Gods of Metal è un Festival che tutti i metallari attendono con ansia
in quanto il più rinomato in Italia. Occorre uscire al di fuori dei
confini nazionali per vedere grandi eventi come il tedesco Wacken Open
Air o lo sloveno Metal Camp, eppure anche qui da noi non manca un raduno
annuale di fans dell’ Hard n Heavy. Questo 2011 però il festival non ha
messo su una delle sue edizioni migliori, specie se paragonata ad
annate come il 2005 o il 2008 ma nonostante ciò numerosissimi sono stati
gli avventori.
Grave pecca a parer mio è l’unica giornata di festival quando
solitamente si tratta di due tre giorni, successivamente, se si vuol
essere puntigliosi, il bill non era dei migliori, non fraintendete per
carità ,tutti grandi nomi e ottime esibizioni, ma dal nostro festival si
poteva avere di più.

Si parte alle undici con i Baptized In Blood, nuovi rampolli del death
core che nei 25 minuti a loro riservati hanno entusiasmato non poco il
poco pubblico presente. Buona la loro proposta di metal core tecnico
dove non mancano spunti più death vecchia scuola, che gli hanno fatto
guadagnare ulteriori consensi. le song in apertura come ” Sinking Ships”
e ” Mental” chiariscono che anche per gli extreme metallers c’è da
rimanere soddisfatti, ma i brani meglio riusciti sono sicuramente” Last
Line Lady ” e ” Dirty’s Back”. Certo, se fossero stati più conosciuti
il consenso verso di loro sarebbe stato maggiore, ma questi “new kids”
hanno comunque fatto la loro bella figura e ci si può consolare del
fatto che nel panorama metal odierno ci sono , anche se pochi, gruppi
davvero interessanti.

Si alza il livello, ed aumenta conseguentemente il pubblico, per i
Cavalera Conspiracy; anche per loro pochi minuti a disposizione, ma a
Max ed Igor sono bastati per scaldare ulteriormente gli animi con brani
dal loro primo album “Inflikted” e chicche del nuovo “Blunt Force
Trauma”. Si parte con “Warlord” e subito si scatena il circle pit
richiesto dallo stesso Max, che continuerà per tutta l’esibizione. Se
“inflikted” è il brano più pubblicizzato e noto della band un motivo
c’è, poichè su questa canzone il pogo arriva a dei livelli quasi da
rissa, ma per un gruppo così è il minimo. Buona anche la proposta dei
brani nuovi come “Killing Inside” che vengono molto gradite dai
guerrieri/spettatori, che vengono omaggiati anche di uno sguardo
nostalgico ai Sepultura che furono con ” Refuse Resist” e “Territory”
riproposte in ottimo medley. Ospite d’eccezione il figli Ritchie
Cavalera a duettare con papà e zio. Unica nota negativa gli
inconvenienti tecnici che hanno ostacolato l’esibizione, ma i fratelli
Cavalera sono sempre i fratelli Cavalera e salutano il pubblico italiano
con una “Roots Bloody Roots” che, tralasciando l’aspetto del pogo, non
fa mai male.

Sospesa la parentesi extreme della kermesse con i Duff Mckagan’s Loaded,
che vedono il biondo ex Guns N Roses in veste di chitarra e voce.
Logicamente, visto il suo illustre passato, ci si aspettava qualcosa di
meglio ma purtroppo le aspettative vengono deluse: salvo i primi due
brani che rasentavano lo stoner ( sulle prime due “Dead Skin” ed
“Executioner’s Song” sembrava che sul palco ci fossero gli Electric
Wizard) gli altri brani sembravano una scopiazzatura della sua storica
vecchia band, sciatti e molli. La band in sè, anche se composta di
ottimi musicisti, sembra un nome messo in piedi solo per continuare a
far girare il nome di Duff. Non manca anche qui il momento cover con
“Attitude” dei Misfits prima e “It’s So Easy” dopo, che sicuramente
resta migliore nella versione originale dei Guns N Roses.

Salgono on stage gli Epica, da qui in poi diminuiscono gli inconvenienti
tecnici (vuoi anche perchè si innalza la fama dei nomi) ed aumenta il
pubblico. Simone Simmons è in perfetta forma e la sua voce limpida da
soprano non sbaglia mai sui brani e crea un’ottima sinergia col growl
violento di Mark Jansen.
Si parte con “Samadhi” e “Resign To Surrender” che portano subito al
combo olandese numerosi consensi, per non parlare di “Cry Of The Moon”
che viene cantata praticamente in stereo col pubblico. Anche se non si è
fan del genere resta comunque un’ottima esibizione, grazie agli Epica
si può infatti tornare a rivivere le atmosfere delle scorse esibizioni
con pubblico numeroso, cori e battimani ed applausi scroscianti che ci
fanno dire” Questo si che è un festival!”.
inutile dire che brani come ” Fools Of Damnation ” e ” Kingdom of
Heaven” non potevano mancare in scaletta e l’ottima risposta del
pubblico fa sì che la band possa proporre nel finale qualche brano in
più. Si conclude cosi con “Sancta Terra” , ” Consign To Oblivion” e “The
Phantom Agony”. Anche se prediligo band più estreme ho trovato molto
gradevole la loro esibizione ed ovviamente i commenti sulla Simmons da
parte degli ingrifati maschietti non potevano mancare. Vabbè, il metal è
fatto anche di questo.

Riprendiamo per un attimo la parentesi estrema con i britannici Cradle
Of Filth: per loro ottimi suoni ma decisamente al di sotto della media
la performance di Dani Filth, con la sua voce va e viene e non
rispecchia ciò che è proposto sul cd, mentre è ottima quella di Ashley
Ellylon, attuale tastierista della band e qui anche seconda voce in
sostituzione di Sarah Jezebel Deva. Dopo una sinfonica ed orchestrale
introduzione eccoli arrivare sul palco ma, prima che iniziamo a parlare
del concerto, urge fare una piccola parentesi sul look: logicamente sei
fai black metal devi fare un pò paura a livello di immagine e Allender
Pybus e soci ci riescono eccome, mentre Il frontman Dani Filth con i
capelli arancioni sparati e qualche linea a matita in faccia fa ridere,
senza contare che quando distribuivano le masse muscolari e le altezze
lui forse era al gabinetto. Passando di nuovo alla musica, rileviamo che
strumentalmente l’esibizione è stata impeccabile ed i brani riproposti
erano per fortuna presi maggiormente dai vecchi lavori. La scaletta era
infatti farcita di ” Honey and Sulphur”, ” Lilith Immaculate” e ” The
principle of all Evil Made Flesh” che però sono state un pò penalizzate
dalla voce di Dani che c’era e non c’era, ma d’altronde questo succede
quando magari si osa un pò troppo in studio. Ottime invece “Her Ghost In
The Fog ” e Nymphetamine”.

Inizia qui la parentesi hard rock del festival, sempre più gente si
affolla per vedere i grandi Mr. Big, impeccabili ed acrobatici come
sempre. Nell’ora abbondante di esibizione Billy Sheehan e Paul Gilbert
fanno a gara a chi è più spettacolare, con assoli, addirittura con un
trapano, tapping e corse scatenate avanti ed indietro per il palco: per
questa all star band applausi ad ogni brano.
Apertura con il piede premuto sull’accelleratore con “Daddy, Brother,
Lover, Little Boy (The Electric Drill Song)” e “Take Cover” che fanno sì
che il pubblico inizi a saltare e cantare a squarciagola, le mosse di
Sheenan poi rendono anche più gradevole la performance, visto che sono
si una grande band ma vederli dopo i Cradle Of Filth spiazzerebbe
chiunque. Al momento di ” Alive And Kickin” l’atmosfera si scatena
ulteriormente, fomentata anche dall’hard rock di questa grande band che
resta sempre grintoso e dinamico.L’eccellenza poi è rimarcata dagli
assoli sia di chitarra che di basso , indubbiamente eccellenti ma
nemmeno troppo lunghi al fine di evitare la noia. Un ‘ora abbondante di
show, conclusa con ” To Be With You” che lascia molto soddisfatti tutti i
presenti.

Seguono sul palco gli svedesi Europe: che dire, quando si è un grande
nome dell hard rock, intrattenere migliaia di fans per un ora buona è
come andare in ufficio, solo che invece di stendere relazioni e
compilare documenti proponi canzoni come ” Superstitious” e ” Scream Of
Anger” nella prima parte della scaletta, per poi passare ai grandi
classici come ” Rock The Night” e ” Carrie”, su cui il coro del pubblico
a momenti copre lo stesso Tempest. Anche nella loro scaletta è presente
un guitar solo, questa volta non ipertecnico come quello di Gilbert ma
più ispirato e blueseggiante. Del resto l’assolo live è stato un
trademark di sempre nelle band degli anni ottanta. Ad essere sincero,
non essendo un fan del glam metal, un’ora e un quarto di concerto degli
Europe mi è sembrata un pò pesante, vuoi anche per la mia scarsa
conoscenza del loro repertorio, ma non si può certo negare che siano una
grande band, ed annoverarli tra i live visti non è certo cosa di cui
vergognarsi. Si arriva dunque al finale, tiratissimo per aumentare la
suspence; finalmente, le tastiere fanno partire il famosissimo giro di ”
The Final Countdown”, logicamente il brano più apprezzato di tutti.

Ecco arrivare poi i Whitesnake, con David Coverdale che ormai è un vero e
proprio animale da palco ed anche i suoi nuovi (ed ennesimi) compagni
di formazione. “Best Years” e “Give Me All Your Love Tonight” hanno il
compito di presentare (come se ce ne fosse bisogno) la band on stage.
David Coverdale è un vero e proprio animale da palco e nonostante la sua
veneranda età la sua voce è al top, specie su brani come la ballad ” Is
This Love”, “Lay Down Your Love” e “Love Will Set You Free” ( come
avrete senz’altro notato l’amore è tema fondante dei testi dei
Whitesnake), per non parlare dell’energia e del feeling col pubblico.
Non manca nemmeno qui la parte riservata agli assoli, con le due asce
Dough Aldrich e Rob Beach che si sfidano in una gara all’ultimo assolo,
decisamente troppo lunga visti i venti minuti buoni di durata. Ok che la
band deve riposarsi, ma non si può per questo sfinire il pubblico!
Molto più coinvolgente il drum solo del talentuoso Brian Tichy, che
entrando nei Whitesnake avrà molto da aggiungere al suo curriculum.
Poteva mancare il finale esplosivo? No, infatti la serpe bianca saluta
tutti con un trittico fatto da “Fool For Your Loovin”, “Here I Go Again
On My Own” e la rinomata “Stiil Of The Night”. Promossi anche loro.

Ora tocca ai grandi dei del metal, i Judas Priest, che si esibiscono per
l’ultima volta in Italia, segnando qui il loro epitaffio (anche se voci
di corridoio parlano più che altro di una cessazione a livello di tour
mondiali ma non dell’attività della band sia in studio che per qualche
concerto occasionale). L’adrenalina è al massimo quando eccoli entrare
su Battle Hymn ed iniziare uno show in pompa magna per dare l’addio ai
fans: calderoni di fumo, catene, pelle e borchie conditi da laser ed
effetti di luce degni di un film di fantascienza. Rob Halford è un vero e
proprio leader della scena e la sua voce è come sempre impeccabile
nonostante i suoi sessant’anni. I Priest ripercorrono nell’arco di due
ore tutta la loro carriera da Rocka Rolla a Nostradamus, con brani del
calibro di “ Metal Gods”, “Electric Eye”, “ Night Crawler” e
“Painkiller”. Ottima poi la variante di “Diamonds And Rust” proposta per
metà in acustico e per metà in elettrico, una vera mossa da signori di
gran classe che non delude nessuno. Inutile dire il contrario, vedere i
Judas per un metallaro é come un pellegrinaggio a La Mecca per un
musulmano, con l’eccezione che non basta una volta nella vita; io li ho
visti ben tre volte e mai sono tornato a casa con l’amaro in bocca.
Nonostante manchi on stage il chitarrista K.K Downing, degnamente
sostituito dal giovane Richie Faulkner, gli dei del metallo ci
benedicono con il loro metal in un’esibizione senza pari ed il sogno si
conclude con i classici “ Breaking the law”, Hell Bent for Leather” e
per finire “Living after Midnight”. Se questo GOM si è risollevato dalla
banalità è grazie ai Judas, verrebbe più facile vederlo come un loro
concerto insieme a dei guest. Speriamo che il loro non sia un addio
quanto un arrivederci.