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Hellfest 2011 – Secondo Giorno

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Main Stage 2, 11.45 – 12.15

Al risveglio la visione del cielo mattutino è la medesima di quella del
giorno precedente: grigiore diffuso, nuvoloni minacciosi, sole nascosto.
Cominciamo bene… Non ci svegliamo abbastanza presto per l’apertura
delle ostilità, entriamo precisi per il primo nome di un certo spessore
in campo quest’oggi. L’occasione è gradita per rivedere all’opera, dopo
solo un paio di mesi dalla loro trasferta italiana, Tony Portaro e
compagni. Cappello da cowboy in testa a celare la pelata, smanicato di
pelle e occhiale da sole, il singer è praticamente pronto per un rodeo.
L’aria non è ancora elettrica, ma il trio yankee sa come strappare dal
torpore un’audience già abbastanza provata da un primo giorno
intensissimo. Essendo ancora nel tour di celebrazione di Power And Pain,
sono i brani di quella release i grandi protagonisti della mezz’ora a
disposizione e vengono così lasciate in disparte le divagazioni meno
thrash oriented con le quali avevano, brillantemente, infarcito la data
del Carlito’s Way di aprile. La scelta, inutile sottolinearlo, è
perfetta e fa sobbalzare un po’ tutti quanti. Mannaggia ai Whiplash, il
collo già provato è sottoposto a headbanging forsennato a causa di inni
senza tempo quali War Monger, Nailed To The Cross e soprattutto Power Thrashing Death,
che provoca la prima selva di pugni alzati al cielo. La nuova lipe-up
dei thrashers del New Jersey, seppure leggermente meno scatenata di
quella appena precedente e più legnosa nell’esecuzione, compie
degnamente la sua missione, forte anche di condizioni di suono
favorevoli e del solito famelico agire da thrash metal band di razza.

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Main Stage 1, 12.20 – 13.00

Una delle sorprese più belle arriva dalla vecchia guardia della NWOBHM.
Gli Angel Witch si presentano poco dopo mezzogiorno, con una line-up
rivoluzionata negli ultimi due anni attorno al mastermind Kevin Heybourne e con il fiore all’occhiello di Bill Steer alla seconda chitarra. Chi si aspettava una esibizione stanca da vecchie cariatidi viene immediatamente smentito dall’opener Gorgon.
Ci sono ritmo e sostanza, l’oscurità delle notti di sabba si fa strada
anche in pieno giorno. La voce di Heybourne entra subito in temperatura e
fa sognare, visto che senza tentennamenti ripercorre le linee vocali
originarie dei pezzi di Angel Witch. Difatti oggi gli inglesi si
concentrano esclusivamente sul primo disco, l’unico in verità ad averli
resi relativamente famosi, anche se successivamente sono usciti Screamin’n’Bleedin’ e Frontal Assault.
Le canzoni escono più metalliche rispetto alle versioni del disco, ma
non perdono l’alchimia originaria. Stupore prima ed esaltazione appena
dopo accompagnano il gruppo nell’esecuzione di Sorceress, Confused, con i caratteristici coretti, Atlantis,
ripercorse mantenendo intatto il mood originario e con un tiro
maggiore. Heybourne non si sbrodola addosso come altri suoi colleghi
quasi coetanei e più rinomati, non sta a menarla sull’importanza della
band, sulla storia passata e tante altre belle favole, si concentra
sulle canzoni e non si permette pause. Il lontano esordio viene suonato
quasi per intero, e per chi scrive i gioielli assoluti dell’esibizione,
prima della chiusura che si può ben immaginare, sono almeno tre. Il
primo è White Witch, cavalcata metallica esoterica, fortemente
suggestiva, che ha il suo climax nello stacco seventies, ai limiti della
psichedelia, piazzato prima della ripresa del riffing principale sul
finale. Il secondo colpo al cuore è rappresentato da Angel Of Death, una geniale anticipazione del thrash dal battente ritornello e dal riff scultoreo. Infine, la celeberrima Baphomet, che aveva anticipato il talento del combo, allora un terzetto, nella compilation Metal For Muthas. Per tutto il tempo l’intesa tra i componenti è perfetta e il gioco di chitarre tra i due soloni dello strumento SteerHeybourne fa scintille: l’ultimo saggio di classe arriva con il pezzo eponimo della band, quella Angel Witch che anche i non fan conoscono a memoria. Un breve accenno all’outro dell’album, Devil’s Tower, e poi la strega fugge via; oggi i suoi incantesimi hanno portato lieti doni nelle terre della Loira.

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Main Stage 2, 13.05 – 13.45

In Italia, tra le menti ottuse, gira l’orrida definizione, per i gruppi
meno ligi ai gusti delle masse, di band “non da festival”. Tale nomea
bolla gli ensemble dalle proposte più originali, di non facilissima
assimilazione, ma dal grande fascino, che per il fatto di avere una loro
complessità e una chiave di lettura non immediatamente decifrabile
vengono schifati da coloro che vanno ai concerti solo per saltare a
tempo su ritmi in 4/4 e cantare dei bei ritornelloni melodici.
Ovviamente fuori dai nostri confini su queste idee malsane ci
scoreggiano sopra e bella gente come i Mekong Delta ha libera
cittadinanza. Vero, anche da queste parti si sta abbastanza larghi ed è
più facile che con altri arrivare alle prime file, ma non si creda che
l’accoglienza sia tiepida.
Come all’Headbangers dello scorso anno, l’istrionico singer Martin Le Mar
appare con un asciugamano in testa e un elegante mantello, intonando
una breve intro a cappella, apripista del thrash pirotecnico di Memories Of Tomorrow,
interpretata in modo personale dal singer, non potendo oggettivamente
esprimersi sulle tonalità acute della versione originaria. Il secondo
brano in scaletta è un’altra contorsionista sparata degli anni ’80, The Cure:
le prime due canzoni servono a catturare l’attenzione dei meno avvezzi
alle sonorità dei metallers teutonici, che dopo cotanto inizio si
mettono d’impegno nel ricreare le proprie partiture più cervellotiche e
progressive. Ampio spazio viene dedicato all’ultima fatica Wanderer At The Edge Of Time,
e qui bisogna mettersi d’impegno per stare dietro alla densità di
passaggi a effetto messi in mostra: lo spropositato bagaglio tecnico del
gruppo permette a tutti e cinque di non andare in confusione e di
mantenere ottima pulizia esecutiva in ogni istante. Il feeling non
manca, è solo da comprendere, e non è detto che le cose difficili
debbano annoiare, anzi. I Mekong Delta si stagliano come splendida mosca
bianca anche nell’eclettico contesto dell’Hellfest e si permettono il
lusso della folle strumentale Hut Of Baba Yaga, una delle palestre preferite del dotto bassista Ralph Hubert. Dal materiale di inizio anni ’90 si segnala una grande Sphere Eclipse, nel primo periodo in cui i nostri viravano verso il prog, prima che si vada a concludere il concerto con un’altra frustata, Transgression.
Si ritorna all’headbanging forsennato e si finisce in bellezza un altro
grande concerto di una giornata ferocemente dedicata al sottogenere più
acclamato degli anni 2000, il thrash.

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Terrorizer Tent, 14.40 – 15.20

Un puntino d’Italia fa finalmente capolino alla Terrorizer Tent. I Raw
Power non capitano per caso nella giornata dedicata a thrash e hardcore,
e sono qui per dimostrare tutto il loro valore a un pubblico che non li
conosce a menadito. Pochi minuti prima dello show il colpo d’occhio nel
tendone è abbastanza desolante, trattandosi fino a quel punto della
platea più esigua riscontrata all’Hellfest. I Raw Power ovviamente non
stanno a contare chi c’è e chi non c’è e pestano col consueto furore già
nelle prime battute. L’agonismo del singer Mauro Codeluppi e dei
suoi scatenati compari attrae man mano sempre più gente sotto la
Terrorizer e si creano pure le prime schermaglie nel pit. Il richiamo
della foresta giunge, tra gli altri, a personaggi estremamente
pittoreschi, che immancabilmente vanno a piazzarsi nelle prime file a
far casino. I soggetti più improbabili iniziano a darsi battaglia negli
spazi larghi che si vengono a creare alle prime spinte, e le mosse da
ubriachi di alcuni di loro attraggono più volte la nostra attenzione, ci
viene difficile staccare gli occhi da individui così posseduti da
alcool e sostanze di dubbia natura.
Il combo nostrano fomenta gli
animi con una serie di pezzi senza respiro, oggi più tendenti al thrash
piuttosto che all’hardcore grazie al sound miracoloso proveniente dalle
casse. Sul palco c’è tantissimo movimento, i nostri sono scatenati e
saltano da una parte all’altra con un’energia almeno pari a quella dei
brani proposti. I Raw Power si fanno valere anche in terra di Francia,
un concerto cominciato in mezzo a pochi astanti che finisce in bolgia
dice molto di quello che si è riusciti a comunicare al pubblico.

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Main Stage 2, 16.15 – 17.00

In un raro momento di quasi caldo, a fare da apripista alla sacra triade
tedesca sul Main Stage 2, irrompono i super cazzari della Virginia
Municipal Waste. La densità umana si fa elevatissima manco fossero un
headliner, tutti i thrashers non vogliono mancare all’appuntamento con
la band che ha rilanciato il thrash-core su scala planetaria. Nelle
prime file compaiono addirittura salvagenti e canotti, la goliardia sta
per prendere il sopravvento, i circle-pit pure. I quattro,
effettivamente, mantengono le attese ed esplodono in tutta la loro
sguiatezza appena scocca l’ora convenuta. Ovviamente succede il
finimondo un po’ dappertutto e non si sa più dove mettersi per evitare
di finire in qualche vortice. Suicidal Tendencies, S.O.D., D.R.I. e Anthrax
sono omaggiati in song volgari, riottose ad avere un minimo di logica e
a non sfociare nel casino più totale. Gruppo dalla forte attitudine ed
entertainer nati, i Municipal Waste schiaffeggiano senza compromessi tra
sproloqui, scherzetti demenziali, schegge di ignoranza a go-go. Anche
l’occhio vuole la sua parte, e il look dei quattro non tradisce, essendo
impeccabilmente retrò in ogni dettaglio: scarpe da ginnastica con
linguetta esagerata, pantalone corto trasandato, fasce in testa,
magliette pescate in un polveroso ripostiglio. Mosh, mosh e ancora mosh,
accade praticamente solo questo quando ci sono loro in scena, tra
risate e istinti distruttivi non possiamo che proclamare i Municipal
Waste veri maestri della benemerita The Art Of Partying, come recita il loro pezzo-manifesto.

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Main Stage 1, 17.05 – 17.55

Profumo di leggenda. Annacquata dai lunghi anni trascorsi dalla morte di
Phil Lynott, la caratura siderale dei Thin Lizzy ha ancora modo di
rifulgere nonostante la band funga, da tempo, da mera cover band di se
stessa. E’ un dato di fatto, questo, che nulla toglie al valore dei loro
concerti, sempre di alto profilo grazie a formazioni mutate negli anni
sotto la guida di Scott Gorham, ma sempre all’altezza della loro
missione. Far rivivere grandi canzoni come quelle del combo irlandese
necessita di adeguata perizia, il valore delle song non può essere
sminuito da tocchi plebei, e fortunatamente anche oggi il concerto
assume le proporzioni di un caloroso omaggio a un passato memorabile.
L’ultima incarnazione dei Lizzy propone un tastierista fisso e una
terza chitarra, oltre che un nuovo cantante, visto che da qualche anno
ha abbandonato la partita John Sykes. Al suo posto, il tatuatissimo Ricky Warwick,
che fortunatamente ricerca linee vocali fedeli a quelle di Lynott e
mostra buon carisma e senso del ruolo. Il peso di far vivere le dolci
armonie chitarristiche investe equanimemente le tre sei corde, che
compiono benissimo il loro compito immettendo un pizzico di robustezza
metallica in canzoni che, in alcuni casi, già ammiccavano all’heavy
metal vero e proprio. L’opener Are You Ready? dà la prima spinta a
buttarsi nella nostalgia e da lì in avanti le emozioni vanno in
crescendo, con la band sempre più sciolta e il pubblico sentitamente
partecipe. E’ tutto curato al meglio per non perdere il tipico feeling
dei brani: i coretti di Waiting For An Alibi, quell’insondabile sentore di country permeante Cowboy Song, il riffing metal di Emerald,
nel quale leggere una preveggente anticipazione dei Maiden non è poi
reato. Si ascolta rapiti, una set-list del genere è una prelibatezza che
non scontenta nessuno, va a pescare le tracce più conosciute del gruppo
e quindi qualcosa insito nel patrimonio comune delle conoscenze
musicali dei presenti. La “botta” maggiore, per quasi tutti, è infatti
rappresentata da Jailbreak, The Boys Are Back In Town e ancor di più da Whiskey In The Jar.
Col suo poetico andamento, così lontano dalla frenesia e dai ritmi
martoriati della gran parte degli ensemble visti all’Hellfest, questa
canzone mette tutti d’accordo e stringe in un comune abbraccio gioioso
band e pubblico. Grandi ammiccamenti tra i musicisti, doverosi omaggi
all’unico membro storico rimasto in formazione e a chi non c’è più
contornano un’esibizione pressoché perfetta, chiusa dal tour de force di
Roisin Dubh (Black Rose): A Rock Legend. Applausi prolungati, poi di nuovo sotto col martirio del thrash.

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Main Stage 2, 19.55 – 20.45

L’inalienabile diritto dei Sodom di far male ad ogni latitudine dovrebbe impedire a gente come gli Apocalyptica, turlupinatori del metallo di immeritata fama, di sforare nei tempi, riducendo col loro ritardo l’inizio dell’esibizione di Tom Angelripper
e soci. Ci passiamo sopra, oggi siamo buoni, e tributiamo un barbaro
urlo all’entrata in scena del power trio teutonico. L’incipit è il
medesimo della data milanese di febbraio, il mid-tempo guerresco di In War And Pieces
taglia l’aria e consegna il Main Stage a efferati colpi di mitraglia.
Tutto è meravigliosamente al suo posto, dei Sodom non val la pena
dubitare: il nuovo batterista rulla a spron battuto, Bernemann
scortica la chitarra con ineffabile cinismo, Angelripper rumina vocals
al veleno facendo puzzare l’aria di polvere da sparo. La scaletta sarà
prevedibile quanto si vuole, ma ha il dono della concretezza. Outbreak Of Evil, M-16, The Saw Is The Law,
sono solo alcune delle mazzate tra i denti della prova odierna, e sono
colpi difficilmente schivabili anche se si conosce esattamente come e
dove ti pesteranno. Il sound assiste la macchina da guerra teutonica
nella sua opera di annientamento, perpetrata in questa occasione più con
ammorbanti cadenzati che attraverso fulminee scorribande. Blasphemer
è una delle rare incursioni nel thrash/black più ignorante, la parte da
leone la fanno le urla al cielo dei pezzi più anthemici e il loro
ritmico tambureggiare. Visti una volta li hai visti per sempre, ma ai
Sodom non si rinuncia mai; il circle-pit al centro raggiunge buoni
livelli di caos, direi che è un altro sigillo di qualità sulla
performance odierna. Come si diceva in apertura, i nostri subiscono un
delittuoso taglio, così che Remember The Fallen chiude anzitempo le ostilità, tagliando fuori alcuni cavalli di battaglia onnipresenti tipo Bombenhagel. Poco male, lo show è stato lo stesso all’altezza delle aspettative.

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Terrorizer Tent, 20.50 – 21.40

E’ passata una vita da quando la demenza thrash/crossover sfracellava le
ossa dei più accaniti mosher del globo, fortunatamente il morbo si sta
nuovamente diffondendo per le arene da concerti e sia le nuove leve che i
vecchi leoni si danno battaglia a chi provoca più danni. Non potevano
restare fuori dal ritorno in auge di tali sonorità i maestri indiscussi D.R.I,
che tornano in Europa dopo un’assenza infinita davanti a un’audience
fremente per il loro arrivo. Anche se i Sodom hanno appena concluso la
loro performance e hanno richiamato una folta schiera di sostenitori,
sotto il tendone più infuocato dell’anno c’è una fibrillazione che si
taglia col coltello. Perdiamo la prima manciata di secondi dello show ed
arriviamo nelle zone calde che il pogo è già assassino. Ormai qua sotto
la polvere domina, e nessuno si stupirebbe se prendesse fuoco visto
quanto accade on-stage.
Non ci poteva essere un ritorno sulle scene
migliore per i quattro del Texas: il tempo per loro si è fermato,
attitudinalmente sono rimasti degli inguaribili cazzoni, che imbracciano
gli strumenti col solo intento di andare il più veloce possibile e far
deflagrare tutto quanto in un immane schianto contro un oggetto
contundente. L’anarchia del punk e l’affilatezza del thrash trovano il
loro punto di incontro-scontro naturale nelle song del combo,
encomiabile per come riesce a viaggiare sul filo della confusione più
totale senza cascarci dentro, sublime per la dote innata di trasformare
l’ignoranza in energia nucleare, divino nell’essere rimasto uguale a se
stesso nell’atteggiamento. La presentazione dei brani, i dialoghi tra i
musicisti e lo stage-acting non hanno subito evoluzioni, i D.R.I. non
sono cresciuti, maturati, diventati adulti, no, sono ancora dei ventenni
incazzati col globo intero, che il poco barlume di ragione presente
nella loro testa lo usano per suonare al 110% materiale ancora oggi
insuperato nella sua elementare forza esplosiva. I rari attimi di
autocontrollo si spaccano in un vortice thrash/core assurdamente
convulso, il disordine regna sovrano, Spike Cassidy e Harald Oimonen si contorcono rispettivamente su chitarra e basso, le loro facce facciose da nerd tese allo spasimo, mentre Kurt Brecht tiene in pugno la folla e mostra un invidiabile atletismo, oltre a una tenuta vocale ottimale.
Gli unici limiti allo show sono quelli temporali, e per quanto i D.R.I.
cerchino di schivarli azzerando le soste per rifiatare, prima o poi
questo incredibile sbriciolamento di ossa deve pur finire. Highlight
assoluto della manifestazione e goduria incancellabile, dal vivo i
D.R.I. sono imprescindibili.

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Main Stage 2, 21.55 – 22.55

Mediamente i palchi dell’Hellfest sono predisposti in maniera sobria,
pochi allestimenti scenici, al massimo qualche amplificatore in più per
alcuni act rispetto ad altri e un telone con la copertina dell’ultimo
disco. Tra i pochi a fare le cose in grande, ci sono i Kreator, per i
quali viene montata la batteria sopra una pedana nelle retrovie dello
stage e piazzate due colonne ai lati, a dare un’idea di possanza che, di
lì a poco, verrà ribadita con l’attacco di Hordes Of Chaos.
Mille sta da dio e complici piccoli effetti maligni alla voce e giochi
di luce che sottolineano le inquietanti smorfie del viso, si mette in
massima disinvoltura nei panni di Lucifero. Desideroso di un congruo
tributo di sangue, il singer chiede a gran voce un circle-pit non
esattamente circoscritto a pochi elementi, e in men che non si dica si
crea il vuoto a centro prato. Alla pari dei Sodom, l’unico appunto che
si possa muovere al concerto dei Kreator è la monotonia della scaletta,
sempre la stessa e pressoché priva di cambiamenti anche nella sequenza
dei brani. Quisquilie, a dire il vero, visto con quanta ferocia
aggrediscono le canzoni e sbranano l’audience gli uomini guidati da
Petrozza. Si snoccioli allora il rosario e si dicano le ultime
preghiere: Destroy What Destroys You riempie l’aria d’acido muriatico, Reconquering The Throne e Violent Revolution
la mettono sull’anthem e hanno, bontà loro, un barlume di melodia che
le umanizza un pelo. Arrivano randellate ancora più stordenti, perché Phobia ha sempre quel ritornello isterico da far gelare il sangue, Enemy Of God è tanto classica quanto incisiva, Pleasure To Kill
profuma di morte a distanze siderali. Le luci rossastre affermano che
sì, l’Inferno è proprio questo, e l’unico segno di beltà sta nella
precisione assoluta di tutti i musicisti, che presi da soli non saranno i
geni assoluti dei loro strumenti, ma insieme sono pressoché imbattibili
per efficacia on-stage. La bandiera dell’odio sventola suprema nell’ora
ultima, e Flag Of Hate tira l’ultima fiondata in fronte, contornata dall’ennesimo circle-pit di immani proporzioni.

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Main Stage 1, 23.00 – 00.55

La fregatura, l’unica della manifestazione, arriva da chi meno te
l’aspetti: gli Scorpions. Il pluri-patinato combo teutonico, atteso a
uno dei concerti più importanti dello strombazzatissimo tour d’addio,
dimostra tutta la supponenza di chi si crede superstar e ha perso da un
pezzo il senso di cosa voglia dire essere musicisti hard rock
nell’anima. La legge del portafoglio, tanto cara ai cinque di Hannover,
stavolta se li è mangiati vivi e li ha portati a concepire uno show tra i
più truffaldini che sia mai capitato di vedere.
Attesi da una
folla senza pari rispetto a tutti gli altri nomi visti in ballo
all’Hellfest 2011, tanto da far temere nel pomeriggio resse a livello
dei palchi principali di Wacken che poi, fortunatamente, non si sono
verificate, i tedeschi arrivano in scena in leggero ritardo, su di un
palco illuminato a giorno da uno schermo di led sullo sfondo e da un
altro posto in corrispondenza della pedana della batteria a metà stage. I
volumi sono insolitamente bassi, è vero che i palchi principali hanno
un sound meno roboante che nei tendoni, ma in questo caso si scade un
po’, così da annacquare l’impatto di Sting In The Tail. Il brano è
affrontato in maniera precisa e impeccabilmente, eppure affiora subito
la sensazione che gli Scorpions vogliano giocare al risparmio e non
andare al di là del compitino che si sono posti di compiere stasera. Meine
canta bene, anche se concede fin troppo spazio al pubblico, gli altri
si comportano come musicisti che si conoscono a memoria e potrebbero
esibirsi anche con le dita ingessate e a occhi chiusi, tanto sanno il
repertorio a memoria. La prima parte dello show scorre bene,
apparentemente, nel senso che arrivano gli stra-classici attesi da tutti
(Make It Real, Loving You Sunday Morning, The Zoo, Dynamite),
ma questo profluvio di canzoni storiche non è una piena emotiva tale da
rompere gli argini della compostezza, e invece che scaldare gli animi
sempre più gli Scorpions si afflosciano vistosamente. I suoni, con
l’andare dello show, si aggiustano, quello che non cambia è il modo di
comportarsi dei musicisti, troppo star per poter creare una vera empatia
con chi ascolta e incapaci di scendere dal piedistallo che si sono
creati. Lo scempio però arriva sul serio quando viene lasciato spazio
libero al batterista Kottak per l’assolo, circa a metà
spettacolo. Il biondo drummer si esibisce in un siparietto tremendamente
lungo, privo di significati musicali (a un certo punto partono delle
basi di chitarra…) e tedioso all’inverosimile. Al ritorno on-stage di
tutti gli altri, ecco Blackout, The Best Is Yet To Come, Big City Nights e poco altro, inframmezzati dall’assolo di Schenker, altra palla al piede monumentale, fino all’ovvia conclusione, rappresentata da Still Loving You, cantata più dal pubblico che da Meine, e da Rock You Like An Hurricane.
Il tempo realmente dedicato alla musica si sarà attestato su poco più
della metà delle quasi due ore a disposizione, il feeling è stato
costantemente sottozero, la noia si è fatta largo ad ampie falcate in
tanti, troppi momenti. A questo punto, è meglio che i rockers tedeschi
la finiscano in fretta e se ne vadano in pensione, se questo è quanto
hanno oggi da offrirci, non sentiremo la loro mancanza. Ascolteremo
volentieri i loro dischi, difficilmente desidereremo vederli ancora dal
vivo.

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Main Stage 2, 01.00 – 02.00

Non c’è modo migliore di sanare la bruciante delusione lasciata dal
concerto degli Scorpions che andare incontro all’appuntamento con la
storia di questo Hellfest. Il ritorno dei Coroner era stato anticipato a
tutto il mondo, ancora prima della reunion ufficiale, proprio
all’Hellfest 2010, e l’edizione 2011 rappresenta il battesimo del fuoco
europeo per la band svizzera. Il fenomeno Coroner è abbastanza curioso
all’interno del panorama estremo: rimasti abbastanza di nicchia
all’epoca dei loro dischi, i nostri hanno visto crescere a dismisura il
following sia all’interno dell’audience con ascolti di ampio spettro,
sia tra i thrashers duri e puri. Questo perché sono sempre stati
maledettamente avanti e svincolati dai soliti canoni del thrash. La
trepidazione è quindi davvero elevata quando calcano lo stage e
attaccano in modo scarno e incisivo, soggiogando tutti quanti in un
mid-tempo ipnotico. E’ immediatamente chiaro che il trio è arrivato ben
preparato alla sua seconda nascita, tanta è la sicurezza nelle vocals di
Ron Royce e l’affidabilità dell’intero apparato strumentale. Il
gruppo dà spazio nullo a tutto ciò che non concerne la musica, ma in ciò
che suona ci mette la classe principesca che aveva reso grandi Punishment For Decadence e Mental Vortex. Rifulge di una luce abbagliante il chitarrismo da quarta dimensione di Tommy T. Baron,
maestro incontrastato dello strumento che nessuno ha mai osato sfidare
sul suo stesso campo: i riff in costante mutazione e gli assoli veloci e
impossibili, spesso fusi alle ritmiche in uno spietato nodo scorsoio,
sono sempre quelli, le atmosfere tetre e insondabili pure, per cui il
concerto ci mette poco a varcare i confini del puro culto. I Coroner
ricreano anche quei piccoli effetti coi quali amavano contornare ogni
tanto i pezzi, tipo le finte acclamazioni della folla in Masked Jackal,
grazie a un collaboratore della band posto a un lato del palco e
presentato al pubblico quasi come un membro aggiunto del combo. Dal
punto di vista visivo, c’è da dire che le differenze col passato sono
sensibili, Royce è irriconoscibile con la sua crapa pelata, e pure gli
altri due mostrano i segni del tempo, anche se si tratta di normale e
dignitoso invecchiamento e non di debosciamento. La tracklist è equanime
nel dare risalto a tutti gli album, ci sono le sferzate più minimali di
R.I.P., gli ottovolanti di note, sempre più esagerati negli anni, del periodo tra Punishment For Decadence e Mental Vortex e le cadenze al limitare dell’industrial di G.R.I.N..
Proprio la title-track del loro ultimo lavoro in studio viene scelta
come primo atto di congedo, prima di un bis totalmente old-school,
preceduto dal doveroso ringraziamento ai fans e all’organizzazione del
festival. Il finale è dominio di Reborn Through Hate, ed è
inutile rimarcare di chi sia la rinascita… Grandissimo come-back, questa
è una reunion che promette grandi cose nel prossimo futuro.