Parafrasando i supporters del Barcellona e consapevoli di cogliere il nocciolo della questione anche meglio di loro, se il Barça è più di un club, l’Hellfest è più di un metal festival. E’ il Metal Festival. Nulla vi è paragonabile, nulla vi è simile, niente ne può scalfire la supremazia, oggi come oggi. Ci sono tante proposte allettanti in giro per l’Europa, manifestazioni più o meno grosse, più o meno orientate verso questa o quella sonorità, con un loro concept e una certa atmosfera, ma quello che è stato creato, perfezionato, ingrandito, esaltato in terra francese, nella splendida Valle Della Loira, sta a un livello che gli altri, al massimo, possono ammirare. Avevamo testato nel 2011, in tre giorni oltremodo appaganti, l’assoluta eccellenza di questo Moloch di metallo estremo, alternativo, sperimentale, visionario, con residuo di materia classica a fare da specchietto per le allodole e rimpolpare i ranghi degli spettatori. Ci aspettavamo di ripetere l’esperienza e abbiamo constatato, con gioia e ammirazione, in alcuni momenti con genuina incredulità, che al meglio non c’è limite, se chi è dietro la macchina organizzativa ha entusiasmo, dedizione, idealismo, spirito imprenditoriale e conoscenza della musica a livelli siderali come i ragazzi che vivono, sudano e respirano Hellfest 365 giorni l’anno per arrivare alle date convenute con ogni dettaglio a posto e avendo messo in pista uno scenario da fantascienza.
Dai quattro palchi dell’anno passato siamo arrivati a 6, dico sei stage per 157 band, niente riempitivi ma solo quanto di più attizzante gli organizzatori potessero trovare in giro e a disposizione in quel periodo dell’anno, pescando a piene mani da tutto quanto c’è di estremo, pericoloso, pesante e baciato da grazia diabolica nel mondo musicale odierno. Se i due palchi principali servono a dare una parvenza rassicurante al tutto e portano i numeri che rendono gigante l’evento, con una portata numerica ampia (si parla di circa 35.000 presenze) ma lontana dall’esagerazione, così da permettere una piena fruizione dei concerti senza resse gigantesche e in piena comodità anche per i gruppi più hot, il fulcro vero e proprio è rappresentato dagli altri quattro palchi posti sotto i tendoni. Sotto un’unica tenda da circo, di sbieco uno rispetto all’altro, sono stati posti l’Altar, dedicato al death e al grind, e il Temple, devoto a tutte le declinazioni del black. In altri due tendoni, uno più piccolo a destra dell’ingresso, il crogiuolo di psichedelia, stoner, doom, sludge e sperimentazioni assortite, ossia il Valley, mentre più isolato dagli altri, ma comunque a breve distanza, è stato posto il campo di battaglia per l’hardcore/punk, il Warzone. Se sui due Mainstage hanno preso posto gli ensemble più conosciuti dalle masse, oltre alle realtà rock e al metal nella sua accezione “classica”, da intendersi in senso lato visto il tanto thrash dispensato, gli altri stage sono stati quelli che hanno davvero appagato la fame di conoscenza dell’ascoltatore più esperto e smaliziato, che è poi lo spettatore tipo dell’Hellfest; chi viene a questo festival lo fa per assaporare la miriade di suoni che l’underground può offrire, e si muove incessante e famelico da una parte all’altra dell’area concerti in cerca di nuove “prede”, rappresentate spesso da creature musicali poco note e che si ascoltano con lo spirito degli esploratori alla scoperta dell’ignoto. La febbrile ricerca sul running order del modo in cui guardare quanta più roba possibile è stato il leit-motiv della maggioranza dei presenti, intenti a scorrere con occhio attento il programma per trovare la sequenza di concerti prediletta e capire cosa si poteva seguire e cosa, a malincuore, si doveva lasciar perdere. Chi davvero non si fa paraocchi e paraorecchie all’intero del mare magnum del metal odierno ha faticato davvero tanto a decidersi in certi momenti, e per quanta forza di volontà e abnegazione uno ci potesse mettere per perdersi meno roba possibile, le sovrapposizioni e la stanchezza hanno per forza limitato il margine di manovra, anche se i più scavezzacollo, sottoscritto in testa, si sono sderenati avanti e indietro come se non ci fosse domani toccando una quantità di esibizioni godute per intero, non a spizzichi e bocconi, da rasentare il collasso. Su questa linea sottile tra bulimia, fanatismo, delirio e perversione si sono arrampicati in tanti, rendendo giustizia al concetto di multiverso e facendoci diventare consapevoli in certi momenti di vivere quasi in due mondi diversi allo stesso momento, visti i cambi di scenario a cui si assisteva nel giro di un niente passando da un concerto all’altro.
Con il fango a imprigionare spesso e volentieri i piedi, nonostante i tendoni abbiano limitato alquanto i disagi della pioggia, comunque non troppo vessatoria nei tre giorni, ci siamo sottoposti a un tour de force immane, da cui non credevo si potesse uscire in condizioni accettabili e che invece, a parte qualche momento di somma stanchezza e leggere alterazioni dello stato cognitivo, ha portato a una scorpacciata sonora probabilmente irripetibile, di cui spero possiate apprezzare nelle prossime righe almeno un millesimo delle emozioni da me vissute in prima persona.
LO SCENARIO
Prima di rendervi edotti sui gruppi visionati e che mi hanno in alcuni casi realmente vivisezionato, spendo due parole sul “New Battlefield” annunciato nel sito ufficiale della manifestazione già nei mesi immediatamente successivi all’edizione 2011. Si è semplicemente oltrepassata la strada, andando a collocare l’area concerti in un terreno più ampio e con un più facile accesso, mentre effettivamente quello dell’anno prima era leggermente scomodo e comportava qualche minuto in più di percorrenza dai parcheggi. La maggior superficie ha permesso di muoversi agevolmente anche nelle ore a maggior flusso umano e ha dato modo di avere più zone per il relax a chi abbisognava di una sosta durante le frenetiche giornate della manifestazione. Anche l’Extreme Market è stato reso se possibile più goloso, avvicinandosi molto alla vastità di scelta di quello di Wacken. A livello di concept visivo, altro fiore all’occhiello dell’Hellfest, si è fatto ancora di più per rendere la zona concerti simile a un frammento di futuro riportato ai giorni nostri, con costruzioni di lamiera dal sapore post-industriale poste in ogni dove, arzigogolate figure mostruose a campeggiare all’ingresso, sui mainstage e vicino ai banchi del merchandise e delle bevande, e gigantesche lampade da tavolo al centro dell’area. Corposa e varia la scelta alimentare, non si sta parlando di piatti da gourmet ma ci si è potuti nutrire convenientemente senza dover incorrere per forza in schifezza indigeribili. I prezzi, ahimè, erano invece piuttosto alti, in alcuni casi scandalosi, mentre per il bere, sia alcolico che analcolico, ce la si cavava un po’ meglio, grazie anche ai rubinetti di acqua potabile in corrispondenza dei bagni, dalle condizioni decisamente più decorose di quelle che si trovano normalmente ai grandi eventi.
Anche la qualità del merchandise ufficiale è qualcosa da leccarsi i baffi, i disegni di felpe, magliette e accessori vari è da bava alla bocca, rendendo difficile tenere in saccoccia gli euro quando si passava di fronte agli stand dedicati; idem per quel che riguarda il materiale delle band, con livelli di genio sopraffino tra cui ricordiamo il “Fuck dub-step”, più altri insulti, degli Aborted, il simbolo dei Saint Vitus composto da pastiglie di barbiturici, la famigerata nota barrata dei Napalm Death, il demone iper-muscolato dei Big Business e una ultra-gay t-shirt degli Steel Panther da uomo, di colore rosa shocking. Evadiamo in poche battute due elementi essenziali per un festival come si conviene: la puntualità delle esibizioni e la qualità dei suoni. Sul primo punto, siamo stati a livelli commuoventi per come non ci sia stata la benché minima sbavatura e la sequenza dei concerti non sia stata alterata per qualsivoglia dettaglio tecnico. I suoni sono stati perfetti e anche di più su Warzone e Valley, nessuno escluso tra gli act che abbiamo visto, quasi sempre ottimi, con poche eccezioni che vi diremo, su Temple e Altar, e inspiegabilmente bassi sui Mainstage: se sul numero 1, mi dicono (non ho visto nulla in prima persona, sorry) che la situazione tutto sommato non era così malvagia, sul numero 2 c’era davvero qualcosa che non quadrava, tanto erano poco potenti e dai volumi inadeguati: posso supporre che sia stata una richiesta del comune di Clissonj, perché altrimenti qualcuno vi avrebbe posto rimedio prima o poi. Egoisticamente, visto il poco che ho visto sui palchi principali, la cosa mi ha toccato poco, ma posso capire che almeno su questo punto qualcuno possa avere avuto da ridire, visto che la penalizzazione per chi ci suonava era lampante. Detto di questo unico problema, almeno per quanto riguarda la mia esperienza diretta, vorrei darvi delucidazioni sul campeggio, tallone d’achille delle precedente edizioni, ma non avendovi soggiornato non saprei proprio di che parlare e quindi chiudo con la tediosa introduzione e passo alla musica, la cosa più importante.
P.S. Quel che segue non ha alcuna pretesa di completezza, precisione, conoscenza completa e assoluta dell’operato delle band viste all’opera, è solo un insieme di sensazioni e visioni di una mente abbastanza instabile e che di fronte a tanta abbondanza e prelibatezza ha dato via di testa del tutto. Le pulsioni animali qui rappresentate, invece, dovrebbero dare l’idea, a grandi linee, di cosa voglia dire sbafarsi 45 gruppi nell’arco di sole tre giornate senza sosta, senza riposo, con poco cibo incamerato e un fisico che ogni tanto voleva dire basta ma poi, sottoposto a minacce atroci in caso di ritorsioni, si rassegnava a seguire i dettami del cervello ormai rosolato e maciullato dal più grande spettacolo che anima metallica possa immaginare.
Celeste
Valley, 10.30 – 11.00
Una epilettica scarica di strob ci dà il benvenuto sul Valley: qua gli opener non sono trattati da paria e la grancassa proveniente dal palco fa già tremare i tiranti del tendone. Un nutrito manipolo di intenditori ha già l’occhio sullo stage, per non perdersi uno degli astri nascenti della scena transalpina. L’apparenza dimessa è fuorviante su quali siano le pulsioni che agitano i cinque membri dei Celeste; le pettinature in ordine e i visini puliti da impiegato modello stridono al confronto della matassa densa e impenetrabile partorita dalle chitarre, che grazie anche al martoriare indefesso della sezione ritmica arriva addosso come un’incudine in pieno collo. Stordire e annichilire sono l’unico obiettivo dei cinque francesini, la cui cupezza malsana ha la sua croce e delizia nell’essere fortemente monotematica e tesa a un crescente disturbo della psiche. I Celeste si sono segnalati con i loro tre dischi tra gli interpreti più efficaci del filone black-core, riconducendo sotto unica bandiera il nero senza luci del black metal e i toni da lotta urbana dell’hardcore, e oggi ben rispecchiano la lividezza degli album. La lunghezza media dei brani, non chilometrica ma nemmeno troppo stringata, serve ad accumulare acido muriatico invece che creare diversivi e alleggerimenti qua e là, per cui la mezz’ora in compagnia del combo scorre via tumultuosa tra le efficaci urlate isteriche del singer, l’unico su di giri in mezzo a musicisti quasi rilassati e dal sorriso sulle labbra, e un insostenibile, piacevolissimo, sovraccarico di tensione.
Strong As Ten
Warzone, 11.05 – 11.35
Ad aprire le ostilità sul Warzone è un’altra realtà francese, gli Strong As Ten. Sono la risposta transalpina a Municipal Waste e Gama Bomb, con una propensione ancora più spiccata alla brevità delle canzoni e all’umorismo. E’ tutto in tema: tenuta casalinga modello stravaccamento sul divano davanti al televisore (versione estiva), aria da chi è sul palco un po’ per caso, foglio attaccato agli ampli con scritto “We are against everything”. Qualche battuta con le prime file e si parte; la verve c’è tutta, il coinvolgimento pure e il thrash ultra punkizzato dei nostri fa la sua porca figura, andando ben oltre il manierismo old-school. L’insensatezza dei pezzi più corti è un chiaro segno di devozione per i S.O.D., di cui il singer sfoggia una maglietta, altrove sono D.R.I. e Nuclear Assault a essere chiamati in causa, mentre alcuni passaggi non-sense fuori dagli schemi thrash sono tutti farina del sacco degli Strong As Ten. Il frullato di energia dei Nostri non è contemplato da un pubblico foltissimo, ma la partecipazione è tutt’altro che bassa, segno che gli Strong As Ten colpiscono nel segno. Le canzoni sono talmente stringate che la band lascia il palco con qualche minuto di anticipo, probabilmente ha finito il materiale a disposizione; l’impressione conclusiva è che abbiamo trovato altri validi interpreti della rinata scena crossover, il tempo dirà se potranno dire la loro anche oltre confine.
Doomriders
Valley, 11.40 – 12.10
Non è neanche mezzogiorno, eppure per i Doomriders la Valley è piena imballata, si fatica a guadagnare un punto decente per vedere lo show dei quattro americani, che pur mancando su disco dal 2009 e senza avere una corposa discografica alle spalle (solo due album, “Black Thunder” del 2005 e “Darkness Comes Alive” del 2009), devono avere lasciato una bella impressione coi passati lavori. L’attesa viene ripagata da una performance vigorosa e molto calda, in aderenza allo dinamiche stoner/doom, virate al rock’n’roll, promulgate dai Nostri. L’essenzialità delle composizioni e il riffing arrotato si sposano a un approccio canoro bello sgraziato, anche se mai troppo estremo, col quale il singer/chitarrista Nate Newton riesce a imbastire chorus di presa immediata. Anche chi ignora il contenuto dei pezzi si ritrova a cantare alla bell’e meglio i refrain, trovando ulteriore appagamento nelle linee melodiche blueseggianti poste a interrompere ogni tanto i normali schemi concitati del combo. L’esecuzione sincera e appassionata del quartetto viene recepita con entusiasmo, ai vecchi fans si aggiungono convinti negli applausi i novizi come il sottoscritto, che trova conferma delle belle recensioni ricevute ai tempi della sua uscita da “Darkness Comes Alive”.
Thou
Valley, 12.50 – 13.30
Il nichilismo estremo, la negatività tumultuosa a stento trattenuta dal singolo individuo ha i suoi nuovi, atroci, cantori: si chiamano Thou, e sono il primo highlight assoluto dell’Hellfest 2012, la band da bollino rosso che arriva direttamente dal maleodorante sottobosco sludge della Louisiana, mecca di queste sonorità. Non pensate ai Down, piuttosto a degli Eyehategod meno hardcore, dall’olezzo meno pungente ma con più visionarietà, una propensione alla dilatazione spazio-temporale e una malattia mentale molto pronunciata. I Thou procedono ad ampie falcate, le bastonate chitarristiche sono stordenti e il riffing profondo e scuro, portatore di una degenerazione totale, senza luce in fondo al tunnel. I brani, così lunghi da perdercisi dentro, sono costruiti attraverso reiterazioni di passaggi ultra heavy e sequenze di stasi totale, secche ai limiti del drone che fanno precipitare l’ascoltatore nella più totale alienazione. Il cerebralismo degli Thou, anti-melodico e oppressivo, sfocia nella più orripilante ferocia per via del cantato a dir poco mostruoso di Bryan Funck, un demone oppure un umano chiaramente posseduto; non si tratta solo di un latrato hardcore particolarmente riuscito, ma di uno strazio delle corde vocali più luciferino, impestato di melma, escrementi e sangue rinsecchito come pochi altri. Non saprei dire se facciano più impressione le parti più colossali o quelle droniche, tale è il senso di angoscia, disperazione e desolazione evocato da entrambe. I Thou sono una delle trincee avanzate del doom nella sua dimensione sperimentale e depravata, il rantolante disagio da fine del mondo che esprimono in un live fa realmente impressione e non lascia tregua, non ammette pause, spegne ogni raggio di sole e fa sfiorire la speranza. Raggelanti.
Vitamin X
Warzone, 13.35 – 14.15
Sempre ci è caro l’hardcore vecchia maniera, eccoci allora godere come ricci per la bella prova dei Vitamin X, combo olandese autore di una discreta sfilza di album negli anni 2000 ma francamente a me sconosciuti. Si presentano in francese, accattivandosi immediatamente le simpatie della maggior parte dei presenti e segnalando subito una attitudine da casinari che non si prendono troppo sul serio. Smorfie spastiche e risate, lancio di stelle filanti e un bel gonfiabile da mare gettato tra il pubblico creano il giusto clima goliardico, abbrustolito da rasoiate rapide e annichilenti dal piccante sapore di primi D.R.I. e Raw Power. La velocità di intenti e la concretezza non difettano a questi cittadini dei Paesi Bassi, che al di là del senso dell’umorismo offrono pure una sostanza musicale non di poco conto. I brani sono freschi e spumeggianti, niente routine ma tanta spontaneità e capacità di colpire duro, arrivando in parecchie occasioni ai confini del thrash. Iniziano intanto a vedersi i primi mosh, calci in aria e hardcore-dance, sia in mezzo alla fanghiglia collosa a bordo palco che sopra il medesimo. Frenetici e scattanti, i Vitamin X infondono una bella botta di adrenalina e ti inducono a credere che con certa bella gente in giro lo spirito del varo hardcore non morirà mai.
Unexpect
Altar, 14.20 – 15.00
Per chi bazzica nell’avantgarde la prova live è ancora più ostica che per un qualsiasi altro gruppo metal, in quanto i dischi di questo tipo di band prevedono una fase di registrazione molto elaborata, necessaria a dare completezza ed esaustività a idee sonore elaborate e composte da miriadi di input differenti. Il lavoro di costruzione, smontaggio, rielaborazione permesso dalle tempistiche dello studio dal vivo non è possibile e calibrare al meglio le diverse componenti, quelle prettamente metalliche con effettistica e altre astrusità soniche, non è compito di poco conto. Gli Unexpect, autori dell’acclamato “Fables Of The Sleepless Empire” nel 2011, non si avvalgono di un tastierista per ricreare le parti più stravaganti, l’unico elemento non metallico è rappresentato dal violino di Blaise Borboen-Leonard, inserito con un attento mixaggio nell’architettura delle canzoni e non soffocato dalla maggiore potenza dei compagni. Le prime battute lasciano un poco perplessi, sembra esserci troppa carne al fuoco e non si intravede un filo conduttore, ma fortunatamente è solo il necessario rodaggio da affrontare con una proposta non scontata e fuori dai canoni. Ecco allora accendersi l’arcobaleno di umori dei genialoidi canadesi, che si snoda agevolmente tra impennate extreme metal, momenti teatrali, sfoghi progressive e armonie di provenienza non metallica. L’imprevedibilità non è di ostacolo all’immediatezza, i ritmi molto accesi e tambureggianti tengono sempre viva l’attenzione, il triplo cantato, in growl quello dei due chitarristi, soavemente istrionico e pulito quello della solare Leilindel, è efficace nel tratteggiare la mutevolezza delle atmosfere. Se i due growl sono tutto sommato abbastanza anonimi, ma funzionali all’insieme, il cantato femminile è invece di alto profilo; incorpora striature liriche e dolcezze gotiche, non mostra problemi sulle note alte e media tra interpretazione sopra le righe e appeal melodico. Le presenze davanti al palco sono meno numerose che per altre esibizioni, d’altronde gli Unexpect non si collocano esattamente nel filone di sinistra devastazione rumorosa di buona parte dell’Hellfest; nonostante ciò applausi e incitamenti non mancano, nessuno viene lasciato solo a se stesso da queste parti e i 40’ minuti in compagnia dei Nostri vanno in archivio in modo decisamente positivo.
Victims
Warzone, 15.05 – 15.45
D-beat, parolina magica coniata per definire il punk metallizzato inventato a inizio anni ’80 dai Discharge, uno stile sinonimo di distruzione; viene brutalmente omaggiato dagli svedesi Victims, conterranei degli altrettanto terremotanti Disfear, dei quali riecheggiano molti dei contenuti. Il combo nordico è costituito da quattro belve assassine, poco inclini al dialogo o al dare spettacolo e concentrate in toto sul modo migliore per arrecare danno a ciò che li circonda. I Victims potrebbero essere presi a punto di riferimento per tutte le band che non inseguono pulsioni artistiche raffinate e sofisticate, ma guardano in primis al mettere all’angolo l’ascoltatore e ridurlo in fin di vita: non staccano il piede dall’acceleratore neanche per sbaglio, vanno via dritti e battenti, gli strumenti fusi in proiettili d’acciaio ricoperti di gas nervino, la voce raspante e collerica a vomitare in faccia il male del mondo. I Nostri sono protagonisti di una performance estrema, sono l’hardcore degli ultimi giorni, quello dell’apocalisse, che non regala rassicurazioni e non suscita sorrisi, solo amarezza e scoramento. I binari da treno della morte che si sono scelti non vengono mai lasciati, la band picchia, percuote, scorrazza senza sosta sui nostri corpi per ridurli in poltiglia: non fa altro, per tutta l’esibizione, facendo sembrare i già nominati Disfear un gruppo positivo e rassicurante. I Victims invece no, vanno giù di ascia rotante, abbinando velocità e pesantezza, masticando nausea e orrore; si fermano giusto quando è finito il tempo a disposizione, lasciando allibiti tutti per la compattezza inumana mostrata. Ovviamente vicino al palco c’è stato quel bel putiferio da concerto hardcore, ma questo act è così definitivo nella sua aggressione che viene da fermarsi e chiedersi se sia possibile arrivare a tanto. E la risposta è sì. Una grande rivelazione.
Darkspace
Temple, 16.35 – 17.25
E’ tempo di inoltrarsi nello spazio più lontano, esplorare la galassia fino ai suoi più remoti confini. Nessuna navicella spaziale a disposizione, solo la musica raggelante degli svizzeri Darkspace, nome calzante a pennello alla proposta del gruppo. Si presentano in tre, tutti col microfono davanti: i due chitarristi Zhaaral e Wroth ai lati, la bassista Zorgh, con un treccione d’altri tempi, in mezzo. Il look è curatissimo, face painting e palandrana nera donano a tutti e tre le sembianze di sacerdoti del male, le espressioni dei volti non lasciano trapelare emozioni umane, solo il gelo. Tastiere ed effetti elettronici sono affidati a basi registrate e lo stesso accade per la drum-machine. I primi minuti dello show lasciano abbastanza interdetti chi ignora la reale natura del combo: lo sferragliare zanzaroso ed epilettico delle chitarre si scontra, piuttosto che integrarsi, ai suoni registrati, soprattutto la drum-machine suona fuori controllo e all’inizio diventa sin troppo protagonista. Sistemato il mixaggio, ed aumentato il coefficiente distruttivo/disturbante degli strumenti suonati, e sentite le prime, laceranti, vocals, il quadro ci appare più chiaro e assurdamente terrificante. I Darkspace sono cattivissimi e ronzanti come il black dei primordi, ma hanno catapultato la genuina malvagità primigenia in un atmosfera da fantascienza horrorifica. Futurismo e scelleratezza esecutiva ammantano le canzoni, assolutamente chilometriche e per la gran parte strumentali. Entrati nell’ostico mondo della band se ne rimane effettivamente conquistati, e spaventati: l’effetto di accumulazione e overload, comune anche ad altre realtà viste durante l’Hellfest ma con modalità diverse, diventa sconvolgente col passare dei minuti, e le poche porzioni cantate accrescono il senso di disagio, soprattutto quelle di Zorgh, fra le linee vocali più depravate che si possano sentire. Nonostante qualcuno, un po’ perplesso, decida di lasciare il Temple durante lo show, il resto dei presenti rimane prevalentemente fermo, immobile, pietrificato, per tutta l’esibizione, l’occhio sgranato e le orecchie bene aperte per assaporare questo singolare martirio. Poi il viaggio spaziale finisce e si torna sulla Terra, un po’ scombussolati.
Orange Goblin
Valley, 17.30 – 18.15
Quattro bikers barbuti, sudati e recalcitranti alle regole irrompono sul Valley. Stranamente non sono americani, ma inglesi e sono la migliore espressione europea dello stoner-doom rockeggiante e ad alto tasso di divertimento. Alle cadenze sfiancanti, oblique e distorte di buona parte delle band che hanno suonato e suoneranno sotto questo tendone, gli albionici contrappongono un approccio rolleggiante e molto movimentato, una sorta di versione al calore del deserto dell’immane sound motorheadiano. Lo stage-acting si infiamma e vede protagonista incontrastato il singer Ben Ward, mattatore corpulento che non lesina nulla in fatto di energie e sempre alla ricerca del contatto con le prime file, scosse a dovere dal suo vocione rabbioso ma anche tanto torrido. L’orecchiabilità fa rima con potenza, i pezzi rombano come motori di dragster e mietono vittime da headbanging un po’ dappertutto. Nessuno rimane compassato e in religioso ascolto con gli Orange Goblin, tutti si lasciano andare per questo frutto degenere del Black Sabbath-sound più rock’n’roll e cercano di cantare i pezzi anche quelli che non li conoscono, visto che i chorus da urlo non mancano di certo. Mi spiace non potervi dire quali hit della loro discografia abbiano sfornato, era la mia prima volta al cospetto del gruppo, ma credo che a breve colmerò la lacuna anche dal punto di vista discografico, vista l’adrenalina a fiumi che ti iniettano dal vivo questi quattro.
G.B.H.
Warzone, 18.30 – 19.20
I vecchi che non tramontano, freschi come roselline di campo appena colte. E incazzati come a vent’anni. Arrivati a sostituire in extremis gli Arson Anthem i G.B.H. dimostrano una forma sorprendente per una formazione in giro da oltre trent’anni e che in questo periodo non si è certo attenuta a dieta e abitudini da asceta. I tempi dei seminali “City Baby Attacked By Rats” e “City Baby’s Revenge” sono lontani, ma con l’adrenalina che hanno in corpo i loro autori (la line-up odierna è quella originaria per tre quarti) non si direbbe. Al di là del normale processo di invecchiamento, non si notano segni di palese cedimento da parte dei musicisti e fin dall’attacco del primo pezzo si capisce che si andrà incontro a grandi emozioni. Il punk non è morto e i G.B.H. ne ripropongono le sacre tavole della legge con un impeto da adolescenti che vogliono spaccare il mondo. Il cantante/chitarrista Colin Abrahall ha la cresta accorciata ma sempre un colore di capelli assai improbabile e una voce aspra che non è sfiorita nel tempo; la stessa, ottima, condizione la si nota negli altri tre compari, ancora desiderosi di sbattersi in giro per tenere alto il verbo del punk. Non mi aspettavo di sentire tanta durezza da gente con tanti anni sulle spalle, l’impatto è stato non molto dissimile dai più feroci ensemble d-beat in circolazione, e scusate se è poco. E’ un’altra di quelle occasioni in cui vai al buio, non conosci il repertorio e ti fai trascinare dalla sorpresa di sentire quante cartucce sappiano ancora sparare gli “anziani” leoni. Rispetto ad altri show si nota qualche fan dalle parvenze più stagionate, in mezzo al folto nugolo di convenuti. Probabilmente la maggior parte si aspettava uno spettacolo un po’ nostalgico, al contrario abbiamo assistito a una performance scintillante e oltremodo entusiasmante.
Integrity
Warzone, 20.30 – 21.20
Dopo tanto ben di dio, ci poteva stare un gruppo un pelo sottotono, che si distingue più per l’arte di arrangiarsi che per effettive peculiarità del proprio sound. Gli Integrity fanno parte di quella frangia hardcore dura e pura dalle fondamenta di granito e con idee molto basilari. Incentrano la musica su brani cadenzati e anthemici, scossi da accelerazioni moderatamente robuste ma mai troppo esplosive, sempre un poco trattenute, per dar modo al groove di emergere e far trionfare ritornelli maschi e ad effetto. I ragazzi ci mettono nerbo, su questo non c’è dubbio, e incontrano il sostegno di tanta gente, infatti sono numerosi i die-hard fans che li incitano nel pit e ne cantano i pezzi, con evidente trasporto e autentica passione. Il concerto sublima il concetto di fratellanza hardcore e vede ragazzi giovani e altri oltre la trentina entrare in perfetta sintonia col carismatico cantante, che non lesina in discorsi e arringhe tra una canzone e l’altra, lasciando forse fin troppo spazio all’autocelebrazione ma sputando le tonsille, quando ce n’è bisogno, per far tuonare le bellicose parole dei testi. Assorbita senza troppi scossoni la botta dei primi minuti, noto che la capacità di scrittura non è propriamente ispirata, i Nostri si divincolano tra mid-tempo squadrati e frustate molto simili fra loro, il risultato finale fa felici chi già apprezzava il combo ma poco avvince coloro che ignoravano gli Integrity prima di stasera. Prescindendo dalla qualità del materiale a disposizione, non ci sono cose fuori posto, i membri della band si fanno valere, soprattutto il chitarrista più giovane e pienotto, bravino anche nei solos. Manca però il tiro lacerante del crust/d-beat metallizzato e, dall’altro lato della medaglia, la melodia vincente dell’hardcore meno intransigente. Poco male, gli Integrity rimangono una discreta realtà di genere, basta non chiedere loro di inventarsi capolavori, di quello non sono capaci.
Cannibal Corpse
Altar, 21.25 – 22.25
I Cannibal Corpse in dimensione live sono imprescindibili. Su disco possono piacere o non piacere, li si potrà considerare grandiosi, normali o addirittura sopravvalutati, ognuno la pensi come crede. Dal vivo no, quando c’è da aggredire la folla famelica i Cannibali non si discutono, si adorano. Il motivo del loro successo diventa terribilmente esplicito quanto ti attaccano ai ganci da macello durante un concerto, in questi casi non si può restare impassibili, si finisce semplicemente per cadere in trance barbarica e spezzarsi il collo nell’headbanging, violentare la gola imitando Corpsegrinder, oppure darsi l’estrema unzione buttandosi nel mosh. Il macabro rituale di svisceramento organi si compie al meglio anche sotto l’Altar in questa prima serata di festival: il tendone è colmo di dannati e ribolle di piacere già dalle prime, fatidiche, note di “Demented Aggression”. Il massacro assume le connotazioni usuete, il caro vecchio George Fisher piazza lo stivalone sulle spie e fa roteare la chioma a velocità di ventilatore ultimo modello, i vocalizzi atroci ed espressivi escono senza ombra di incertezza o perdita di fiato. Il carisma che emana quest’uomo è inattaccabile, rappresenta la quintessenza del death metal in parole e gesti. I Cannibal Corpse suonano a rotta di collo, i soffocati cadenzati sono pericolosi al pari degli squassanti blast-beat, poco difformi gli uni dagli altri ma così spietati da essere pressoché inimitabili. Il quantitativo di energie speso, all’unisono da pubblico e band, è incalcolabile, si sente la totale simbiosi tra chi è sul palco, contorto sullo strumento, e chi si bea della carneficina davanti all’Altar. Il “Corpsegrinder” sa come aizzare la folla, ne suscita i bassi istinti con la stessa dialettica sapiente di chi presentava i roghi di streghe nel Medioevo, la presentazione dei brani è un piccolo spaccato di quello che dovrebbe saper fare un frontman. Gli altri, al pari del singer, non si discutono, non ci sono prestazioni singole da elogiare, qua è il lavoro d’assieme ad essere realmente esaltante.
La setlist appaga sia chi è desideroso di sentire un po’ di materiale nuovo (il trittico d’avvio “Demented Aggression”-Sarcophagic Frenzy”-“Scourge Of Iron”), sia quelli che proprio non possono rinunciare a una “I Cum Blood” o “Make Them Suffer”. Orgasmatica a dir poco l’accoppiata finale “Hammer Smashed Face”-“Stripped Raped And Strangled”, ma tutta l’esibizione è stata a dir poco superba. Sempre leader del movimento death, non mettetene in dubbio l’eccellenza perché potreste pentirvene amaramente.
Satyricon
Temple, 22.30 – 23.30
Assenti su disco da quattro anni, dal discusso “The Age Of Nero”, che li aveva portati a una strana ibridazione tra black degli esordi, certe pulsioni quasi industrial dell’era di mezzo e il metal ottantiano, i Satyricon dimostrano di non aver perso smalto nel contesto live, dove sfoggiano una sicurezza e una autorevolezza non comuni nella scena black. I norvegesi sposano l’alterigia e la severità dei blacksters con il rabbioso calore di carismatiche rockstar, rendendosi protagonisti di un concerto tra i più movimentati sopra il palcoscenico. La truppa di sessionist messi insieme dal duo Satyr-Frost sa il fatto suo, evita di starsene nell’ombra manifestando il suo ruolo subalterno rispetto ai due mastermind e si lascia andare a headbanging indiavolato, pose guerriere e atteggiamento aggressivo. La scena, anche al cospetto di compagni di reparto aitanti come questi, se la prende Satyr, ritornato al capello lungo dopo la parentesi gangster di periferia/biscazziere/magnaccia del periodo “The Age Of Nero”. Può starsene immobile dietro il tridente su cui poggia l’asta del microfono, muoversi scatenato per il palco, guardare livoroso le prime file, in ogni caso trasuda aurea di leggenda. Riuscire a rivestire di patina da concerto rock quello che molti altri ensemble black trasformerebbero in una mera, seppure inappuntabile, carneficina, è un dono naturale che si evidenzia non solo per le doti di entertainer dei Nostri ma proprio per la natura del materiale a disposizione. I Satyricon operano una sapiente sintesi tra passato prossimo e remoto, e non lo fanno per mera compiacenza coi fans di lunga data, ma perché si sentono molto legati a tutte le fasi della carriera. La metamorfosi è un modo per rivitalizzarsi, non per troncare con quanto fatto in precedenza e con se stessi, e allora sotto, nelle prime battute, con “Now Diabolical” e “Black Crow On A Tombstone”, giusto per scaldare le corde vocali del pubblico, per poi presentare in pompa magna “Forhekset”, con somma gioia di chi si è formato sulle note di “Nemesis Divina”. I contrasti continuano passando fra l’immediata “The Wolfpack” e gli anfratti enigmatici della lunga “Hvite Krists DØD”, seguita con tanto d’occhio dai presenti. Ci si scatena alla grande sulla rapace “Repined Bastard Nation” e si vive con la solennità di un inno nazionale la leggendaria “Mother North”, gelida e imperiale anche in questa sede. Il finale appaga la voglia di partecipazione canora dell’audience, che segue a menadito le invettive di Satyr e ne funge da degno controcanto, rendendo onore e gloria a “K.I.N.G.” e “Fuel For Hatred”, con cui si chiude la splendida esibizione degli inossidabili blacksters scandinavi.
From Ashes Rise
Warzone, 23.35 – 00.35
Resistiamo alla tentazione delle prime, ribassate, note degli Obituary e andiamo alla scoperta di talenti sul Warzone, dove la serata accoglie nomi pesanti dell’underground hardcore/punk. Ennesima “bestia” sconosciuta della giornata, i From Ashes Rise assestano una poderosa legnata di hardcore estremizzato e sublimato nel d-beat, con una vena punk che non li fa apparire eccessivamente metallici rispetto ad altri act di più o meno pari belligeranza. La foga che ci mettono i quattro rasenta il parossismo, l’occhio sbarrato del cantante/chitarrista John Wilkerson la dice lunga sull’impeto che si agita in seno a ogni membro del gruppo, specchio fedele della concitazione della loro musica, incline alla sintesi, alla sguaiatezza e alla ruvidità. I From Ashes Rise hanno l’ombra lunga di Disfear e Discharge ad accompagnarli, e dell’assonanza con queste leggende ne fanno motivo di vanto, visto che non sfigurano al loro cospetto per qualità di canzoni e fedele trasposizione di queste in sede live. Poca scena e molta, dirompente, sostanza caratterizzano anche questo show, brutalmente catchy e dotato di un minimo di “umanità” rispetto al nichilismo totale di gente come i Victims o gli esagerati Tragedy, che arriveranno a breve sul medesimo stage. Sotto, non ci stancheremo di dirlo, si assiste a dei virili scambi di colpi tra i più scalmanati, che fanno arretrare di vari metri i meno facinorosi, restii a farsi coinvolgere in circle-pit e wall of death. I From Ashes Rise lasciano il segno e ci fanno venire voglia di scoprirli anche su disco, cosa che all’Hellfest ci è capitata con quasi tutte le formazioni viste all’opera per la prima volta.
Tragedy
Warzone, 01.00 – 02.00
Un indice dell’importanza e dell’apprezzamento riscontrato da un gruppo all’interno della scena musicale di appartenenza è rappresentato dal numero di persone del backstage che assistono a una loro esibizione. Per i Tragedy, siamo ai limiti della calca anche nella zona di ingresso degli artisti sul palco. Fate voi…
Pur dovendo contrastare la contemporanea apparizione sul Mainstage 2 di King Diamond e sul Temple degli Amon Amarth, abbiamo una discreta folla anche per i Tragedy, anche se si rimane ben lontani dallo stare troppo pigiati. Il combo americano, nato dall’unione di membri di His Hero Is Gone e Deathreat, non è di quelli che ami disquisire troppo e pianta i suoi lunghi artigli nella carne degli ascoltatori con la spietatezza che ci aspetteremmo. Esponenti di un hardcore metallizzato color pece, i quattro paleserebbero su disco (uso il condizionale perché non ho sentito nulla prima del concerto) spunti melodici e interessanti variazioni ritmiche. Sarà, ma dal vivo qualsivoglia suggestione che esuli da un serrato martirio apocalittico non ha modo di segnalarsi, lo spartito prevede un accanimento terapeutico nel nome di volumi insostenibili e una crescente sensazione di distruzione e malessere. Non che i Tragedy, all’interno del loro raggio d’azione, se segnalino per la poca fantasia, ma questa è incanalata sempre e comunque in una colonna sonora da fine dei giorni. Una doppia voce da orco impazzito fa il bello e il cattivo tempo in mezzo allo sconquassamento crust/d-beat ipervitaminizzato addobbato da riff grevi, tossici e fulminei e da un batterista dal tocco oltremodo pesante e indiavolato. Le pause sono poche, i dialoghi pure, i Tragedy sono l’apoteosi del nichilismo punk trasposto nell’età moderna. Un’ora densissima quella che ci hanno offerto, il quartetto originario di Memphis ci ha segnato nel profondo.