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HELLBRIGADE FESTIVAL

Quella del 13 giugno era una data segnata sul calendario da tempo da ogni fanatico del thrash metal: coincideva con la prima calata italica, in quel dell’Hellbrigade Fest, dei Whiplash, storica band del New Jersey che, almeno dall’altra parte dell’oceano, non ha mai raccolto il successo meritato.
A rendere ancor più appetitoso l’evento (organizzato da Nihil Productions) la presenza nel bill di interessanti realtà italiane, tra cui spicca il nome oramai pesante dei Longobardeath, ma soprattutto la presenza di un altro gruppi storico dello speed/thrash anni ’80: i danesi Artillery, autori di quel By Inheritance che può essere senza ombra di dubbio considerato uno dei capolavori assoluti del thrash melodico europeo.

Purtroppo, grazie a un personale colpo di genio, ho perso i pochi appunti presi durante lo svolgersi della manifestazione quindi dovrete accontentarvi della mia memoria di mer..ehm…ferro.

Quando arriviamo al Thunder Road di Codevilla (che chiuderà per sempre i battenti il giorno successivo), stanno ahimè già finendo la loro esibizione gli Ancient Dome, di cui riusciamo solamente a percepire la cover di Into the Pitdei Testament prima di entrare nel locale.

Tempo di un rapido cambio e sono i National Suicide a salire sul palco, band che avevo avuto il piacere di vedere all’opera durante la prima edizione del Milano thrash fest e che, oggi come allora, conferma avere un attaccamento quasi fanatico da parte delle nuove leve. Nonostante siano circa le cinque del pomeriggio saranno infatti il gruppo a godere del maggior numero di supporters e di partecipazione fino all’esibizione dei Longobardeath. Che dire…il loro successo è meritato! Ok, l’originalità è pari a zero ma i cinque ci sparano in faccia il loro thrash diretto e senza compromessi, figlio di Exodus (tributati con la cover di A Lesson in Violence) e Overkill (la voce del carismatico Stefano Mini si rifà parecchio a quella di Ellsworth) con il piglio, il tiro ed il carisma di una band ultra rodata. Dal debut The old family still alive vengono tratte canzoni come la titletrack, Let me see your pogo, National Suicide, Sucks’n’Artillery i cui testi decisamente semplici e adolescenziali sicuramente contribuiscono al grande successo fra i più giovani del combo.

Fan più giovani che com’era successo in quel Marmaja per il Milano thrash fest si dileguano dopo l’esibizione lasciando gli Adimiron davanti a quattro gatti. Una cosa è certa, la proposta dei laziali non è di certo immediata come quella di chi li ha preceduti. Il thrash degli Adimiron, se di thrash si può parlare, può essere visto come un’evoluzione dell’ondata anni ’90, di cui rimane l’influenza dei Pantera (soprattutto nel cantato spesso “southern”, a volte più vicino allo stile di Warrel Dane) imbastardito anche musicalmente col particolare stile dei Nevermore e con ritmiche piuttosto intricate e riff alienanti che portano alla mente Darkane e i primi Meshuggah. Sicuramente un gruppo interessante e che non mancherò di scoprire più a fondo.

È il turno dei Brain Dead: 100% old-school Bay Area. Avevo sentito voci parecchio contrastanti su questa band: idolatrata dai fan dello speed/thrash più classico e senza orpelli di sorta, più volte criticati anche pesantemente in fase di recensione: il mio giudizio sta nel mezzo.
Come nel caso dei National Suicide non si inventa proprio nulla. A differenza dei “colleghi” però i Brain Dead, pur tenendo il palco e mazzolando in modo degno, mancano di quel “qualcosa in più” che permette di farti spiccare nonostante la tua proposta non sia niente di innovativo, che riesce a trascinare e a catturare l’attenzione e l’entusiasmo dell’ascoltatore. In più di un’occasione la sensazione di deja vu sui riff di chitarra è stata molto forte e la voce del singer Felix Liuni mi è sembrata troppo priva di personalità ed espressività.

Si cambia decisamente registro coi Methedras. Se ce ne fosse bisogno, i cinque dimostrano per l’ennesima volta di essere dei veri leoni quando si tratta di stare su un palco.
La tracklist è incentrata quasi totalmente sul nuovo devastante full-lenght Katarsis, dal quale vengono tratte in ordine:
T.D.K.M., Civil War, Flag of life (se ricordo bene), Slave your mind e Mass control. Si chiude con una cover: i fan accorsi sotto il palco attendono il massacro chiamato D.N.R. ma i nostri ci stupiscono eseguendo una Killing Season degli Onslaught, che grazie al growl di un Claudio Facheris in forma smagliante, al tiro assassino live della band e a dei suoni ottimali esce letteralmente ipervitaminizzata, anzi diciamola bene, rompe il culo cinque volte più della versione originale su disco! Grandi.

Durante il cambio palco il locale si riempie per l’esibizione dei Longobardeath, Ul Mik Longobardeath per la precisione.
Non ho mai provato alcuno stimolo che mi spingesse ad avvicinarmi alla suddetta band e il fatto che il gruppo sia diventato un autentico fenomeno di massa idolatrato dal metallaro medio lombardo non ha di certo contribuito a farmi cambiare idea.
Devo ammettere quindi di essermi avvicinato all’esibizione dei milanesi storcendo un po’ il naso…ebbene, mi sono dovuto ricredere! In bilico tra thrash e heavy la proposta dei nostri risulta molto diretta, semplice e godibile. Inoltre il carismatico leader Ul Mik inscena divertenti intermezzi per introdurre i brani e si dimostra persona affabile e umile, il che non fa mai male. Delle canzoni proposte ricordo Bonarda Bastarda, Polenta violenta e I Vahna put hanga il cui ritornello gira nella mia testa ancora ora, oltre alla solita immancabile Ass the pic (Ace of Spades) , che vede come ospiti d’eccezione due pezzi di storia dell’estremismo italico: Peso e un quasi irriconoscibile Andy Panigada fresco di ritorno con i Bulldozer. Musicalmente si può parlare di un gruppo divertente, i brani non sono assolutamente pretenziosi, semplici, spesso si può parlare di copia/incolla di riff dei più grandi nomi del metal assemblati insieme; la struttura di ogni brano è così lineare che più non si può; ovviamente vanno presi nella giusta ottica. Continuo a non capire cotanto entusiasmo attorno alla band, ma comunque pollice, anzi, calice alto!

In pochissimi rimangono fuori dal Thunder quando gli Artillery cominciano a suonare, sotto al palco, il clima è veramente torrido e subito dopo la canzone d’apertura (che mannaggia’mmè non ricordo) sotto al palco è un sudore unico! Si comincia a fare sul serio, è infatti con By Inheritance che arriva il primo boato. A vedersi i danesi sembrano dei pensionati che si mettono a emulare i Tenacious D, ma fortunatamente l’occhio inganna. La band infatti è assolutamente in palla, coesa, precisa e ha voglia di fare male… e con classe! Il nuovo singer Soren Adamsen (che ha militato anche, tra gli altri, nei nostrani Twinspirits, ultimo progetto di Daniele Liverani) possiede una voce decisamente più potente e pulita rispetto allo storico Flemming Ronsdorf, di impostazione decisamente più tecnica e classica, ma che si adatta decisamente bene ai classici della band.
Vengono eseguiti anche due inediti che appariranno sul nuovo When Death Comes, che fanno decisamente ben sperare e a livello stilistico vanno a collocarsi ipoteticamente tra Terror Squad e By Inheritance, i migliori lavori del combo. Nessun disco viene dimenticato, da Fear of Tomorrow ecco The Almighty, Cybermind da B.A.C.K. , Khomaniac. Sfortunatamente il caldo colpisce e sono costretto a uscire dal locale in preda probabilmente a un calo di pressione, mi perdo così le ultime due tre canzoni di un concerto decisamente all’altezza delle aspettative sotto ogni punto di vista.

Il tempo di riprendermi e rientro per l’esibizione dei Whiplash, in formazione a tre come ai tempi dei primi due album, con Tony Portaro definitivamente convinto a occupare anche il ruolo di singer, Joe Cangelosi dietro le pelli e Rich Day a sostituire il defunto Tony Bono alle quattro corde.
Il trio sembra finalmente godere dei frutti di una carriera passata a non raccogliere di certo tutto quel che è riuscita a seminare. Sotto al palco infatti c’è un bagno di folla esaltata, composta da metalheads di ogni età, ad accoglierli. Ecco allora Last man alive, dal disco d’esordio Power and Pain che verrà letteralmente depredato nella scaletta di stasera. Il trio dimostra subito di non essere minimamente scalfito dal caldo insopportabile che regna sul palco, così come il pubblico che non risparmia un’oncia di energia dimenandosi e danzando furiosamente dall’inizio alla fine del concerto. Da Ticket to Mayhem ecco Spit on your grave, poi un brano nuovo, sempre sulla scia dei primi due dischi, con quel che di melodia in più che lo fa avvicinare più a Ticket che all’esordio. Di novità ne verranno proposte tre, solamente una sullo stile sviluppatosi nel coraggioso continuo della carriera dei nostri. In ordine sparso poi Burning of Atlantis, Eternal eyes, Spit on your grave, Stage dive, Last nail in the coffin: l’energia che rimbalza continuamente dal palco ai fan sembra non esaurirsi mai! Tempo di bis, sempre dal primo album la mitica Power thrashing death ,in cui assistiamo a una vera e propria invasione di palco da parte del pubblico, con un Tony Portaro quasi intimidito da tanto calore. Nail to the cross chiude un concerto che è stato sicuramente un successo, unica nota negativa proprio la set-list, incentrata quasi unicamente sui primi due album (ma mancano anche hit del calibro di Respect the dead o Snake pit che dal vivo avrebbero fatto tremare tutto) trascurando la personale evoluzione che la band ebbe negli anni ’90 e che culminò col bellissimo Sit Stand Knell and Pray, uno dei migliori esempi di thrash influenzato ed evoluto partorito dopo la “morte” del genere, che stasera viene completamente ignorato.

L’ Hellbrigade festival è stato l’ultimo grande concerto che si è svolto al Thunder Road, un locale fondamentale per una provincia come quella di Pavia, veramente povera sotto l’aspetto musicale. Un locale che negli anni ha anche contribuito alla mia crescita musicale e sicuramente a quella di tante altre persone. Per questo gli porgiamo un glorioso saluto.