarli come Barlow. C’è poco da fare, sono le sue canzoni, l’espressività e l’intensità che egli riesce a trasmettere sono uniche e impareggiabili. Il trittico d’apertura è da cardiopalma, Dark Saga, Vengeance is Mine e Burning Times ci investono maestose con il loro carico di pathos. Shaffer appare sempre più invecchiato nell’aspetto (capello grigio-bianco e guance cadenti) ma non nell’animo, la fiera imponenza e l’innato carisma sono ancora dalla sua.
Tiene ottimamente la scena e di tanto in tanto osserva compiaciuto il suo singer, consapevole di aver fatto la cosa giusta nel richiamarlo. Le possenti trame epiche a cavallo tra power e thrash vengono ricreate perfettamente da una band che si muove precisa e compatta, dando a Barlow la base su cui costruire delle vere e proprie emozioni.
C’è spazio anche per le relativamente recenti Declaration Day da Glorius Burden e la coinvolgente 10000 Strong dall’ultimo nato Something Wicked pt.I prima di rituffarci nel periodo aureo della loro produzione con Pure Evil, Travel in Stygian e la violentissima Violate accompagnata da una sana dose di pogo. Si placano gli ardori con Dracula per riaccendersi con The Coming of Course, la toccante Melancholy e la monumentale My Own Saviour. Siamo ormai alle battute finali, il gruppo ringrazia a profusione per gli scroscianti applausi che si alzano da una parte all’altra dell’Arena annunciando la conclusiva Iced “fucking”Earth, ultimo tassello di una performance pressoché perfetta. Inutile tergiversare, gli autentici Iced Earth sono questi e la sinergia Shaffer-Barlow rimane qualcosa di unico.
Enrico Mascherpa

Al termine di quella che per il sottoscritto è stato un weekend di godimento astrale, e che per qualcun altro è stato addirittura un tris di sfibrante ma appagante calca sotto il solleone bolognese, arriva il Prete di Giuda.
Un gruppo che arriva all’appuntamento italiano carico d’allori, come gli headliners delle sere prima del resto, e che si è appena permesso, per l’ennesima volta in carriera, di giocare un’azzardata puntata al rialzo.
Scrivere un concept album di 100 minuti e passa di musica, dopo 30 anni di carriera, quando una sfida simile non l’ha si è mai affrontata prima, è una prova di coraggio che pochi si sarebbero permessi; ciò rende ancora più vibrante il desiderio di vederli all’opera, in uno show che promette la riesumazione di molte gemme da troppo tempo non più in scaletta.
Il palco è simile a quello usato negli ultimi tour, con pedane e ascensori sui due lati, la batteria in alto al centro (da sempre trademark dei Judas), addirittura c’è anche un portale appena sotto la postazione di Scott Travis.
A differenza del reunion tour del 2004, quando presenziarono per l’ultima volta il Gods, non si fanno troppo attendere, e poco dopo le 21 Dawn Of Creation, la breve strumentale che apre Nostradamus, accende il tripudio. Le prime file accolgono un numero di presenze due volte superiore a quelle registrate durante l’intera giornata, in molti smontano solo ora dalla collinetta dove hanno passato le ore più calde e adesso vogliono il loro posto privilegiato di fronte allo stage.
La folla si muove ad effetto domino allorché qualcuno tenta di fare ogni minimo accenno di movimento, infine ecco apparire Travis, Downing, Tipton e Hill, sulle note di Prophecy, il primo vero brano dell’ultimo cd. Halford appare, issato da un ascensore, in alto sulla pedana di sinistra, curvo su stesso e pesantemente bardato come Nostradamus medesimo.
La canzone stenta un poco a coinvolgere, è ancora poco conosciuta e senza l’apporto delle tastiere perde qualcosa in mordente; la temperatura del sangue dei presenti è già bella alta lo stesso, si stenta a tenere una posizione fissa, scossi dalle mareggiate di gente che piomba addosso un po’ da tutte le parti.
Dall’ultimo nato si passa alla straclassica Metal Gods, Halford si rimette il suo giubbotto ultrametallizzato e appare dal portale tra il fumo denso che fuoriesce da là sotto, con l’immancabile occhiale nero a nasconderne il volto. Primo coro collettivo, e aria che si fa di fuoco; eccoci quindi alla prima sorpresona della serata, da Defenders Of The Faith rispunta la compatta cavalcata di Eat Me Alive, suonata un pelo più lenta dell’originale per agevolare le corde vocali del singer, a ruota arriva Between The Hammer And The Anvil e se possibile la bolgia raggiunge vette ancora più estreme. Non c’è più controllo, negli occhi dei presenti si legge un sano e totale godimento, in barba ad ogni stanca discussione da bar sulla voce del Metal God che non è più quella di una volta, sul fatto che sono invecchiati e porcate del genere; Devil’s Child è un attentato alle coronarie, Breaking The Law e Hell Patrol non lasciano respirare neanche un secondo e se il vecchio Rob deve dare tutto se stesso per non sfigurare nel confronto col passato, anche i fans hanno il loro da fare a star dietro a questa scaletta da sogno.
Momento teatrale e di attento ascolto su Death, Halford canta su un trono spinto dalla Morte sul palco, per un pezzo che è già classico, con l’incedere strascicato e drammatico che evolve in un finale al cardiopalma.
La delicata Angel è l’unico estratto da Angel of Retribution, poi ancora a ritroso a Dissident Aggressor: ebbene sì, anche questo ci è dato di sentir, uno dei capitoli più anomali del primo periodo priestiano, coi suoi mini-assoli a rispondere al leggendario chorus. Piccola pausa, attimi di quiete prima che Hellion squarci il cielo nero; Electric Eye è di nuovo tra noi, gioia e giubilo, sembra davvero di vederlo quest’occhio, lì che ci squadra da lassù, ma non fai in tempo a pensarlo che irrompe il riff di Rock Hard, Ride Free, doppiata da una The Sinner dove Glen e K.K danno sfoggio di tutto il loro estro nel lungo intermezzo chitarristico centrale.
Halford si aiuta col riverbero e col mestiere sui pezzi più tirati, fatalmente certi vocalizzi stridenti e affilati non gli escono più; ma è cosa nota e ormai c’è da farsene una ragione, tra l’altro l’effetto complessivo è tutt’altro che disdicevole, e quando le note si fanno meno ardite la classe esce ancora suprema.
Prova ancora più improba, ma lo sarebbe per qualsiasi essere umano, è la seguente Painkiller, che scarnifica un numero incalcolabile di vertebre, incapaci di reggere il peso di tanta violenza, Halford piegato in due dalla fatica fa quel che può, ma è la folla a sostenerlo con un boato maestoso su ogni parola del testo.
Ancora sugli scudi Tipton e Downing, quindi primo saluto al pubblico e rapido giro dietro le quinte; un rombo si ode, fuoriesce una moto dal portale con Halford sopra, con tanto di frustino, Hell Bent For Leather è il solito inno senza tempo, che fa da preambolo a una Green Manalishi (With The Two Pronged-Crown) spettacolare e al classico epilogo di You’ve Got Another Thing Coming, introdotto da alcuni botta e risposta vocali tra Halford e il pubblico.
Al di là delle oggettive difficoltà del Metal God per antonomasia nel riproporre il suo screaming acuto, i Priest sono stati impeccabili, e hanno sfoggiato soprattutto una scaletta infarcita di brani che, da tempo immemore, non erano più suonati in un loro show.
Mirabili e immortali, questi sono i Judas Priest del 2008, ancora per chissà quanto a dettar legge sui palchi di mezzo mondo.
Giovanni Mascherpa