
La prima parte del bill era stata annunciata a fine 2010, e già quella
prima tranche di nomi aveva dell’incredibile: una quantità infinita di
band killer, appartenenti a qualsivoglia ramificazione del metal e dei
generi ad esso affini, che aveva immediatamente fatto pensare
all’Hellfest 2011 come ad un evento imprescindibile. Al completamento
del quadro degli ensemble presenti, una certezza: non potevamo farcelo
sfuggire. E’ giusto e sacrosanto cadere in una tentazione tanto forte
come questa, davanti a una tale messe di talenti, racchiusa in tre
giorni senza tregua e senza riposo, bisognava cogliere l’attimo e
toccare con mano se la realtà dei fatti potesse essere all’altezza delle
fantasie più sfrenate. A festival concluso, possiamo dire convinti a
coloro che sono rimasti a casa, e si sono mangiati le mani per non poter
esserci, che è tutto vero e senza inganno: l’Hellfest è il top.
Talvolta l’immaginazione ci azzecca in pieno e non è una mera
approssimazione per eccesso del reale. La kermesse francese,
dichiaratamente votata al metal estremo ma con più di un nome di
assoluta eccellenza negli ambiti più classici, rappresenta il sogno
tramutato in fatti concreti di tutti coloro che vivono questa musica in
modo viscerale e totalizzante.
I tre giorni in terra di Francia ci
hanno fatto capire, in maniera ineluttabile, la vitalità infinita di
questa bestia camaleontica che è il metal: alcuni la vorrebbero vedere
piatta, uniforme, sempre uguale a se stessa, di colore uniforme. Chi sa
guardare oltre ha intuito da tempo che anche in una scena frammentaria e
poco coesa intorno a giganteschi numi tutelari, come poteva accadere
almeno fino a una decina d’anni fa, ci sono gruppi che hanno costruito
nel tempo e lontano dai riflettori la propria leggenda. I festival a
tema, di settore, riescono a dare lustro ai leader delle rispettive
nicchie sonore, più difficilmente questo accade in manifestazioni di
ampie dimensioni, nelle quali i palchi minori finiscono per relegare un
po’ in secondo piano gli act più anticonvenzionali e fuori dal coro.
L’Hellfest riesce invece a operare la sintesi perfetta, racchiudendo in
un unico alveare operoso l’hard rock mainstream, le storiche fiere
malefiche di death (tanto), black (poco), thrash (a valanga) e tutto
quel seducente guazzabuglio di realtà stoner/doom, sludge, hardcore
estremo e old-school, che si è imposto come l’architrave del festival e
ha scritto momenti a dir poco memorabili lungo tutte le tre giornate. Il
nostro viaggio nelle pieghe multiformi dell’universo heavy è stato
lungo, stancante, appagante come chi non c’era non si può neanche
lontanamente immaginare. Avevo detto che le cose tangibili in casi come
questo pareggiano l’immaginazione? Mi sa che stavolta l’hanno
addirittura sorpassata ….
I GIRONI DELL’INFERNO
Prima di partire con la carrellata delle band visionate (siamo riusciti a
coprire circa un quarto del programma, in numeri 32 gruppi su 120), è
utile cercare di capire lo scenario nel quale ci siamo imbattuti. Serve
per farsi un’idea migliore del perché l’Hellfest sia davvero così
spettacolare e per farvi decidere se possa valerne la pena o meno,
l’anno venturo, imbarcasi in questa avventura. Per essere più esaustivi,
può essere utile tenere come punto di riferimento da un lato il nostro
Gods Of Metal, dall’altro il viaggio di iniziazione per ogni metaller
nostrano alla scoperta dei festival esteri, ovvero il mai elogiato
abbastanza Wacken Open Air. Il campeggio, come nella terra delle vacche
posta quasi al confine con la Danimarca, è in prossimità dell’area
concerti, ma le similitudini con Wacken praticamente si fermano qui. Se
in Germania si formano faraonici accampamenti con camper, roulotte e
camioncini, in Francia la parte di campeggio più vicina al festival è
vietata alle autovetture, sono proibiti i generatori e c’è in generale
una minore libertà nel creare spazi per bagordi. Non essendo quest’area
molto ampia, chi è arrivato più tardi (la gente ha sciamato
ininterrottamente dal pomeriggio di giovedì a tutto venerdì) si è potuto
piazzare nelle zone limitrofe di fianco alle macchine, ma senza la
possibilità di estendere particolarmente il proprio raggio d’azione. Ne è
risultato un contesto sicuramente meno caratteristico e folkloristico,
purtroppo anche meno ordinato, vista la poca organizzazione dell’area,
lasciata un po’ al caso. I servizi, effettivamente, erano su scala
ridotta rispetto al collega tedesco, non essendoci tra l’altro alcun
piccolo supermercato come accade oramai da qualche anno a Wacken ed
essendo la stessa zona ristoro limitata al Metal Corner, posto
all’inizio della zona camping.
Capitolo docce e toilette, nota
dolente in questo tipo di eventi: un solo punto servizi igienici nel
campeggio, bagni chimici in numero non illimitato fuori, dignitoso
nell’area concerti, anche se poi il metallaro medio, di fronte a
necessità ridotte alla minzione, tende sempre ad adottare l’approccio
naturalistico. Dall’orda metallara, meno caciarona e pittoresca di
quella notata in Germania, il paese di Clisson viene toccato solo in
parte, nell’area del piccolo centro commerciale posto alle porte
dell’entrata all’Hellfest e agevolmente raggiungibile a piedi dagli
accampamenti.
La zona festival vera e propria è risultata essere di
dimensioni molto inferiori a quella germanica, dettaglio che ci aveva
intimorito il giovedì al pensiero di quanti sarebbero accorsi nei giorni
a seguire. Fortunatamente, il numero dei convenuti non è stato neanche
lontanamente paragonabile a quello di Wacken, gli spazi a disposizione
si sono dimostrati più che adeguati, consentendo di passare in breve
tempo da un palco all’altro anche nei piani alti della scaletta. La
stessa visione degli show non si è mai svolta nelle condizioni da nave
di clandestini stracolma, dato che pure durante l’esibizione degli
headliner si stava discretamente larghi. Abituati all’autostrada di
corpi sopra la testa di Wacken, ci siamo piacevolmente resi conto che a
questa latitudine il crowd surfing non è così popolare ed è stato giusto
limitato a pochi professionisti di tale usanza. I quali sono stati,
spesso, dolorosamente scoraggiati dalla security, che al posto di
prenderli al volo nelle prime file li ricacciava indietro o li sbatteva a
terra. Poco gentili, devo dire … In generale ci si poteva godere i
concerti da distanza ravvicinata senza dover ingaggiare lotte con chi ci
stava attorno o trovarsi nel vortice di circle-pit e mosh giganti.
Buona, meglio del previsto, l’offerta alimentare, con stand abbastanza
variegati e dalla discreta qualità media, mentre si è rivelato vincente
il sistema dei gettoni (1 euro=1 gettone) per gli stand della vendita
delle bevande, che hanno visto quasi azzerate le code.
Infine, due parole su palchi e pianificazione degli orari. Gli stage
erano in tutto quattro, con i due principali affiancati, a forma di
igloo, sui quali ci si esibiva senza respiro, con pause di cinque minuti
cinque, rispettate con grande regolarità. I due palchi minori, se così
si possono chiamare visti i nomi delle band che vi si sono esibite,
consistevano in due tendoni da circo: uno più grande, la RockHard Tent,
dedicata al metal estremo più tradizionale, il secondo, la Terrorizer
Tent, salotto buono dei suoni di confine e dei suoni più particolari, il
palco che alla resa dei conti è stato popolato dai fans più accaniti,
perché essendoci pochi posti c’era solo chi voleva esserci a tutti i
costi. Sulla qualità dei suoni, capirete dai report dei singoli gruppi
che è andato quasi tutto alla perfezione.

Terrorizer Tent, 10.30 – 11
E’ tanta la voglia di buttarsi a capofitto nel festival che ci
presentiamo puntuali all’orario di apertura porte, fissato per le ore 10
di venerdì 17 giugno. Entriamo con quella punta di trepidazione e
tensione che sempre accompagna i momenti topici. Per scioglierla, niente
di meglio che buttarsi subito sui primi show in programma. I primi a
calcare la scena, in contemporanea ai Klone sul Mainstage 2, i francesi Hangman’s Chair,
in attività dal 2005 e qui accolti da un discreto numero di
aficionados, pochi se paragonati a chi verrà dopo, tanti se consideriamo
l’ora. Chi sta ai bordi dello stage si fa sentire e tributa buon
supporto ai quattro musicisti, uniformemente vestiti di nero e
abbastanza placidi nell’atteggiamento nei primi minuti di show. Poco
propensi a lasciarsi andare, tranquillamente concentrati sugli
strumenti, i nostri si abbarbicano sul crinale che divide doom
settantiano e sludge. I ragazzi rasentano sonorità old-fashion sulle
parti più pacate, contornate dalle intense vocals pulite di Cèdric Toufouti,
si insudiciano in suoni fangosi quando la pesantezza prende il
sopravvento e le emozioni da descrivere si fanno più strazianti: in
questi casi movimentano un minimo il loro stage-acting, quel tanto che
basta per marcare la differenza di mood tra le varie parti di canzone. I
pezzi del combo convincono, gli Hangman’s Chair si affrancano quel
tanto che basta dai modelli di riferimento per vivere di luce propria e
non riflessa. Tra un tiro di sigaretta e una plettrata decisa, il
concerto viaggia in costante crescendo e anche chi come il sottoscritto
non li conosceva e non aveva alcuna intenzione di lasciarsi andare tanto
nei primi show, è costretto ai primi accenni di headbanging. Suoni
perfetti (sarà una costante su questo palco), a volumi belli alti ma
sotto la soglia dell’esagerazione, accompagnano il combo nella sua
mezz’ora di vernissage, buona per farsi incitare a gran voce da chi li
conosceva già e ancora più utile per chi ha scoperto una alternativa ai Down,
dai quali pagano dazio per adesso in termini di songwriting (il termine
di riferimento è davvero elevato) ma dai quali sembra abbiano imparato
quale sia il vero spirito del suonare sludge.

Main Stage 1, 11.05 – 11.35
Fuori dalla Terrorizer Tent già si odono le note scalmanate dei Valient Thorr,
ruvidi metallers del North Carolina abbastanza trasversali rispetto ai
normali stilemi dell’heavy classico, nel quale comunque possono essere
ricondotti, seppure con qualche forzatura. L’impatto dei nostri è
piacevolmente disordinato e in linea con una certa nouvelle vague che
vede commistioni apparentemente assurde anche nell’heavy puro. Punk, Motorhead, Iron Maiden e ZZ Top
sgomitano per aprirsi un varco nel sound caotico e altamente energetico
di questi ragazzi. Sin dalle prime battute i cinque si dimostrano
irrequieti animali da palcoscenico: headbanging incessante, corse da un
lato all’altro dello stage, smorfie assurde, i Valient Thorr non
intendono fermarsi nemmeno un secondo durante i pezzi e ne incarnano
nelle movenze l’anima ribelle e anarchica. Le canzoni, apparentemente
sconclusionate tanto vi confluiscono riff e armonie dagli ambiti più
disparati, sono maledettamente divertenti e azzeccano la formula
dell’esagitazione fuori controllo, abbinata a un gran senso della
melodia. Goduria pura per chi apprezza musica disimpegnata ma ben
scritta e con l’effetto di una passata di carta vetrata sulle orecchie.
Spettacolo nello spettacolo la performance del singer Valient Himself,
barbuto uomo dalla chioma rossiccia e sicuramente non tra le persone
più glamour del pianeta, ma sicuramente uno dei personaggi più simpatici
del festival. Il suo vociare poco curato, perfettamente incastrato in
una proposta così spontanea e incline a puntare alla sostanza piuttosto
che al pelo nell’uovo, è un elemento quasi trascurabile rispetto a come
si dimena. Memorabili i suoi passettini sul posto, i balletti
improvvisati in stile video d’aerobica americani, lo strisciare in
ginocchio per il palco come posseduto.
Il coronamento di tanta
benedetta demenza è la sua discesa tra il pubblico, dopo aver chiesto a
tutti di sedersi, così da mettersi in mezzo ai fans a prendere per il
culo i compagni di band intenti a suonare. I Valient Thorr lasciano un
bel ricordo di sé a chi li ha potuti ammirare quest’oggi e reclamano le
vostre attenzioni per gli anni a venire.
RockHard Tent, 12.15 – 12.55
I Malevolent Creation li abbiamo appena ammirati, giusto un paio di mesi
fa, al Magnolia, ma una band come questa non stanca mai. I deathsters
americani interpretano i concerti come una cruenta battaglia, e
difficilmente ne escono con le ossa rotte. Succede anche oggi, sotto
l’ampio tendone della RockHard Tent, dove i nostri vanno a sfoderare
tutto il repertorio di armi di distruzione di massa, creato in più di
vent’anni di indefessa carriera. Buona l’affluenza del pubblico, che non
lesina incitamenti all’act floridiano, apparso decisamente più sobrio
in tutti i suoi componenti rispetto alla data italiana, nella quale i
nostri avevano calcato la scena un pelo alticci. C’è un altro bassista
in formazione oggi, il quasi adolescente visto all’opera a Segrate
lascia il posto a un musicista più esperto ma non meno efferato
nell’esecuzione. La partenza è sparatissima, i Malevolent Creation amano
abbinare velocità e brutalità e ci attaccano compatti e ferini, con la
determinazione di sempre. Genuinamente truci, con addosso brutalità
ancestrale e quel senso del riff mortifero che nel death moderno pochi
riescono ad avere, Hoffman e soci rimangono un classico
inossidabile. Rispettata in pieno l’alternanza tra pezzi datati e
recenti, con preponderanza per quelli più tirati, ovviamente, anche se
non mancano neppure macigni da ducento tonnellate, cadenzati catacombali
che fanno scendere la notte sotto la RockHard Tent. Inutile dire che la
tenuta di palco è impeccabile per tutti i quaranta minuti a
disposizione, Fasciana dispensa assoli affilati, Hoffman canta
alla grande, e squadra minaccioso gli astanti per tutta l’esibizione.
Non attacca fisicamente l’audience, ma il suo cantato miete comunque le
consuete vittime. Discreta baraonda davanti, headbanging convinto appena
dietro, uno stillicidio di ululati di approvazione all’annuncio di ogni
canzone. Chiusura di prammatica con l’inno Malevolent Creation e ghigni di soddisfazione un po’ per tutti al termine dello show. Il vero death metal non muore mai.

Main Stage 1, 13.45 – 14.30
A una breve ricognizione all’Extreme Market, l’area riservata agli
espositori di dischi, magliette, vestiario e prodotti di varia natura,
segue il concerto degli Alter Bridge, act per il quale andava
verificato se il clamore nei loro confronti fosse giustificato, essendo
assurti tra i pochi eroi moderni del panorama hard rock mondiale in soli
tre album. Tiriamo un sospiro di sollievo già dopo il primo pezzo: qua
la stoffa c’è. Il gruppo nato dalle ceneri dei Creed si presenta
in modo fragoroso, impartendo fin dalle prime battute un’esemplare
lezione di rock moderno. Indole seventies e potenza del terzo millennio,
gli Alter Bridge ci mettono poco a stuzzicare i palati dei rockers più
esigenti. Myles Kennedy prende immediatamente il controllo delle
operazioni, infondendo in ogni linea vocale grande vigoria, come se
ognuna di esse dovesse essere quella definitiva, risolutiva. Tinte blues
“macchiano” un timbro vocale molto vicino a quello di David Coverdale e Robert Plant
e la musica segue questa strada, risultando essere la perfetta
congiunzione dell’hard rock vecchio stampo con il metal. La performance
del quartetto è molto calda, rock nel vero senso della parola, con le
singole note che trasudano feeling ed elettricità, anche nelle partiture
più melodiche. Il singer è assolutamente incontenibile, pieno di
adrenalina, si muove per il palco irrequieto, forse immagina che ogni
metro percorso possa dare ulteriore linfa vitale ai pezzi. Un Kennedy
mattatore, quindi, che scende a un certo punto a salutare le prime file,
correndo da una parte all’altra a stringere mani con la gioia di chi
nella vita non vorrebbe fare altro che cantare in cima a un palco. Il
resto del gruppo non si limita a suonare bene le proprie parti, ma ci
mette un trasporto e un tocco fatato che solo i più bravi riescono ad
avere. Unico problema: comincia a piovere, e non è proprio una
pioggerellina, anche se va e viene. Di questo, ovviamente, nulla si può
imputare agli Alter Bridge, che si dimostrano formazione di alto
lignaggio e classe, meritevole di tutti i successi ottenuti finora.

Terrorizer Tent, 17.05 – 17.50
La Terrorizer Tent ribolle: l’afa appiccicosa delle paludi, i suoi
miasmi, le perversioni di chi vi bazzica vengono esplicitate in musica
dalla negatività assoluta degli Eyehategod. Occasione prelibatissima
quella odierna, per l’esibizione nel giro di una manciata di ore del
trio delle meraviglie Down, Corrosion Of Conformity, Eyehategod,
con questi, la faccia più truce e antimelodica dello sludge, a fare per
primi la comparsa nella prima giornata della kermesse francese. Il
gruppo non nasconde nulla della propria parte oscura: gli ultimi istanti
di soundcheck, con tutti i musicisti sul palco a dare gli ultimi
ritocchi, sigaretta in bocca e aria lercia, sono un degno preambolo a
ciò che sta per accadere. Il finimondo, fin qui appena dietro l’angolo,
si materializza con l’arrivo on-stage del singer Mike Williams e l’avvio del concerto.
La distorsione di chitarra è uno squisito abominio, dolorosa e
densissima, i ritmi convulsi e drogati. Inviti al mosh affogano in un
inferno senza spiragli di luce, le parti lente soffocano ed esaltano, il
pubblico si adegua alle cadenze e segue nell’headbanging la band come i
bambini il flautista della fiaba del flauto magico. Nonostante
l’apparenza insana, i cinque sono in formissima, Jimmy Bower in
testa, si precludono ogni sosta, si stringono a centro palco, dando il
senso di una unità di intenti indistruttibile. Il sound scuro, marmoreo,
in uscita dalle casse viene straziato da urla hardcore che non perdono
intensità per tutta l’esibizione e rappresentano il punto d’arrivo della
deumanizzazione operata dagli Eyehategod. Le luci rimangono
costantemente basse, virate a un blu che lascia intravedere in una
flebile penombra le figure di chi suona.
Il dialogo tra stage e
audience è quello di due pugili sul ring, si va a chi picchia più forte:
allora sotto finchè ce n’è, con la polvere che comincia ad alzarsi e a
dare contorni indefiniti a quel che accade. Negli occhi, nelle orecchie e
nella testa, alla fine di 45 minuti meravigliosi come questi, rimane
l’impressione di aver assistito a una devastante manifestazione di
devianza e cupezza, che sancisce una delle performance più
impressionanti dell’intero Hellfest.

Main Stage 1, 19.05 – 20.05
Il supergruppo sludge-southern per antonomasia giunge sul Main Stage 1
quando l’acqua sembra dover squassare da un momento all’altro l’area
concerti: da qui in avanti gli scrosci si faranno meno intensi, ma con i
Down saranno abbastanza fastidiosi.
La band si presenta
consapevole del proprio status e pronta ad accogliere consensi, molto
rilassata e prodiga di sorrisi nei confronti del pubblico. Da quando Anselmo
ha messo ordine nella sua testa e anche il resto della truppa passa
meno tempo a trastullarsi in passatempi pericolosi, i Down sono in
condizioni strepitose. I cinque amici di vecchia data che li
rappresentano, peccato solo per la mancanza di Rex Brown al basso, non beneficiano di volumi all’altezza, ma questo è l’unico piccolo fastidio dell’ora di concerto. Keenan e Windstein
fraseggiano in scioltezza fra le partiture in costante ammollo nel
whiskey e nelle acque limacciose del Mississippi: il grande fiume viene
omaggiato in Ghosts Along The Mississippi, e qui come altrove
Anselmo fa cantare il pubblico a più non posso, e non certo perché gli
manchi la voce, visto che quella è il solito miscuglio inconfondibile di
cadenze da vecchio uomo del sud e atavica rabbia metallica. Il
privilegiato in scaletta, dei tre opus discografici, è Nola: Temptation Wings, Stone The Crow (da brivido il coro del pubblico), Lifer,
tutti pezzi su cui il singer ci tiene in pugno con facilità disarmante.
Non si capisce se sia più adorante l’audience nei confronti della band o
viceversa, tanta è l’empatia manifestata da quei simpatici omaccioni
che ci stanno di fronte. Ode alla peccatrice città del jazz con la
sboccata New Orleans Is A Dying Whore, bourbon giù nel gargarozzo sulle note di Underneath Everything. L’ennesimo omaggio alle proprie radici è l’inno col cuore in mano Eyes Of The South, intanto si va verso la chiusura, affidata ovviamente a Bury Me In Smoke.
I Down partono forte e subito si fermano, Anselmo si rivolge ai fans e
dice pressappoco: “E’ l’ultimo momento che abbiamo da passare insieme,
facciamolo al meglio.”. E giù di nuovo con le martellate del riff
iniziale, il trascinante chorus, il singer che va a scavare nella sua
gola per trovarvi le note più basse che è in grado di produrre. Ennesimo
coro cantato a una sola voce da coloro presenti in quel mentre
nell’area concerti, con i Down che si congedano con la scenetta di
lasciare man mano gli strumenti ai proprie roadies e a qualche amico di
passaggio, tipo uno dei membri degli Eyehategod accorso allo show dopo
il proprio concerto. Grande prova di onnipotenza per l’icona del metal
sudista.

Terrorizer Tent, 20.50 – 21.40
Per essere puntuali al concerto dei Corrosion Of Conformity in formazione a tre, periodo Animosity, saltiamo a malincuore i Meshuggah,
in quanto l’ubiquità non ci è per ora concessa. Ciò che stiamo per
ammirare, però, merita un tale sacrificio, perché vedere il combo
americano riesumare la prima parte della propria storia non è qualcosa
che si vede tutti i giorni. Abbiamo qualche timida speranza che possa
apparire on-stage anche Pepper Keenan, ed in effetti il biondo chitarrista è a lato del palco in tenuta after-show (sembra in pigiama…).
Qualche ritocco per vagliare la resa dei singoli strumenti e si parte,
in piena tradizione hardcore-proto thrash anni ’80. L’intesa tra le
parti è ok, il terzetto, guidato dalla voce un po’ nasale e imperfetta
di Mike Dean, apre il varco temporale che ci separa dall’epoca
dei loro primi lavori, ossia gli anni dall’’82 all’’87, prima della
svolta di Blind. Non per forza veloci, piuttosto spigolosi e
ruvidi, i brani della prima tranche di carriera dimostrano di aver retto
benissimo il peso degli anni, i Corrosion Of Conformity suonano con la
freschezza e la voglia degli esordienti e fanno tracimare di entusiasmo
tutti i convenuti sotto il tendone. Keenan già alla seconda canzone
prende la chitarra e si aggrega all’altra sei corde di Woody Weatherman,
quindi compare più avanti per qualche coro. Il concerto viaggia sui
binari del più puro old-school, la band lascia in disparte
l’intrattenimento e si concentra nell’interpretare fedelmente il vecchio
materiale. Non sazi della lezione di stile impartita, i tre lasciano in
fondo una chicca davvero speciale, che metterei tra i momenti più
inebrianti dell’intero festival. Wead annuncia “un nuovo pezzo”, nientemeno che Vote With A Bullet,
in verità risalente a vent’anni fa, essendo una delle tracce clou di
“Blind”. Keenan si ripresenta on-stage, stavolta non solo alla chitarra
ma pure al microfono. Attimi di squisita perdita di inibizioni
accompagnano un po’ tutti nei pochi minuti del pezzo, suggello ideale a
un’altra grande performance della prima giornata.

Main Stage 2, 22.10 – 23.10
Imperversano sul web i commenti attorno al loro nuovo disco, il tanto agognato Illud Divinum Insanus, il primo con David Vincent a basso e voce dal lontano Domination;
nella maggior parte dei casi sono negativi e vicini al puro disprezzo,
qualche sparuto ammiratore del nuovo corso qua e là lo si trova, in
generale c’è una sensazione di spiazzamento e quasi di sgomento a
sentire cos’hanno combinato i pionieri del death floridiano. La
dimensione live però mette tutti d’accordo e tende ad appiattire le
differenze stilistiche col passato, finendo spesso per ricondurre sotto
un unico comun denominatore gesta soniche che infiniti passaggi
industriali per arrivare al cd finito finiscono, fatalmente, per creare,
al di là delle scelte compositive di partenza. Non so dire, non
avendolo ancora ascoltato, se l’album “I” dei nostri sia così lontano
dalla loro leggenda, assicuro che nel contesto live la miscellanea tra
passato e presente ha quel dolciastro gusto insalubre che i Morbid Angel
non riusciranno a perdere nemmeno a 90 anni.
Un Vincent sempre più
somigliante a Nikki Sixx in capigliatura, portamento, smorfie del viso,
si piazza saldamente al centro della scena, tra lo
zarro-laccato-biondicrinito Destructhor e il profeta del chitarrismo death Azagthoth.
Tronfiamente sicuro di sì, ai limiti dell’idolatria dell’io, Vincent
svetta nel suo inattaccabile carisma, dietro di lui la drum-machine
chiamata a sostituire Pete Sandoval, a cui va tutta la mia comprensione per le pressioni esagerate che i death metallers gli hanno messo addosso: Tim Yeung,
giovane di belle speranze, non farà rimpiangere il dioscuro dei
batteristi death, pur non possedendone inevitabilmente il fascino
luciferino. Trey piomba immediatamente in quella sua trance estatica che
sempre l’accompagna dal vivo; il capello va a coprirgli completamente
il viso, i tendini del braccio appaiono a fior di pelle mentre la linfa
creativa si trasferisce dalle braccia alle corde dello strumento, per
porgerci stridii solisti accecati dall’odio e riff da catacombe infette.
L’apertura, in una serata oramai avanzata tinta ancora da una luce
grigiastra (il sole andrà a riposo attorno alle 23), è affidata a Immortal Rites,
oggi come nel 1989 una cerimonia di iniziazione per ogni death metaller
e assolutamente letale nella spiritica parte centrale. Maze Of Torment
è ancora più distruttiva, incombente, gigantesca. Nel suo distacco,
Vincent a parte, la creatura Morbid Angel è quanto di più spirituale e
atmosferico il death nudo e crudo possa proporre, il prolungato martirio
solista di Chapel Of Gouls ne è la vetta estatica. Del nuovo lavoro assurgono a emblema un pezzo molto old-school, la nota da tempo Nevermore, e la ruffiana, uno sberleffo al death, I Am Morbid. Poche ciance, entrambe spaccano il culo, anche se l’ossessività della seconda nell’incedere provoca una certa sorpresa.
La pulsione rock, intesa nella voglia di arrivare dritti al cuore senza troppe mediazioni, emerge nella coltellata di Angel Of Disease, mentre Where The Slime Live
esalta cupezza e malvagità del combo. Il singer annuncia i pezzi con
raggelanti baritonali, accompagnati da occhiate cattive, magnetiche, da
cui traspare la voglia di essere divo e personaggio di David, in netto
contrasto col raccoglimento di Trey. Fa una comparsata sul palco Phil
Anselmo, che abbraccia con molto calore entrambi i membri originari del
gruppo, manifestandogli tutto il proprio affetto. Strana scena,
spontanea e in linea con uno spirito di fratellanza metallica che
vediamo sempre volentieri. Si chiude con una canzone in cui le note
sembrano solidificarsi e prendere la consistenza di muraglie,
abbattendosi al suolo in tonfi gelidamente sordi: God Of Emptiness.
Il growl più espressivo del pianeta cancella ogni speranza, spazza via
ordine e regole, crea il nulla: la divinità volgare ha cosparso la terra
circostante di nuova blasfemia.

Rock Hard Tent, 23.15 – 00.15
Alla Rock Hard Tent si respira l’aria asfittica del metal estremo più
ortodosso e non c’è modo migliore di andare incontro alla notte che
mettere in campo i precursori dei movimenti death e black. L’ultima band
della giornata, che non seguiremo, sono i Mayhem con Attila Csihar alla voce, prima è il turno dei Possessed di un redivivo Jeff Becerra.
Il singer, da anni sulla sedia a rotelle a causa di un proiettile che
stava per mandarlo al creatore durante una sparatoria in cui era stato
coinvolto per pura sfiga, durante l’ultimo tour in Europa, nel 2008,
aveva seriamente rischiato la morte per un’infezione alle ossa. Ne era
uscito fortunatamente con un grande spavento e senza ulteriori danni.
Ora il gradito ritorno nel Vecchio Continente, con una formazione di
onesti gregari a rimpinguare una line-up che lo vede come unico
superstite della formazione che aveva inciso Seven Churches, Beyond The Gates e l’ep The Eyes Of Horror.
Le immagini ai lati del palco richiamano proprio queste ultime due
pubblicazioni e sono gli unici orpelli scenici per uno stage altrimenti
piuttosto minimale, una costante dell’Hellfest, dove in genere
l’”arredamento” del palco, anche sui Main Stage, è abbastanza scarno.
Non manca invece il piacevole contorno di borchie e magliette old-school
per i membri della band. Jeff è un po’ diverso dall’ultima volta che
l’abbiamo visto, nel 2007 a Wacken, ha il capello un po’ più lungo e
sembra anche ingrassato, perfino gonfio in faccia. Purtroppo, almeno per
il primo paio di pezzi, non si sente la voce, il microfono fa le bizze e
per quanto Becerra urli, non si sente nulla delle sue sgraziate vocals.
Il tiro poi viene aggiustato, e per quanto l’ugola non sia quella dei
giorni migliori, inferiore in affilatezza e veleno a quella della già
citata edizione di Wacken, l’effetto complessivo non è disprezzabile.
I Possessed bastonano con invidiabile noncuranza per qualsivoglia
finezza strumentale: selvagge, rudimentali, primitive, qualsiasi
aggettivo che richiami un immaginario bestiale è lecito per descrivere
le canzoni del gruppo, che ripercorre alla velocità di un treno a
levitazione magnetica la scarna discografia alle spalle, lasciando
pochissimo spazio ai dettagli e molto alla becera devastazione. Il
pubblico di raffinati cultori dell’estremo davanti a loro non si fa
pregare e abbonda in incitamenti ed headbanging. Jeff si sbatte come può
dalla sua scomoda postazione, si profonde in ringraziamenti a
un’audience che non l’ha mai dimenticato, sorride estasiato nel vedere
quanto interesse ci sia ancora per la sua creatura. La convulsa
performance si va a concludere nel segno di un pezzo icona dell’estremo,
Death Metal, accolto col boato più fragoroso dell’intera
esibizione. Il rauco vociare degli astanti nel chorus risuonerà quale
dolce nenia nella testa di Jeff e compagni per chissà quanti giorni a
venire.

Altro splendido superstite da overdose (qualche ora prima abbiamo visto Phil Anselmo…), Dave Wyndorf
è un’altra di quelle icone inattaccabili alle ingiurie del tempo e
degli stravizi e anche ora che ha passato i 50 e si è tirato giù di
tutto, è più tonico lui di almeno la metà di quelli che lo guardano
suonare. E’ l’una di notte ormai, le facce sono stanche ma non c’è ombra
di sazietà. E se sul Main Stage gli In Flames stanno riempiendo di
fiammate e fuochi d’artificio l’aere, qua è lo stoner/hard rock a
spadroneggiare. La Terrorizer è nuovamente piena imballata e pronta a
scattare sull’attenti. Il singer, su cui sono concentrate tutte le
occhiate dei presenti, si mostra inizialmente abbastanza compassato e
tiene un atteggiamento controllato e sornione. Non ha freni la musica, i
Monster Magnet mostrano la verve delle giornate buone e non si devono
sforzare per ingraziarsi chi sta ascoltando. Più che perdersi in derive
psichedeliche, il combo dal vivo trasmette un flusso hard rock torrido e
confortevolmente avvolgente. Riff energici e un’assidua ricerca del
dinamismo fanno sì che anche le parti strumentali più lunghe abbiano
carica da vendere e mandino in solluchero anche i meno avvezzi al
genere.
I nostri si esprimono con sicurezza da primi della classe e
eruttano ettolitri di feeling, deliziando in ogni singolo passaggio.
Per larga parte dello show ci sono addirittura tre chitarre all’opera, e
si sente, visto il muro di suono eretto: Dave non si stacca facilmente
dal suo strumento, ma anche senza si muove bene e non sembra gli manchi
qualcosa. La voce regge alla grande, rimane fascinosa per tutta l’ora a
disposizione e non si increspa per improvvidi debiti di ossigeno. Per un
novizio assoluto all’operato di tali maestri del vivere lisergico e
rock’n’roll, i Monster Magnet hanno rappresentato una delle grandi
scoperte del festival. Magnetici.