
La serata di Halloween ci omaggia di un concerto così da culto, ma così da culto, che di più proprio non si può. Una leggenda della perversione e della pornografia messa in musica si presenta in Italia per un mini-tour di tre date, tutte nel nord Italia; la serata del Marmaja rappresenta la seconda tappa del trittico del bon-ton messo in piedi dagli Isacaarum, storico ensemble grind della Repubblica Ceca, irresistibile assemblato di tematiche molto oltre il buongusto, brutalità a pioggia, scorci di rock’n’roll estremo (quasi degli Impaled Nazarene death) e inflessioni brutal. A contorno della loro esibizione, un nugolo di band italiane che, ognuna a modo suo, va a collocarsi nel filone del metal estremo underground.

In quella che, in un primo tempo, doveva essere la serata dei Fleshgod Apocalypse, headliner del festival costretti a dare forfait a causa di una sfigatissima epidemia influenzale che ha messo k.o. più di metà band, scendono in campo per primi gli Spleen Flipper, combo hardcore cremonese fautore di un sound piuttosto violento e non troppo lontano, concettualmente, dai gruppi più estremi che si succederanno dopo di loro. Immagino non ci siano rimasti benissimo dal doversi esibire di fronte a una platea sparuta e, a dire il vero, ben poco partecipe, ma tutto sommato i ragazzi hanno cercato di uscire a testa alta dall’evento e ce l’hanno messa tutta per far tuonare la loro musica nel piccolo (e freddo) locale di Cusano Milanino. Nella mezz’ora a loro disposizione, pur non brillando per inventiva e sagacia nell’affrontare partiture note e stranote a mezzo mondo, gli Spleen Flipper mostrano una violenza esecutiva accettabile e una buona dimestichezza col genere proposto; grinta, velocità, ruvidezza certo non mancano nella loro musica. Ci sarebbe da darsi una mossa nell’approccio col pubblico, perché va bene che l’attenzione dei presenti non era esattamente all’apice, ma un piglio meno compassato avrebbe aiutato a impattare meglio con gli astanti.

Dopo un cambio palco, invero, abbastanza macchinoso, complice un soundcheck ben poco accurato prima delle esibizioni, che ha provocato un ritardo sempre più cospicuo man mano che le band si alternavano sullo stage, iniziano a suonare gli Endovein, il gruppo sicuramente più lontano dal mood generale del festival col loro thrash tipicamente ottantiano. Per quelli che sono i miei gusti in fatto di modo di porsi e interagire col pubblico, i musicisti torinesi gigioneggiano un po’ troppo e diventano stucchevoli nel tentativo di rendersi simpatici a tutti i costi. E’ un comportamento che vedo più appropriato per quelle cover band navigate che eseguono brani di Vasco dalla mattina alla sera e da lì mai usciranno, non per un act thrash come loro, che quando lascia stare inutili pause e perdite di tempo sa anche farsi apprezzare per le sue qualità musicali. Siamo lontani sia dai grandi nomi del genere sia dai migliori interpreti del momento su suolo italiano, ma piace il tentativo di ravvivare pezzi molto classici e canonici con un approccio vocale pulito e teso verso quelle tonalità acute, ma non troppo, che caratterizzavano tanti ensemble di thrash americano della seconda metà degli eighties. Rispetto a chi li ha preceduti, c’è maggiore enfasi e vigoria sul piano fisico, dettaglio imprescindibile per ogni thrasher che si rispetti: rivedibili sotto certi aspetti, gli Endovein si attestano comunque sopra la sufficienza.

Una tacca sopra e con quell’attitudine insana che verrà portata ai suoi massimi livelli dagli headliner, i Funeral Rape giungono ad allietarci con del piacevole porno-grind. Per l’occasione, e per entrare meglio nella parte, i tre componenti della band si presentano agghindati di tutto punto, pochi accessori ben studiati tanto per mettere in chiaro cosa ci aspetta sul piano meramente musicale: su tutti risalta il perizomino che inguaina la testa del chitarrista-cantante Madcock, ma anche gli altri due componenti del gruppo non scherzano in quanto a finezza della vestizione. La loro esibizione risveglia un po’ la sparuta truppa di metallari all’interno del Marmaja, riscuotendo consensi non solo per la bestialità della proposta ma anche per una scrittura dei brani non così scontata come potrebbero pensare i meno avvezzi al genere. Non solo velocità e brani minimali, i Funeral Rape mettono in mostra ritmiche curate ed equamente divise tra sfuriate letali e rallentamenti gestiti con accuratezza per non far calare la tensione, grazie a un lavoro di doppia cassa instancabile e tambureggiante. Groove e spietatezza non si fanno desiderare per loro, come non manca quella dose di sconcezza che permette di tirare fuori una “perla” assoluta come Vaticanal, titolo da bollino d.o.c.; a testimonianza della bontà dell’esibizione, l’apparizione on-stage del malatissimo singer degli Isacaarum, Chymus, in duetto con Madcock per uno dei brani in scaletta.

Si sale ulteriormente in isteria e killer instinct coi Mumbajumba, quartetto dedito a un death/grind psicotico e annichilente, incentrato prevalentemente su tempi spaccaossa e su vocals al vetriolo che nulla concedono alla facile assimilazione e a uno sviluppo lineare dei pezzi. Sul piano dello stage-acting, poco da discutere: i quattro musicisti sono degli autentici animali da combattimento, in questo hanno molto dell’hardcore più viscerale ed estremo, come del grind più esagitato e sono di quelli che riuscirebbero a scardinare una camicia di forza in pochi secondi, se solo osassero mettergliela addosso intanto che suonano. Dal lato sonoro, sarà stata la stanchezza del sottoscritto, sarà stata la poca fruibilità delle canzoni suonate, mi pare che abbiano centrato il bersaglio fino a un certo punto, peccando in eccessiva monotonia dei pezzi eseguiti. Dopo un po’, il loro continuo insistere su ritmi esasperati e fuori controllo ha un po’ appiattito la resa complessiva dell’esibizione. Ai patiti di quei gruppi col coltello perennemente grondante sangue in mano e la mitragliatrice spianata notte e giorno, però, piaceranno di sicuro e vi invito a tenerli d’occhio.

Orbene, siamo nei piani alti della set-list ed è il momento dei Phobic, quartetto lombardo che vince il premio per minor numero di informazioni ricavabili dalla rete, data l’assoluta assenza di un sito ufficiale o di un myspace. L’ultima pubblicazione col loro nome impresso in copertina data 2001, si tratta del primo e unico album Sick Bleamished Uncreation, mentre su cosa abbiano combinato negli ultimi anni di carriera c’è il mistero più assoluto. Si tratta, è quasi inutile dirlo, di un’altra band senza compromessi e dall’impatto tellurico, incentrato su un death molto carico a livello di chitarre e dal growl lancinante, che non ricade pienamente in alcun filone ben definito, dato che la scuola floridiana si ode in egual misura di quella svedese più truce. La sensazione è quella di trovarsi davanti a un gruppo ben rodato sul fronte live, a cui basta poco per accendere la miccia e trascinare finalmente i presenti, molto più attenti ora che nel resto del festival. Vale per loro lo stesso discorso dei Mumbajumba: buoni mezzi tecnici, forza d’urto notevole, presenza scenica di prim’ordine, i Phobic soffrono qualcosa in termini di varietà di colpi e alla lunga si fatica a rimanere dietro ai loro pezzi senza guardare ogni tanto l’orologio. Nonostante questo difetto, non sono niente male pure loro.

E siamo agli Isacaarum: già dal lungo, e a quest’ora estenuante, cambio palco sale la curiosità e la tensione nell’immaginare cosa possano combinare questi matti. Per loro, l’aggettivo di “malsano” non è usato a sproposito e quando li vedi apparire sul palco, capisci che il germe della follia è attecchito oltre il semplice lato estetico e concettuale dei loro brani, poiché esso connota le persone che fanno parte del gruppo in tutta la loro essenza. In un quadro quasi irreale, da calma silente prima di un incubo agghiacciante, di fronte a quattro gatti disposti a semicerchio a pochi metri dai musicisti, con quel minimo di deferenza necessario a difendersi da eventuali schizzi di materia organica e non provenienti dal palco, gli Isacaarum si presentano imbellettati come dame al gran galà: camice di forza, accessori post-industriali, inquietudine diffusa. I grinders cechi irrompono sull’audience con un paio di inediti, Cockwork Orange e Toil In Oil, due track in linea col materiale più recente del gruppo di casa Obscene, scellerato nel mescolare grind e brutal in un mix personale e inconfondibile. Il suono leggermente confuso dei primi minuti di concerto sfocia, in breve, in un amalgama più nitido, dove risaltano in tutta la loro artisticità Shitpaintress, Bukkake Bitchbombers e un’altra coppia di nuovi pezzi, Twat Drenched e Ladybody Fisted. Nel mentre, i nostri si dilettano in uno stage-acting tanto psicotico quanto dirompente negli effetti, scatenando parecchi dubbi su quanto ci sia di faceto e su quanto, invece, non sia una semplice conseguenza di menti effettivamente corrotte. Massima testimonianza di un agire oltre ogni confine della decenza è il finto pompino di Blowjob Time Pt.3, col cantante talmente preso dalla sua presunta attività orale da far quasi pensare che sia tutto vero. Tornando alle sette note, la seconda parte del concerto va a concentrarsi su alcuni “classici” del combo, tipo Vagina Panzerfaust, Cock Control, Dildog Troopers, tutti suonati ai massimi livelli possibili e con poco risparmio di energie. I tre quarti d’ora di massacro vanno in archivio sulle frattaglie (solo metaforiche) scagliate da Integrated Vulva Hacker; per i pochi che sono rimasti fino alla fine, ne è valsa la pena, nonostante non ci siano stati i famigerati lanci di assorbenti e sia rimasto fuori dalla scaletta un pezzo che, dal punto di vista testuale, offre una descrizione di atti sessuali estremi tra le più intriganti che si possano leggere in giro. Sto parlando di Anal Razzia, andate a dargli una lettura veloce e poi apriamo una conferenza sull’argomento.