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Hellfest 2011 – Terzo Giorno

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Main Stage 2, 12.50 – 13.35

Il mattino ha l’oro e il platino in bocca se comincia con gli Atheist.
Vero, siamo al passaggio di consegne col pomeriggio, ma dati gli orari
dei primi due giorni è dura che si possa essere più mattinieri di così.
Nonostante li abbiamo appena ammirati ad aprile in una implacabile data
da headliner al Live di Trezzo, non ci perderemmo la ghiottoneria degli
Atheist per nulla al mondo. Con l’unico impaccio di un sound bassino ma
sufficientemente nitido per non affossare nell’indefinitezza gli
incastri strumentali, gli ultratecnici floridiani aprono con la
monumentale Unquestionable Presence, mantenendo da subito la
medesima, stellare, intensità della data italiana. Anche alle latitudini
francesi il techno thrash/death della formazione raccoglie un numero di
proseliti non eccessivo, anche se il pubblico tutto sommato si fa
sentire, almeno nella parte più prossima alle transenne.Shaefer,
oggi con occhiale da sole specchiato che lo fa ancora più tamarro di
quanto non sia già, dimostra una buona tenuta vocale e ottime doti di
entertainer, regalando grandi sorrisi, mosse da persona in estasi dei
sensi e incitamenti al libero consumo di cannabis tra una canzone e
l’altra. La scaletta si concentra molto sull’ultima fatica, e c’è da
dire che se su disco i brani di Jupiter hanno fatto storcere il
naso a più d’uno, dal vivo mettono tutti d’accordo, potendo contare su
un gran tiro, una struttura articolata degna dei dischi degli anni ’90 e
stacchi catchy inseriti nei punti giusti. La title-track, Second To Sun e la direttissima Live And Live Again fanno la loro parte, contornate dalle sfumature da new age in chiave estrema di Mineral e dagli strappi destabilizzanti di Retribution e Mother Man,
i pezzi sui quali si scatenano al massimo sia i membri del gruppo che i
ragazzi davanti al palco. Dal punto di vista tecnico ci sarebbero da
spendere fiumi di parole o, semplicemente, limitarsi ad osservare che di
meglio, in circolazione, non è dato trovare; riuscire a interpretare
materiale tanto cervellotico con il calore e l’umanità di questa gente è
un impresa forse eguagliabile, di certo non superabile. Per l’atto
conclusivo si va indietro nel tempo all’esordio, e Piece Of Time non poteva che essere il tassello ultimo del puzzle, suggello di una performance breve ma densissima.

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Terrorizer Tent, 13.30 – 14.10

Avendo finito un attimo prima del previsto gli Atheist, ci viene
spontaneo andare alla Terrorizer a curiosare sui The Ocean, band di cui
avevo sentito parlare piuttosto bene in sede di recensione ma che non
avevo mai avuto il piacere di ascoltare. E, cosa strana, non ricordavo
nemmeno cosa suonassero, quando sono entrato nel tendone una trentina di
secondi dopo l’attacco del brano di apertura. Ci ho messo un attimo a
capire che erano quei The Ocean, animale strano dalle peregrinazioni
sonore tortuose, progressive, abbastanza futuristiche. Ne sono rimasto
folgorato, tanto sono capaci di far cadere in un incantesimo tutto
l’ambiente che li circonda con la loro musica. L’assemblaggio
strumentistico costituito da post-core slabbrato, progressioni liquide
in scalata verso la volta del cielo, vocals prog rock ed estreme, è di
quelli che aprono nuove dimensioni d’ascolto a chi non è abituato ad
affrontare certe proposte.
Il combo ha una assoluta padronanza della
situazione, tiene le redini di canzoni lunghissime e in costante
divenire con un vigore esecutivo micidiale, una specie di morbo che
prende i musicisti e li libera di ogni freno. Aggressività e spazi di
meditazione, l’alternanza è perfetta, un godimento uditivo stordente,
unito a una particolare percezione visiva offerta dallo schermo a fondo
palco, sul quale sono proiettate immagini di varia natura, senza
apparente filo logico tra loro ma montate in modo tale da integrarsi
alla musica, creando un amalgama di percezioni singolare e non semplice
da spiegare. Le parti più quiete si integrano magistralmente a quelle
più heavy, creando una sospensione dalle ostilità straniante, che rende
ancora più distruttivi i chitarroni distorti quando ripartono
all’attacco. Si osserva rapiti il districarsi dei musicisti in una
ragnatela di passaggi sempre più coinvolgenti e l’energia che li scuote,
li tormenta, li porta a lanciarsi sugli astanti con sprezzo
dell’incolumità, seguitando a suonare anche avvolti dalle braccia di chi
ha evitato loro di sfracellarsi al suolo. I tedeschini più volte si
tuffano dal palco e tutte le volte trovano qualcuno disposto a
sorreggerli, anche se l’ultimo tuffo del singer Loic Rossetti, da
altezza decisamente al limite, ci ha fatto temere il peggio. I The
Ocean si dimostrano ensemble coi contro coglioni, mirabile
nell’associare pulsioni animalesche, tecnica da urlo e una visione
obliqua e personalissima della musica dura. Band da amare.

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Terrorizer Tent, 14.40 – 15.20

Oggi la voglia di violenza psicotica è alta, me ne fotto altamente di
quello che accade sugli altri palchi e mi piazzo alla Terrorizer per
quasi l’intera giornata. Se dei The Ocean sapevo poco, degli Knut non so
nulla, giusto la breve descrizione offerta dalla guida del festival: da
quelle poche righe, traspare che il gruppo ha parecchie frecce al
proprio arco e vale la pena di essere visionato. Impressione esatta,
ecco un’altra band di qualità eccelsa da andare a scoprire anche su
disco.
I barbuti svizzeri hanno l’ostilità nel sangue e un gusto
tutto loro nel mescolare quanto di più intransigente il panorama estremo
alternativo possa offrire. Non traspare un filo di melodia, le chitarre
intrappolano riff sludge e li torturano di scariche elettriche,
facendoli schizzare nelle mille direzioni del math-core e del post-core,
pur mantenendo un approccio meccanico e disumanizzato che sfugge alla
pura istintività da figli dell’hardcore quali sono. Il singer si cimenta
in particolari modulazioni delle sue urla, aiutandosi con un aggeggio
ai bordo palco che maneggia per cambiare gli effetti con cui plasma le
parti vocali. Se i primi minuti vedono la band leggermente distaccata,
col passare del tempo alla violenza sonica si affiancano pari movimenti
spezza collo dei membri del gruppo, che vanno a braccetto col climax di
esagitazione di chi guarda lo spettacolo; il sentimento comune passa
dalla curiosità delle prime battute, non essendo gli Knut così lanciati
nel panorama estremo o hardcore da avere grandissima notorietà, a una
decisa e convinta presa di posizione a favore dei nostri, omaggiati da
un degno headbanging e da applausi scroscianti alla fine di ogni
canzone. Decisamente convincenti.

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Terrorizer Tent, 15.50 – 16.35

Confermati in prossimità del festival al posto dei Buzzov-en, i Ghost
rappresentano uno dei casi discografici del 2010. L’esordio Opus Eponymus
ha stregato l’eterogeneo pubblico del doom e non solo, grazie alla
decisiva collaborazione di un’immagine misteriosa e dannata e alla
mancata rivelazione della reale identità dei membri del gruppo. Se in
Italia il “morbo” dei Ghost non ha attecchito più di tanto, fuori dai
nostri confini i seguaci del combo sono legioni. La Terrorizer è stipata
quando il Papa Nero irrompe on-stage con in mano il turibolo, mentre
finti monaci totalmente incappucciati si posizionano ognuno al proprio
strumento con la stessa meticolosità di un religioso alle prese coi suoi
quotidiani uffici. Il mistero del successo dei Ghost è presto svelato:
tastiere orrorifiche si mescolano a chitarre calde e pregne di umori
neri, disegnando linee melodiche figlie del prog più oscuro, dei primi
Sabbath e dei Death SS, mentre la voce di Papa Emeritus I
scandisce litanie col tipico cantato pulito e malefico allo stesso tempo
della musica anni ’70 sedotta dal Demonio. Dal lato visuale l’impatto è
notevole, i volti di chi suona sono completamente celati, non c’è un
centimetro di pelle scoperta al di là delle mani e il trucco del singer è
così pesante da non lasciare intravedere alcunché. Il rischio del
fenomeno da baraccone sarebbe forte se alle spalle non ci fosse un
songwriting degno di tal nome, e fortunatamente i Ghost rappresentano
una band con tutti i crismi per lasciare il segno al di là del look
inquietante. I chorus vincenti si sprecano, il concerto assume le
sembianze di una meravigliosa messa nera celebrata col meglio di hard
rock, doom, metal e progressive fusi in un unico stile. Tanti tra il
pubblico sanno a memoria i pezzi, e per una band che ha esordito solo
l’altr’anno si capisce che penetrazione abbia avuto il disco nella
frastagliata galassia di ascoltatori attuale. Oltre a linee vocali
pienamente in controllo, il singer si fa notare per le mosse da Papa nel
pieno esercizio delle proprie funzioni: l’unica differenza con
l’originale sta nell’alone di morte che le accompagna e nell’espressione
da far gelare il sangue mostrata per l’intero concerto. Anche chi non
conosce i pezzi si trova ad andar dietro alla musica con poco sforzo,
non essendoci parti molto difficoltose da assimilare, fatto sta che
molte voci rinforzano le vocals del cantante e trasformano in un rito di
massa questa performance da culto. Ne sentiremo parlare in futuro, il
Fantasma non ci lascerà dormire sonni tranquilli negli anni a venire.

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Terrorizer Tent, 17.05 – 17.50

I Kylesa rappresentano, banalmente, l’ennesimo combo americano dedito
allo sludge, o sono dei mezzi geni intenti a dare uno scossone alla
scena estrema più eclettica? La riprova, non avendo sotto mano alcun
disco, va ricercata nella dimensione live, quella che non ti permette di
barare e di nasconderti dietro artifizi da studio. Il terzo giorno di
festival, alla Terrorizer, sta assumendo i contorni di un viaggio
fantastico alla ricerca delle origini del bene e del male, dove il bene
sta nella qualità divina di quanto ascoltato, e il male discende
direttamente dalla distorta negatività di tante delle band in programma
quest’oggi. Quindi, i Kylesa si collocano perfettamente qua in mezzo, a
metà di una scaletta che andrà avanti fino alle 2 di notte. La
preparazione dello stage è oltremodo laboriosa, dovendosi collocare
numero due batterie, una tastiera e dovendo far interagire alla
perfezione le due voci della chitarrista Laura Pleasants e del bassista Corey Barhorst, a volte coadiuvati nelle vocals dall’altro chitarrista Philip Cope,
anche tastierista. Si trema un attimo per un problema al basso che fa
iniziare lo show con 5 minuti di ritardo (sul Main Stage 2 ci sono i
Cavalera Conspiracy, tanto per capire a cosa si rinuncia per vedere gli
autori di Spiral Shadow), poi i Kylesa si possono scatenare. La
tensione, insita nel dover trovare un amalgama tanto delicato in pochi
attimi, si scioglie in fretta e possiamo toccare con mano il talento
smisurato del combo della Georgia, guarda caso lo stesso stato di
provenienza dei Mastodon, da cui i nostri prendono qualche
sfumatura e l’attitudine creativa, non mostrando però di esserne dei
pedissequi allievi. I doppi colpi delle batterie, che viaggiano
costantemente all’unisono, sono un tappeto percussivo che in pochi
possono permettersi, le due voce, più arcigna quella maschile, più
pulita quella femminile, decisamente lontana dagli stereotipi delle
female vocalist, creano un crogiuolo di sentimenti contrastanti
difficilissimo da descrivere. La corposa dose di psichedelia presente in
Spiral Shadow e in misura minore nelle opere precedenti non
prende il sopravvento, fa piuttosto da sottofondo a una performance da
subito molto aggressiva, incentrata su brani vorticosi, che restano
direttissimi nonostante la matassa sludge proposta sia tutto fuorchè
elementare e poco ispirata nel riffing. I Kylesa ci prendono talmente
gusto che non solo suonano bene, quello lo fanno dal primo all’ultimo
minuto, ma dopo un pelo di timidezza nelle prime canzoni, in cui
sembrano molto concentrati nella ricerca dell’esecuzione impeccabile,
fanno uscire prepotente la voglia di scatenarsi e di perdere i freni
inibitori. I presenti sotto il tendone se ne accorgono e più d’uno,
compreso il sottoscritto, si scompongono in un headbanging
irrefrenabile, scosso da urla stranianti, chitarroni grevi eppure capaci
di evocare un amplissimo ventaglio di sensazioni, giri psichedelici in
sottofondo ma impossibili da ignorare. Per gli americani, uno show
stellare, che ha lasciato a bocca aperta per il piglio da dominatori
assoluti della situazione e per doti artistiche debordanti, messe in
mostra senza tentennamenti.

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Terrorizer Tent, 18.20 – 19.05

Ed eccoci arrivati a un benedetto intermezzo di metallo classico venato
di epos e stoner, scocca l’ora del terzetto più in palla dell’intera
scena classic metal. I Grand Magus stanno riuscendo nella difficile
impresa di portare freschezza in una scena che spesso fatica a
scrollarsi di dosso i fantasmi dei capiscuola, e che quindi fatica a dar
emergere forze nuove di talento. I nostri hanno già sfornato cinque
dischi, e col passaggio in Roadrunner si sono pienamente affrancati
dallo status di cult band. Lo dimostra la collocazione oraria odierna e
il nutrito numero di sostenitori che riempiono il tendone. Anche live,
il congegno Grand Magus ha ingranaggi bene oliati e trasmette con
naturalezza quella nordicità così palese nelle versioni in studio. I
ghiacciai sconfinati, i silenzi delle foreste, il vento freddo che
taglia la faccia e il necessario corollario di miti e leggende di quei
luoghi si manifesta compiutamente appena i tre attaccano gli strumenti.
La presenza di una sola chitarra non sacrifica l’impatto, gli svedesi si
confermano ottimi animali da palcoscenico e risaltano cristalline le
vocals di JB, molto disinvolto nel doppio ruolo di chitarrista e
singer. Ci si concentra inevitabilmente sull’ultima fase di carriera,
andando quindi a toccare alcuni dei punti salienti delle ultime release Iron Will e Hammer Of The North. Tocchiamo con mano quanti brividi possano dare Hammer Of The North, Ravens Guide Our Way, I The Jury mentre Iron Will,
forse più di ogni altra, è l’inno emblema della performance odierna,
una prova di forza e un’affermazione convinta che il metal nella sua
forma più pura, forgiato da gente come i Grand Magus, ha ancora molto da
dire. Urge rivederli da headliner.

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Main Stage 1, 19.00 – 20.00

Data la concomitanza con i Grand Magus sentiamo solo da lontano il pezzo
di apertura dei quattro fuoriclasse dell’hard rock, quella Daddy, Brother, Lover, Little Boy che apre come consuetudine i loro concerti ed è di norma arricchita dal doppio assolo di trapano di Billy Sheehan e Paul Gilbert.
Sfumato il primo brano siamo ben posizionati di fronte al Main Stage 1,
dovutamente gremito seppure non traboccante di persone. I Mr. Big, al
contrario dei pavoni Scorpions della sera prima, sanno come creare un
rapporto diretto col pubblico e farsi volere bene. La solarità di Eric
Martin è contagiosa e metterebbe di buon umore il più depresso degli
esseri umani, unita a una voce che non mostra affanni mette subito in
una luce positiva uno show che, dato il livello dei musicisti in campo,
non può far altro che decollare alla grande. Per i Mr. Big si può
parlare di una vera e propria simbiosi tra le parti, individualità
pazzesche finiscono per essere ancora più esaltate dall’interazione uno
con l’altro, soprattutto per quel che riguarda il duettare incessante
tra basso e chitarra. Paul Gilbert, con le sue immancabili
cuffione, è un festoso dioscuro delle sei corde intento a svelare
meraviglie celate ai più, con la stessa naturalezza con cui potrebbe
fare colazione al mattino o lavarsi i denti. La destrezza strumentale
accoppiata al feeling raggiunge nei Mr. Big una sublimazione che forse
solo i Rush possono vantare, Sheehan tiene botta al compare,
scambiandosi con lui assoli e ammiccamenti, non dimenticando una potenza
di fuoco certamente maggiore di quella dei dischi. La dimensione live
fa esplodere pezzi che su cd sono più mansueti e assuefatti a ricami
bluesaggianti, che non spariscono durante il concerto ma si rivestono di
un involucro più coriaceo. La scelta di non perdersi in chiacchiere e
di lasciar fuori le ballad dalla tracklist è assolutamente da
applaudire, così come l’idea di non lasciare troppo spazio agli assoli e
di inserirli come preludio a una delle ultime canzoni. Privilegiate in
questa sede, ovviamente, le song dell’ultimo lavoro ma anche quelle di Lean Into It, il lavoro più famoso dei quattro, che oltre all’opener vede presentate Alive And Kickin’ e Green-Tinted Sixties Mind. Niente To Be With You, gliene siamo grati…

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Terrorizer Tent, 20.50 – 21.40

Esibizione di decompressone, divertissement in attesa dell’annunciata apocalisse degli Electric Wizard,
la calata in terra di Francia dell’arcigno combo death-core
statunitense si rivela un’altra sassata in volto di prima categoria. Si
potrà rimproverare ai nostri una non spiccata propensione
all’imprevedibilità e all’originalità, in fatto di prorompenza e
attitudine distruttiva invece non c’è nulla da eccepire. Passano pochi
secondi dall’attacco del primo pezzo che il singer fa segno di aprire il
circle pit e il macello è totale. Non ci sarà mezza pausa per l’intero
show. Tracotanza e burinaggine si sprecano e sono bene accette in un
tale contesto, dove mostrare i muscoli e mostrarsi più duri del prossimo
dà sempre i suoi frutti. Pochi break down e molta velocità, parossismo e
blast-beat piovono addosso senza mediazioni, mentre l’invasata figura
del singer Trevor Strnad arringa feroce, non concede tregua,
chiama all’adunata sotto il palco e martirizza senza pietà con un growl
lancinante. Francamente la parte “core” del sound è oramai rimpiazzata
quasi in toto dal death e di reminescenze del primo periodo di carriera
non è che ce ne siano molte. L’hardcore rimane nella voglia di arrivare
dritti al punto, nella tremenda concretezza di ogni nota, oltre che in
uno stage-acting oltremodo esagitato. Rimane poco altro da dire, se non
che quella che consideravo una presenza interlocutoria si è trasformata
nell’ennesimo sconquasso vissuto alla Terrorizer. Cinquanta minuti a
tamburo battente, nulla più e nulla meno, anche per i Black Dahlia
Murder il pollice alto è d’obbligo.

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Terrorizer Tent, 22.10 – 23.00

Avevo provato ad avvicinarmi agli Electric Wizard in passato e ne ero
stato respinto: non riuscivo a capire come un sound così intossicato,
lento, ripetitivo potesse dare vibrazioni da capogiro a tanta gente. Non
li sopportavo, punto. Poco dopo le dieci di sera del 19 giugno, mi sono
dovuto, felicemente, ricredere.
La pruriginosa voglia di smentire
le mie opinioni negative sugli inglesi e, al contempo, la curiosità
istigata dalle lodi sperticate alla performance del 2009 all’Hellfest,
lette sul libretto della manifestazione, mi convincono nella mattinata a
saggiare le doti live del combo. E poi, come si fa a restare fuori
dalla Terrorizer quando per tutti e tre i giorni hai visto girare decine
di persone con le magliette della band, quasi a dettare una
predominanza dei loro fan rispetto a (quasi) ogni altro gruppo presente
al festival? Per non rischiare di restare fuori, lascio passare solo
pochi minuti dalla performance dei Black Dahlia Murder prima di
rientrare sotto il tendone, in tempo per vedere l’intero cambio palco,
dal quale promana già un’atmosfera strana. Via la super batteria dei
death metallers americani, avanti la strumentazione ridotta all’osso di Shaun Rutter,
ecco comparire un maxischermo sullo sfondo e poi la band al completo,
intenta a provare quelle basse frequenze che tra poco andranno a
rimbombarci nello stomaco. Compaiono la graziosa Liz Buckingham e l’inquietante bassista Tas,
ricoperto di tatuaggi anche in volto: quest’ultimo ha un’aria tra le
più insane mai viste su di un palco e sembra che abbia appena assunto
chissà quali sostanze. Le luci si abbassano ulteriormente e si comincia,
con lo schermo riempito dalle immagini di un film
horror/porno/occultistico degli anni ’70, un B movie francese o
italiano, direi, che si svolge in una Parigi sotterranea e perversa. La
musica degli Electric Wizard ne è la delirante colonna sonora e si svela
per essere una delle rappresentazioni del maligno più riuscite che si
possano ascoltare. Un incedere percussivo apparentemente sempre uguale a
se stesso è appesantito a dismisura da chitarre distorte e sature,
sufficientemente umane da ricadere nel doom metal propriamente detto e
abbastanza malate da affogare nella psichedelia più dipendente dagli
stupefacenti. Le vocals alla mescalina di Justin Oborn completano
l’allucinato quadro. Le luci basse fanno affiorare appena le sagome
quasi immobili dei musicisti, distaccati e lontani, per nulla
comunicativi. Parlare delle singole canzoni è un esercizio inutile, il
flusso sonoro è pressoché unico, il viaggio mentale che provoca è
un’allucinazione senza aiuto di additivi, basta questa musica maledetta a
regalare sensazioni e pulsioni di sinistra bellezza, un qualcosa che
non avevo sentito suscitare da nessuno, neanche lontanamente. I più sono
posseduti da un raggelante headbanging in slow-motion, a volte
interrotto dallo sguardo sbarrato ai quattro demoni on-stage e alle
immagini grossolane, perverse e sporcaccione del film, necessario a dare
la forma completa dell’esperienza-Electric Wizard. Concerti del genere
spingono a cambiare drasticamente opinione su un gruppo, e sono la
dimostrazione che anche le band apparentemente più ostiche dal vivo
possono deflagrare in maniera clamorosa e rapire più di tanti act
considerati animali da palco fenomenali. Partecipate numerosi alla
prossima cerimonia della Bestia Elettrica, ne varrà la pena.

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Main Stage 1, 23.25 – 00.55

In che condizioni sarà il Mad Man? Tremolante oltre ogni dire e
svociato, oppure relativamente tonico e in palla? Questi i pensieri che
probabilmente la maggior parte degli astanti rimuginava nei minuti
precedenti lo show. Con Ozzy ci sono sempre delle incognite, che è bello
vedere dissolte all’attacco di I Don’t Know, col singer che
irrompe in scena dopo tutti gli altri e affronta con grinta e voce
all’altezza la prima strofa. I volumi sono più alti di quelli uditi in
media su questo palco e gli assoli cristallini di Gus G. ne
beneficiano parecchio, consentendo al ragazzo di dar sfoggio delle sue
doti di guitar-hero. La partenza è veemente, arrivano Suicide Solution e Mr. Crowley,
e il singer oltre a un entusiasmo straripante e alla consueta follia
(si veda la schiuma gettata con l’idrante sulle prime file), dimostra di
cantare ancora dignitosamente. Le stecche ci sono eccome, ma Ozzy non
rimane neanche per un istante senza ossigeno e non lascia nemmeno le
parti vocali al pubblico per troppo tempio. Gli occhi sono tutti per
l’ex leader dei Sabbath, il resto della band fa la sua parte ma il
carisma di alcuni dei passati membri, tipo uno Zakk Wilde, un Robert Trujillio o un Mike Bordin,
sono altra cosa. Dal lato musicale, i gregari del frontman non
sbagliano un colpo, non guasterebbe una seconda chitarra a dare più
dinamismo durante le scorribande del funambolo greco alle sei corde, ma
nessuno si mostra non all’altezza del suo ruolo. Bark At The Moon e un’intensa Road To Nowhere sono le ultime scintille della carriera solista prima di una breve immersione nell’universo sabbatiano: War Pigs e Iron Man
non esprimono la medesima oscurità dannata che potrebbero comunicare i
Black Sabbath in formazione classica ma sono riproposte in maniera
comunque efficace. A questo punto si rifiata con l’assolo di chitarra di
Gus G., che va a introdurre Fairies Wear Boots, con cui si chiude il capitolo sabbatiano e si torna nella produzione solista.
Nella sterminata lista di hits partorite in trent’anni di dischi Ozzy va
sul sicuro e non si lancia in ripescaggi di perle dimenticate,
preferendo offrire pezzi che tutti conoscono. I Don’t Wanna Change The World, Shoot In The Dark, Crazy Train, la dolce Mama I’m Coming Home,
ce n’è di che deliziare chiunque, tra un’ardita secchiata d’acqua in
testa, a cui Ozzy non rinuncia nemmeno con le fredde temperature di
Clisson, e vocalizzi ancora sufficientemente squillanti. A pochi minuti
dallo scadere indovinate cosa viene annunciato? Bravissimi, avete vinto
un orsacchiotto, Paranoid chiude i battenti di una esibizione non
perfetta, e sarebbe stato da pazzi sperarlo, però coinvolgente e
frizzante al punto giusto e priva della vanità di certi rockers tedeschi
visti la sera prima. Il mito resiste e non ha intenzione di abdicare.

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Main Stage 2, 01.00 – 02.00

Ahimè, anche le cose belle devono finire. L’infinita maratona
festivaliera si conclude con tre pesi massimi all’opera in
contemporanea: Kyuss Lives! sulla Terrorizer, Cradle Of Filth alla Rock Hard, Opeth sul Main Stage 2. Per comodità e stanchezza arrembante, andiamo sugli Opeth, scelta che si rivelerà vincente. Col solo Mikael Akerfeldt,
ormai da qualche anno, a rappresentare la line-up originaria e la
presenza fissa di un tastierista, quello che non muta nel tempo è
l’armoniosa efficacia della band in versione da concerto. Giova
all’apprezzamento dell’esibizione una set-list che tende a evolversi con
lo scorrere dei dischi e la direzione sonora di questi. I primi due
brani arrivano direttamente dalla fase ultima della discografia del
combo, meno legata al death e pendente verso un progressive estremo
limpido nei suoni ed estremamente articolato nella costruzione.
Onestamente conosco poco delle ultime opere degli svedesi, ma a sentire
questi pezzi nella fredda notte francese direi che l’estro dei primi
lavori non è andato affatto spegnendosi. La tendenza a guardare più alla
melodia che alla brutalità emerge dall’inserimento di ben due pezzi da Damnation,
che si integrano bene con i pezzi più elettrici e assurgono a
malinconiche canzoni d’addio alla manifestazione. Il brio maggiore da
parte di un pubblico attento ma un po’ prostrato al termine della tre
giorni di musica viene offerto sul mid-tempo schiacciasassi di Master Apprenticies, sul quale il leader della formazione può sfoggiare il suo growl più profondo, e nella penultima The Drapery Falls, vera e propria hit dalla pietra angolare del metal anni ’90 Blackwater Park.
Oltre a una performance vocale puntuale e veemente Akerfeldt offre
salaci momenti di humour inglese, il migliore quello relativo a un
concerto di quand’era ragazzo in cui, mentre si dilettava in un sano
mosh, aveva subito la rottura del naso da uno skinhead. “This is the
story of my life” commenta il singer/chitarrista. Anche per gli Opeth si
può parlare di un concerto perfettamente riuscito e in linea col
livello siderale mediamente espresso dai gruppi succedutisi sui palchi
di Clisson. Difficilmente l’anno prossimo marcheremo visita…