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Gods Of Metal – Day 1

L’Italia è veramente un paese strano. Tutto ha un alone particolarmente confusionario, tutto deve essere poco dettagliato e lasciato alla ‘speranza’ di chi partecipa e alla mercè di chi organizza. In campo musicale, nel corso degli anni, siamo stati capaci di fare enormi passi avanti, anche se dinanzi all’operato in terra straniera dobbiamo inchinarci a testa bassa; ma se gli organizzatori sono in un certo modo, il pubblico non è certamente esente da peccato. I motivi (in molti casi, le scuse) sono rappresentati dal costo eccessivo per una tipologia di evento come un festival (65 € al giorno non è a buon mercato) e dalle location prescelte, ogni volta passate sotto processo. Quest’anno, come lo scorso, è l’infame asfalto di Rho, anche se quest’anno maggiori spazi ombreggianti e un numero maggiore di docce han fatto si che la calura fosse più sopportabile. Ma sorvolando le eccessive polemiche, il primo giorno era anche conosciuto come ‘il giorno dei Manowar’; oltre ai veterani, abbiamo avuto modo di ammirare una serie di compagini vecchie e nuove che hanno reso questo Gods un evento dal sapore epico e decisamente diversificato.
Ma veniamo a noi: causa traffico e problemi con gli accrediti perdiamo i The Clairvoyants e ascoltiamo da molto lontano i successivi Arthemis (bravi ma niente di più), giungendo nella location proprio mentre gli Holyhell iniziano a brandire le armi.

HOLYHELL

A cura di Valerio Ferrari

Nonostante sia mezzogiorno e vi sia un numero risicato di persone sotto stage (la bellissima idea del pit),  la band messicana propina uno show di tutto rispetto; sarà l’esperienza live, sarà l’ingresso dello schiacciasassi John Macaluso, ma la band appare compatta e perfetta nell’esecuzione. Maria Breon tiene le redini del pubblico aizzandolo e stimolandono in continuazione, grazie a un carisma e a una presenza scenica davvero invidiabile; la band passa in esecuzione il debut album omonimo, inserendo un nuovo episodio (il nuovo full lenght arriverà in autunno) e la versione propria di “Holy Diver” del mai dimenticato Ronnie James Dio. Quaranta minuti volano in fretta. Godibili.

CANNIBAL CORPSE

A cura di Valerio Ferrari

Nonostante l’orario un po’ strano per loro i Cannibal Corpse non si fanno problemi. C’è da devastare? Ok, ci pensiamo noi… Acclamati dal pubblico (un po’ più numeroso), i cinque truci americani salgono on stage e iniziano a fracassare le orecchie e i colli dei presenti. La risposta è buona e il gigantesco George Fisher non lesina ringraziamenti e sorrisi. Tecnicamente ineccepibili e precisi (specie il duo Webster/Matzurkevic), improntano la scaletta sull’intera discografia ventennale, andando anche a riprendere materiale dagli arbori (da “Vile” e “Butchered At Birth”) e passando per la ovvia “Hammered Smashed Face”.  Poco più di mezz’ora pure per loro, che lasciano lo stage tra gli applausi di molti dei presenti. Non una band da primo pomeriggio, ma sono sempre una garanzia di show!

UNISONIC

A cura di Fabiana Spinelli

Il concerto degli Unisonic è uno degli appuntamenti più attesi dell’intera giornata, specialmente dai fans della vecchia guardia degli Helloween. Rivedere sullo stesso palco Kai Hansen e Michael Kiske, non è infatti un accadimento da poco. Ma chi si aspettava un concerto power metal, probabilmente non aveva ascoltato l’album e non aveva letto le molte interviste rilasciate dalla band: lo spettacolo che ci presentano gli Unisonic è leggero e divertente, caratterizzato da un sound più da Pink Cream 69 che da Helloween. E ad essere sinceri, la performance ne guadagna ampiamente. Un Michael Kiske rilassato e di buon umore regala una prestazione brillante, che spesso e volentieri lascia letteralmente a bocca aperta i presenti; si parte con la ruffiana “Unisonic”, decisamente più divertente dal vivo che sul disco, con ritornello cantato da quella che sottopalco inizia a diventare una folla. Segue uno dei pezzi più riusciti di questo primo album della band, “Never too late”, trascinante hard rock di stampo ottantiano che sembra divertire per primi i musicisti sul palco. La band si mostra unita ed affiatata, con un’ottima presenza scenica e una grande grinta riversata sul pubblico. “King for a day” e “My Sanctuary” mettono sotto i riflettori Kai Hansen,  come sempre preciso ed impeccabile, che in fase live regala a questi due pezzi una sana dose di durezza e aggressività.
Non può però mancare il tributo alle zucche, con una strepitosa versione di “March of Time”, in cui Kiske dimostra che anche dopo tanti anni lontani dalle scene, si può mantenere il proprio livello professionale altissimo e si possono offrire delle prestazioni pressoché perfette. Il pubblico in visibilio prende un attimo di respiro con la ballad “Over the rainbow”, altro pezzo cucito su misura per le doti vocali dell’ormai ex-biondocrinito (come lo stesso Kiske si definisce,  con una risata) cantante.
“Star rider” e “We rise” si avvicinano a sonorità più metal-oriented, accolte bene dal pubblico, sono forse il momento meno coinvolgente dello show, nonostante gli assoli chilometrici dell’inedita coppia Hansen-Meyer e un compatto muro sonoro offerto da Ward al basso e Zafiriou alla batteria.
La conclusione del (troppo) breve spettacolo, viene affidata all’acclamatissima “I want out”, dell’epoca d’oro del “Keeper of the seven Keys – Part II”, che provoca scoppi di euforia incontrollata un po’ in tutti i presenti, sottoscritta compresa. Gli Unisonic non saranno una rivelazione, ma non hanno l’aria del supergruppo riunito solo a scopo pubblicitario; certo, i grandi nomi ci sono e si fanno sentire, ma il divertimento e l’allegria che ci hanno trasmesso sul palco di questo Gods of metal, ci fanno ben sperare nel loro futuro.

ADRENALINE MOB

A cura di Valerio Ferrari

Curiosità e non solo si annidano nell’audience che, nonostante il sol leone di metà pomeriggio, si preparano ad assistere allo show di uno degli act più interessanti del bill, gli Adrenaline Mob. Superband che vede come mentori Mike Portnoy (ex Dream Theater e Avenged Sevenfold) e Russell Allen (Symphony X). Chi si aspetta un’ora abbondante di prog rimarrà comunque deluso. La band porta on stage quanto maturato sull’ep uscito lo scorso anno e sul nuovissimo “Omerta”, un metal scarno e vigoroso sul quale il cantantone americano impenna le proprie corde vocali. Tecnicamente precisi e perfetti (pur trovando Portnoy sempre alquanto impersonale), dotati di una botta d’altri tempi e di una coesione rara, gli Adrenaline Mob incantano l’audience più per le carature tecniche che per la proposta musicale, la quale verso la fine inizia a far sbadigliare qualcuno dei presenti. Sopra a tutti è da annoverare la performance di Russell Allen, pulito e perfetto in ogni sfumatura senza mai mancare di potenza. Tanta classe e caratura ma con un songwriting così poco variabile tutto si spegne.

AMON AMARTH

A cura di Valerio Ferrari

Lo stage si fa più ricco di scenografia e di luci, complice la discesa della sera; dalle lande del nord, i cinque vichinghi svedesi approdano sulle nostre cose per scaturire la propria violenza. E Johann Hegg e soci di violenza ne hanno messa in campo. L’audience, si sa, è qui per la maggior parte per Manowar e Children Of Bodom,  ma gli Amon Amarth prendono tutti per il collo e a suon del loro potentissimo swedish/epic death metal tengono banco per 70 minuti circa, incentrando lo show sull’ultima fatica “Surtur Rising”, senza tralasciare qualche capitolo più datato. Gli Amon Amarth vincono la palma per compattezza e coesione, visto che sembra di trovarsi al cospetto di un gigante nordico dall’appetito incessabile. Songs come “Fate Of Norns” e “Twilight Of The Thunder God” fanno vittime sotto il palco, e il loro show passa  inesorabile nelle nostre orecchie. Implacabili e distruttivi come sempre dal vivo.

CHILDREN OF BODOM

A cura di Sabrina Agasucci

La temperatura è ancora molto elevata, ma tutto questo non è sufficiente a far abbassare la carica del pubblico del Gods Of Metal! E’ giunto il momento dei Children Of Bodom, che iniziano subito a “scaldarci” con “Warheart”, un classico del loro repertorio. Dita che come al solito volano sulla tastiera della sua ESP bianca, oggi Alexi sembra in gran forma. Scenografia cool, con telo che riprende l’ultimo disco-raccolta “Holiday at Lake Bodom” ed un’auto tra tastiere e batteria, si va avanti con “Hate me!” e sotto il palco aumenta il pogo già nato dalla prima canzone.
Il pubblico si dimena pezzo dopo pezzo, anche perché questo tour ripropone le loro canzoni più conosciute; Roope sembra gareggiare con Alexi per velocità e bravura, mentre ci da sotto anche Janne, a tastiera “alta” specialmente sulle note di “Silent night, Bodom night” e “Needled 24/7”.
Con “Roundtrip to hell and back”, preso dall’ultimo album, lo stile non si discosta dalla linea principale che ha sempre contraddistinto i Bodom, ma questo concerto ha lasciato un po’ di posto anche ad alcuni brani influenzati dal trash, soprattutto con “Blooddrunk”. Lo show prosegue con tanta energia, Jaska pesta la batteria e l’aria composta di Henkka contraddice la grinta con la quale suona il suo basso. “Everytime I die”, “Angels don’t kill”, “Downfall”, sono solo alcuni dei brani eseguiti al Gods per la gioia dei fan, tutti lì sotto a scatenarsi senza tregua. L’esibizione si chiude con “Are you dead yet?” e riassume una prova più che positiva per la band finlandese, accolta sempre con fervore dal pubblico italiano.

MANOWAR

A cura di Valerio Ferrari

Che siano gli dei del metallo non ci piove, ma che li si debba aspettare per più di un’ora (dato poi lo stage particolarmente minimale che li ospita) è qualcosa che difficilmente sarà perdonabile; ma Joey DeMaio e Eric Adams sanno il fatto loro, dopo più di trent’anni di onoratissima carriera e un set di dischi che ha catalizzato il mondo metallozzo da sempre. Dopo la gloriosa intro eccoli saltare on stage e dar in pasto la evergreen “Manowar” come opener. Eric Adams è in formissima e la band, con il rientro del buon vecchio Donnie Hamzik alla batteria, sembra possedere una seconda giovinezza. Strano ma vero, la band incalza un notevole numero di songs prima di fermarsi e fare la prima chiaccherata; tempo passato tra una “Gates Of Walhalla”, “Fighting The World”, “Kings Of Metal” e “Sign Of The Hammer”. Poche parole introducono la band nel pieno dello show, tra una “The Gods Made Heavy Metal”, “Metal Warriors” e “Brothers Of Metal pt 1“, passando per i mitologici finali e le ‘imprese’ strumentali che vedono il sempre più scheletrico Karl Logan e il poderoso Joey DeMaio alternarsi a suon di note. Diversi siparietti ci portano verso la conclusione dello show (il mitico speech in italiano del bassista/leader e la premiazione del vincitore del concorso per chitarristi), dove prendono forma una tostissima “Hail And Kill”, la più cadenzata “Warriors Od The World” e la conclusiva “The Power”. Pochi minuti ed ecco rientrare Eric Adams intonante la nostrana “Nessun Dorma”, cantata anche dalle birre in mano ai fans, mentre la parola fine viene messa da “Black Wind, Fire And Steel”. Pa band esce sulle note della mitologica “The Crown And The Ring”, a suggello di uno show intenso e incredibilmente scarno di comizi. Ma del nuovo “The Lord Of Steel” nessuna traccia!

Se n’è andato il primo giorno, non proprio indimenticabile per il sottoscritto (rispetto all’edizione dello scorso anno) ma sicuramente sempre meglio organizzato. Applausi alle band e alle crew per l’incredibile puntualità dimostrata, un po’ meno all’audience, sempre meno rispettosa delle band pomeridiane (complice anche il sole micidiale, è vero) ma almeno presente nei momenti più ‘cool’.