Rompeprop
Altar, 11.40 – 12.10
Lallallallà, eh!!! Lallallallà, eh!!! Lallallallà, eh!!!
Niente effetto Shining (il film), tranquilli, è solo l’intro a ritmo di polka scelto dai Rompeprop per introdurre il loro macilento e sarcastico groovy mid-paced grind. Sono un trio di buontemponi questi tre olandesi, prototipo dell’ensemble porno-grind tutto divertimento, escatologia, sesso estremo e cattivo gusto. Il cantante/chitarrista Dirty Dr. Dente è agghindato con tuta da lavoro arancione e sangue finto dappertutto, il bassista è travestito con un costume da scheletro che non lascia scoperto un centimetro di corpo. Pittoresco anche il basso, che riproduce due gambe femminee deliziosamente divaricate. Per ravvivare ulteriormente l’atmosfera, vengono lanciati alcuni gonfiabili da spiaggia, che in men che non si dica diventano sporchissimi, causa il fango presente copiosamente dinanzi all’Altar. E’ un attimo trovarsi con la schiena e le spalle tutte lerce… Passando alla musica, i Nostri dilettano e si dilettano con un bel polpettone di grind-death prevalentemente cadenzato, dal suond pieno e putrido; la voce è impastoiata all’ennesima potenza grazie a filtri vocali molto spinti, che contribuiscono a modellare un cantato decisamente animalesco e inintelligibile. Siamo alle prime battute della seconda giornata ma c’è già chi ha voglia di pogare, aiuta molto nel coinvolgimento la semplicità di tutti i pezzi e l’attitudine very easy del trio, che si porta a casa una mezz’oretta di verace demenza death, condita di frattaglie, decisamente ben accolta dall’audience.
Oranssi Pazuzu
Temple, 12.15 – 12.45
A vederli durante le ultime fasi del soundcheck, facce pallide e abbastanza disinteressate, lo sguardo apatico, gli Oranssi Pazuzu non appaiono eccessivamente stimolanti; se la musica si intona alla loro apparenza dimessa, stiamo freschi. Orbene, non saranno dei mostri quanto a carisma, non avranno molto idea di cosa debbano fare per accattivarsi il pubblico, però dal lato prettamente musicale i finnici dimostrano idee assolutamente non convenzionali e una esecuzione precisa e raffinata. Il tastierista EviL è il principale responsabile delle divagazioni spaziali del combo, attratto dall’astrattismo della psichedelia senza perdersi nell’avanguardismo tout-court; il riffing confuso e minimale del black si rifà alla dimensione nuda e cruda della musica della nera fiamma, è lacerante, gelido. Si ha un vero amalgama tra metal estremo e psichedelica, i due mondi non contrastano nella musica degli Oranssi Pazuzu, che sopperiscono all’immobilismo fisico con una musicalità sofisticata, intrigante a un primo ascolto anche se tutt’altro che immediata. Il loro è un set da ascolto rapito, non certo da mosh, ma per chi ha avuto la pazienza e la concentrazione di entrare nel mondo desolato in cui gli Oranssi Pazuzu hanno dimora è stata sicuramente un’esperienza appagante.
Amenra
Valley, 12.50 – 13.30
E’ già tempo di ributtarsi sotto il Valley, per farci impartire una somma lezione di doom di ultima generazione. Gli Amenra sono belgi, non hanno avuto finora una grande esposizione, nonostante siano in giro dal 2003 e abbiano pubblicato tre album, oltre a innumerevoli ep, ma se sono qui c’è un motivo. Lo capiamo nel giro di pochi minuti, quelli necessari a farsi avviluppare dall’abbraccio incombente e soffocante del loro doom pachidermico, ossessivo, a dir poco sfibrante e sfigurato dall’ottimo cantato hardcore di Colin H. Vandekerckhove. Gli umori del gruppo sono variopinti, seppure colmi di malessere, le digressioni in stile post-core, con progressioni e aperture non dico “celestiali”, ma leggermente rasserenanti sì, complicano il discorso e lo rendono ancora più intrigante. La tensione è palpabile, mantenuta alta oltre che dall’energia con cui viene affrontato il set dall’immedesimazione del singer con il mood dei pezzi; la sua figura emana sofferenza, la partecipazione emotiva lo sfinisce, non sono rari i momenti in cui si inginocchia e sembra cadere in subitanea depressone, prima di riprendersi e gridare la propria rabbia al mondo. Dando rigorosamente di spalle al pubblico e mostrando la croce gigantesca tatuata sulla schiena, il nostro eroe passa l’intero concerto in questo stato di prostrazione, dalla quale esce giusto quando la musica cessa di fuoriuscire dalle casse. Gli Amenra si sono sicuramente creati un buon nugolo di nuovi fans oggi, l’interpretazione moderna e sperimentale che danno al doom ha affascinato molte persone accorse al Valley per mera curiosità. I fans consolidati, invece, avranno visto materializzarsi ancora più vividi i film mentali che si erano fatti ascoltando gli album.
Steel Panther
Mainstage 1, 13.35 – 14.15
Fa quasi strano trovarsi a vedere un concerto alla luce del sole, visto che finora ho frequentato solo ed esclusivamente i tendoni. E’ ora di seguire con vivo interesse quei quattro loschi figuri che hanno rinverdito, finalmente con ampi riscontri di pubblico, le patinate sonorità hair metal, da troppo tempo confinate in un angolino dello scenario metallico internazionale. Gli Steel Panther amplificano a dismisura, fino a una simpatica indecenza/insolenza, lo stereotipo della rock band tutta sesso, droga e party selvaggi, oltre che agghindata con trucco pesante e abiti vistosi che fanno a pugni in faccia fra loro. Testiamo, dolentemente, i suoni fiacchi del Mainstage 1, che oltre a volumi non soddisfacenti si fanno criticare per una eccessiva pulizia e uno sbilanciamento a favore della batteria, a danno di tutto il resto. Pur zavorrati di queste problematiche, i glamsters californiani convincono facilmente grazie a una cafona disinvoltura e una spavalda sicurezza dei propri mezzi, che gli consente di far sculettare prime file, e non solo, sugli anthem dei due dischi pubblicati finora con irrisoria facilità. Le somiglianze con i migliori Motley Crue non sfioriscono nel plagio, grazie al cielo, e il livello delle canzoni, degli assoli e delle vocals è degno di un gruppo che merita di sfondare e di non rimanere in una pur apprezzabile dimensione underground. Fra brani ritmati e schitarrate metalliche, con un’occhiata di riguardo alle melodie da alto e universale gradimento, i Nostri divertono molto, anche se il voler essere personaggi a tutti i costi li porta a perdere troppi minuti tra un pezzo e l’altro. Il chitarrista Satchel fa il Joey Di Maio del glam imbastendo assurdi discorsi sessuali e festaioli, coadiuvato dal singer Michael Starr, mentre il bassista Lexxi Foxx non perde occasione nelle pause per tirar fuori ombretto e specchietto e dare una rinfrescata al trucco. Passando sopra a questi intermezzi troppo prolungati, rimangono belle canzoni come “17 Girls In A Row” e “Just Like Tiger Woods”, dedicata al maestro di vita Tiger Woods, idolo moderno di chi vorrebbe fare la bella vita scopando a destra e a manca le meglio fighe della piazza, affogando nel contempo in un oceano di denaro.
Big Business
Valley, 14.20 – 15.10
Due terzi dei Big Business sono stati arruolati negli ultimi anni nella line-up dei Melvins. Chissà come mai… La risposta ce l’abbiamo davanti nel primo pomeriggio di questa mite giornata di Hellfest, e devo dire che i 50, pulsanti, minuti di pastoso sound sudista, corposo e melmoso, spezzettato e punkeggiante, con protagonisti questi tre diavolacci hanno detto molto della statura musicale del combo. L’imprevedibilità e la mutevolezza dello spartito sono degni dei primi Mastodon, il riffing ha parentele abbastanza strette, e non poteva essere diversamente, coi Melvins del periodo Houdini, ma la vena sporca e avvinazzata della maggior parte dei brani non ha paragoni; ha un sentimento southern rock affogato in fonderia e sporcato dalle sponde del Mississippi, che viaggia a braccetto con spigolosità, scatti e deviazioni improvvise che fanno dei Big Business dei mostri nello scrivere musica invasata e imbizzarrita ma con un occhio di riguardo alla forma canzone. Il bassista/chitarrista Jared Warren è un animale da palco a metà strada fra King Buzzo (per il gigantesco cespuglio di riccioli) e uno a scelta fra Troy Sanders e Brent Hinds dei Mastodon (il clochard-style è similare), ha un vocione stoner/sludge dal timbro piuttosto personale e ha tutto per diventare una piccola-grande icona underground, quale antipersonaggio di grande talento e zero cura per l’immagine. Scott Martin è un signor chitarrista, dal tocco heavy e imbottito di grassi saturi, anche se il motore del gruppo è il drummer Coady Willis, che crea uragani percussivi su un set ridotto ai minimi termini. Caldissimi, rumorosi, super groovy, i Big Business hanno fatto sfaceli; parafrasando il loro nome, è stato un grande affare presenziare al concerto di questi tre esagitati, in assoluto uno dei vertici di questa edizione dell’Hellfest.
October File
Warzone, 15.15 – 16.00
Gli organizzatori, prima di decidere dove piazzare gli October File, avranno tirato a testa e croce: potevano metterli sul Valley come sul Warzone, e sia in un caso che nell’altro non sarebbero stati fuori tema. Descritti nel libretto del festival come “postcore/post-punk/industrial”, in effetti questi inglesi sfuggono alle definizioni e rappresentano l’ennesimo oggetto sgusciante da dogmi e imposizioni stilistiche in scena all’Hellfest 2012. Diciamo subito che una descrizione tipo quella di cui sopra non deve far pensare a un gruppo di intellettuali ipertecnici, piuttosto a un camaleontico ensemble predatorio. Dell’industrial prendono le venature disturbate delle chitarre, attraversate da scariche elettriche insostenibili, del punk l’essenzialità del messaggio, il post-qualcosa li riguarda non tanto, o non solo, per il suono, quanto piuttosto per la sensazione sottile, quasi impalpabile, che vadano oltre sia all’hardcore che al punk, per buttarsi in ambientazioni musicali poco esplorate. Questa stranezza te la schiaffano addosso con una grande carica e l’impeto di chi ti vuole convincere e soggiogare, portarti dalla sua parte e avvincerti fino a farti perdere la testa. Il cantante è una bestia inferocita degna del punk/hardcore più selvaggio, è un trascinatore sia per movenze che per forza vocale; gli altri sanno stare in scena come si deve, pur non abbandonandosi a istinti belluini al pari del singer non stanno in disparte e si danno da fare per coinvolgere oltre che suonare, molto bene, le loro parti. Pur non raccogliendo adunate oceaniche e non godendo di masse adoranti come altri gruppi apparsi sul Warzone e altrove ci si dà battaglia anche per gli October File, con tanto di wall of death e alcuni minuti di discreto circle-pit. Concerto soddisfacente su tutta la linea ed ennesima realtà da andare a conoscere in maniera precisa e puntuale.
Ufomammut
Valley, 16.05 – 16.55
Sventola il tricolore per la prima volta sui palchi dell’Hellfest, succederà altre due volte il giorno successivo, coi Forgotten Tomb e gli Hour Of Penance, ma direi che i più attesi, data l’assoluta atipicità della proposta, sono i tre di Tortona. Conosciuti da pochi in Italia, idolatrati nel circuito underground nel resto del globo, tanto da diventare il supporter act del tour europeo dei Neurosis nell’estate 2011 e riuscire a pubblicare il recente “Oro: Opus Primum” per la Neurot, etichetta di proprietà dei Neurosis stessi. Il tendone del Valley ribolle di misticismo e attenzione al dettaglio quasi morbosa, necessaria per entrare in piena sintonia con quanto arriva dalle casse. Gli Ufomammut sono più di un metal act, sono un’esperienza sensoriale, stimolano udito e vista facendogli compiere un viaggio misterioso di cui non si percepiscono i limiti. Il succedersi di immagini femminili barocche, complicate, altere e coloratissime, ispirate allo strepitoso artwork dell’ultimo disco e intersecate a spirali e altre figure evocative si amalgama a fiumi sonori monumentali, patrimonio esclusivo di queste tre geniacci. I pezzi partono dal nulla, all’inizio sembrano minimali e soffusi, ma poi crescono, si ingrossano, subiscono il trattamento punitivo della chitarra annichilente di Poia, così distorta da farti veramente tremare le viscere (non è detto tanto per dire, succede sul serio…). La batteria è solenne e definitiva, il tocco del destino che non ti lascia scelta e ti assoggetta ai suoi voleri; e poi la voce, usata come effetto, strumento tra gli strumenti, lontana dal normale modus operandi delle lead vocals. Un concerto degli Ufommamut trascende la normale esperienza concertistica, i Nostri si assimilano, si introiettano, non si può solo “sentirli”. Il pubblico è, senza esagerazioni, in tripudio per questa performance così dura, solenne e singolare, anche chi fatica a digerire coordinate stilistiche tanto criptiche non può che ammettere, al di là dei gusti personali, l’unicità e la grandezza del combo. Quel che riescono a comunicare questi ragazzi con la loro musica è incredibile, siamo nel campo nella vera arte, senza distinzioni di genere. I musicisti, concentrati e rapiti da quanto suonato per l’intero set, si lasciano andare giusto alla fine, di fronte a una folla plaudente notiamo la soddisfazione e l’orgoglio, quasi l’esultanza, comunque misurata, per essere stati apprezzati e, diciamolo pure, coccolati da fans competenti che gli hanno tributato i giusti onori. Bravissimi.
Cancer Bats
Warzone, 17.00 – 17.50
Per quelli che si sono rotti il cazzo di vecchie glorie e reunion di anziani tenuti insieme con pancera e tinte assurde, e vogliono qualche giovane coi coglioni fumanti e una voglia incontenibile di spaccare il mondo in quattro parti e poi di ridurlo in poltiglia meticolosamente, pezzettino per pezzettino, al momento c’è un nome su tutti che mi viene in mente: Cancer Bats. Segnatevelo se ci tenete a provare quel brivido lungo la schiena che solo le band da adorare vi fanno provare, quelle che vivete di cuore e di pancia molto prima che di testa e di raziocinio. Non ce n’è, se si desidera andare a colpo sicuro su un gruppo tutto adrenalina, rivolta, riff assassini e dinamismo da sballo, gli autori del freschissimo “Dead Set On Living” sono il must del 2012. Pensare che stavo per prendermi una pausa, staccare un attimo dopo una prima parte di giornata tiratissima: che errore sarebbe stato!
Entriamo nel Warzone pochi secondi dopo l’attacco del primo brano, e notiamo con sorpresa la quantità di gente accorsa per una band che non pensavo fosse già così adorata fuori dai sonnacchiosi confini italioti. In tre minuti di canzone, la prima, (non li ho contati, ma la lunghezza delle tracce dei Cancer Bats più o meno quella è) ti rendi conto di avere davanti musicisti nel pieno del vigore, in ascesa irrefrenabile, affamati di martirio e di gloria, da conquistare a spintoni, spallate, urla e mazzate. Groove, tempi medi tesissimi, ripartenze trascinanti e duetti vocali da sommossa urbana, condotti con encomiabile foga dalla gola in fiamme di Liam Cormier e dal non meno bastardo bassista Jaye R. Schwarzer: un delizioso macello. L’unità di intenti dei quattro è quella delle stelle assolute, ti stendono con niente e ti fanno godere come un mandrillo, mai domi neanche nelle soste tra un pezzo e il successivo. Crusters, punkettoni, thrashers, sono tutti coesi nel tributarsi botte da orbi in onore di uno dei più grandi spettacoli live che l’hardcore sappia oggi offrire. Qui, ora, in quest’anno bacato, il modo migliore per annegare ogni tensione e frustrazione in un mare di trivialità belligerante si chiama Cancer Bats. Francamente stellari.
Sebastian Bach
Mainstage 1, 18.50 – 19.40
Dal delirio al disastro, il passo è breve quando ti si para davanti la fotografia malamente ingiallita di un ex grande cantante quale è oggi Sebastian Bach. Ora, io al ragazzone che faceva andare in brodo di giuggiole negli anni ’80 e ha fatto (e fa bagnare) tante signorine più o meno giovani, le attenuanti del caso e una certa indulgenza gliele avevo concesse in abbondanza prima del concerto. Era utopistico aspettarsi la dirompenza e le note alte, sicure, dei suoi vent’anni, però sulla dignità e il decoro non transigo. Accetto una compita e discreta decadenza, non il debosciamento assoluto. Partiamo male con una “Slave To The Grind” che inizio a riconoscere a metà canzone, mentre mi pare evidente, vedendo il singer per la prima parte dal vivo, che Photoshop e trucco pesante abbiano contribuito moltissimo a mantenerne la fama di belloccio impossibile, una volta sfiorita la prestanza giovanile.
Il ragazzo ce la mette tutta, per carità, fa volteggiare pericolosamente il microfono sopra la sua testa, corre di qua e di là per stare vicino al suo pubblico, ma fatica terribilmente su tutte le note, anche quelle semplici, figuriamoci come becca male quelle alte. Se alla prima canzone uno pensa che debba scaldare la voce, mano a mano che il concerto entra nel vivo la situazione si fa ancora più sconcertante: “Piece Of Me”, “Big Guns”, “Here I Am” sono abbruttite in maniera criminale, orrendamente stuprate, non accendono neanche per un secondo la scintilla di passione che chi le conosce vorrebbe sentire ardere senza controllo nel proprio corpo. Non ci siamo, proprio no. Anche la natura solista del progetto, con gli altri musicisti timidamente nelle retrovie a svolgere il compitino, privi di carisma e nerbo, come se stessero lavando una macchina invece che suonare di fronte a migliaia di persone, fa venire i nervi. Rimango dove sono e non mi allontano nella speranza che Sebastian Bach si inventi qualcosa, ritrovi magicamente la voce e mi faccia vivere cinque minuti alla Skid Row, ma la speranza è vana. “Monkey Business” è moscia e cantata debolmente, modello micino con la raucedine, neanche la splendida ballad “I Remember You” lascia il segno, e quando su “Youth Gonna Wild” inizia a far cantare il pubblico non resisto più e mi allontano, sentendo il finale, strozzato e affaticato, intanto che mi incammino verso il rassicurante tendone del Valley. Sebastian, ritirati che è meglio…
Yob
Valley, 19.45 – 20.45
E’ di nuovo tempo di annegare in sabbie mobili dense, scure, nelle quali sei impastoiato un poco alla volta, senza fretta, e finisci per esserne coperto inesorabilmente, al termine di una lotta dura e senza speranza. Gli Yob sono a grandi linee questo, o se preferite un buco nero di note enormi e infinite, grevi e manipolate, poste in spossante successione per sotterrare ogni cosa. Il dinamismo è un termine misconosciuto per il trio dell’Oregon, un combo che sventra sadicamente gli strumenti per far collidere in un’unica esplosione riff giganteschi, basso scava viscere e batteria modello martello di Thor. Una detonazione che si amplifica nella sua tempestosa reiterazione e nell’inquinamento subito dal sapore psichedelico, tagliato male e fortissimo, che spezia le travagliate composizioni dei Nostri. I minutaggi dei pezzi sono elevatissimi, dire che prendono per stanchezza potrebbe parere offensivo e denigratorio, ma è invece un complimento, perché l’ampliamento esagerato delle misure è quello che fa la differenza. E’ una musica che deve scorrere quella degli Yob, non va intrappolata, deve essere lasciata andare per la sua strada; l’obliquità e la stranezza della proposta, che la fanno assomigliare sia a quella di un canonico ensemble doom che a quella di freak in preda agli acidi e a smodate jam session, è sottolineata dalla voce alienata, super effettata, del cantante/chitarrista Mike Scheidt, un perfetto stregone per stile chitarristico, vocale e parvenze fisiche. Con gli Yob si perde la cognizione del tempo, tanto si è intrappolati nell’aspra melassa doomeggiante che promulgano, e si finisce per rimanere inebetiti, oltre che meravigliati, di fronte a tanta estremizzazione del concetto di lentezza e all’estensione all’infinito delle canzoni. Se volete del contorno alla musica, avrete solo i ringraziamenti in voce filtrata di Scheidt e l’ondeggiare monotono del batterista Travis Foster e del bassista Aaron Rieseberg mentre spremono come limoni i rispettivi strumenti. Se non siete tra quelli che vanno di fretta e la leggerezza vi ripugna, gli Yob fanno al caso vostro.
In Extremo
Temple, 20.50 – 21.40
Sotto l’impianto luci a forma di croce rovesciata va in scena lo spettacolo folk metal degli In Extremo, carichi a mille nonostante non siano davanti alle consuete folle oceaniche teutoniche. I Nostri si presentano al solito bardati con costumi d’epoca e a torso nudo e mettono in pista tutto l’armamentario strumentale che li caratterizza: cornamuse, bombarde, tamburelli, uno strano alambicco fiammeggiante posto da un lato del palco a forma di ruota e con fiammelle alle estremità, arpe medievali. Il compendio di strani aggeggi utilizzato stimola la vista ancora prima delle orecchie e trasporta nella dimensione temporale prediletta dagli In Extremo. La performance è quasi da consumati attori piuttosto che da musicisti, il modo in cui tutti quanti si muovono on-stage è studiato nei dettagli, nulla viene lasciato al caso. L’effetto complessivo è quello di una rappresentazione artistica che va al di là del lato musicale, facendo sembrare il concerto la messinscena di giullari in una festa del villaggio di tanto secoli orsono. Ogni pezzo è contraddistinto da arrangiamenti ad hoc, che ingentiliscono trame virili anche se danzanti e da saltello incessante; le chitarre sono diventate nel tempo dei rigorosi schiacciasassi alla Rammstein, il perfetto settaggio dei suoni le fa esplodere roboanti, senza che risultino eccessivamente schiaccianti e fuori contesto. Non importa che i testi siano in tedesco, in un modo o nell’altro l’invito a cantare viene accolto con passione dai fans, accorsi in massa sotto il Temple. Per gli In Extremo è una giornata decisamente positiva, anche la Francia non si è sottratta al gioioso abbraccio con il loro folk metal medievaleggiante.
Saint Vitus
Valley, 21.45 – 22.45
“Why Do I Scream At Them, They Never Listen?” recita lamentoso Wino all’inizio di “Let Them Fall”. All’Hellfest qualcuno che ascolta c’è, anzi, una platea adorante è pervenuta ad assistere alla miracolosa seconda giovinezza dei bikers di L.A.. Dalla reunion del 2009 in avanti i Saint Vitus percorrono una strada lastricata d’oro, chi li ha visti in questi anni si è lustrato occhi e orecchie dinnanzi a un concentrato di lascivia, tossicità e alienazione senza pari in ambito doom classico. Il miracolo si compie anche stasera, con Wino abbarbicato, ciondolante, dietro il microfono, in bilico tra realtà e viaggi allucinogeni, Mark Adams sfinge alla sua sinistra e Chandler mattatore assoluto, agitatore di folle, annunciatore di sventure e dispensatore di distorsioni esagerate. La golosissima scaletta data in pasto agli scalmanati davanti a loro ha da offrire la goduriosa novità dei pezzi di “Lillie: F-65”, passato al setaccio praticamente al completo. Le nuove composizione rendono benissimo, suonano ancora più esplosive e dannate che nelle versioni in studio e non sfigurano al cospetto dei grandi classici. “Bleeding Ground”, “Blessed Night”, “Let Them Fall” fanno sprofondare nell’amarezza i presenti, siamo letteralmente dominati dal tocco malato del duo Chandler – Wino, stasera ispirati e immersi nella propria musica da diventare tutt’uno con essa. Il barbuto chitarrista tra un riff e l’altro canta rabbioso e si rivolge al pubblico col viso sconvolto dalle emozioni mosse dalle note, prendendosi anche più attenzioni del singer. Wino va in trance, si abbandona al caldo abbraccio dei pezzi, non perde una linea vocale che sia una, comunicando vero malessere e disagio esistenziale. Il top ovviamente è rappresentato dal solismo spericolato, estroverso, tracimante per gusto, follia e devianza di Chandler; il suo strumento parla, non suona. Dave lo maneggia con foga, ci mette tutto se stesso, fa fuoriuscire da esso ogni energia.
I Saint Vitus dal vivo sono perfetti, pura estasi doom; come recita il cavallo di battaglia “Born Too Late” posto in chiusura, “I’ll Never Be Like You”: no, i Saint Vitus non saranno mai come nessun altro.
Darkest Hour
Warzone, 22.50 – 23.50
Alla faccia del gruppo deathcore! Sotto questa nomea vengono presentati i Darkest Hour, band americana di lungo corso (in giro dal 1995) ma non esattamente di successo dalle nostre parti. La definizione del loro sul libretto del festival è veritiera per quanto riguarda l’asciutta interpretazione del termine deathcore, ma diventa erronea se confrontata a quel che normalmente si intende quando si pensa ad act del medesimo genere. Niente breakdown tronfi, niente voci brutal né chitarre iper-sature, sboronate tecniche e assidua ricerca del groove. Il death di origine dei Darekst Hour è lo swedish coniugato al melodico di metà nineties, l’hardcore ci entra alla stessa maniera in cui si è insinuato nel sound degli In Flames da “Reroute To Remains” in poi. Differenza fondamentale coi combo di Anders Friden, la totale assenza di voci pulite e la minore propensione a insistere sulla melodia.
Per farla breve, è il classico death melodico di quindici anni fa con un bel taglio hardcore che ne aumenta l’incisività. Quel che manca in originalità viene ampiamente compensato dal tiro di ogni singolo brano, con ogni canzone perfettamente bilanciata tra velocità percussiva, chorus di facile presa ma senza concessioni al sing-a-long e velata attitudine “core”. I ragazzi spaccano, vanno giù di sciabola e randello, asciutti nell’esecuzione, coinvolti in quello che stanno facendo e vogliosi di soddisfare fans di lunga data e nuovi adepti. Qualche mid-tempo groovy dà quel pizzico di varietà che vivacizza ulteriormente la set-list in mezzo a una selva di canzoni piuttosto frenetiche.
Il tempo a disposizione scorre in un batter d’occhio, degno antipasto dei pezzi da novanta (Refused) che di qui a un’oretta faranno tremare Clisson.
The Devil’s Blood
Valley, 23.55 – 00.55
E’ inarrestabile l’ascesa dei The Devil’s Blood, assurti a stella di prima grandezza nel giro di un triennio, quello che separa l’esordio “The Time Of No Time Evermore” e questa apparizione da headliner del secondo giorno sul Valley. Un’ascesa tanto rapida è assolutamente meritata alla luce dello spessore artistico dei dischi, dell’autorevolezza nel contesto live e dell’alone ambiguo che permea il sestetto. Avendoli visti all’opera il dicembre scorso dalle nostre parti, sappiamo cosa aspettarci, in positivo, dal combo, che per l’occasione allestisce il palco con molta cura, predisponendo una specie di tendaggio rosso e nero ai lati della batteria, per tutta la larghezza dello stage, e il caratteristico altarino con teschio d’animale a centro stage. La scelta di non avvalersi dal vivo di un tastierista è rischiosa, visto quanto le keyboards dai suoni vintage incidono nell’economia dei pezzi, ma in questo modo la resa è marcatamente più metallica e non si perde in ogni caso l’aura mistica ed esoterica. Le tre chitarre fanno sfracelli, incrociano le lame in riff stentorei e melodie ariose eppure tese, portatrici di una sottile minaccia, legata agli strani rituali magici che la cantante Farida, da un momento all’altro, sembrerebbe poter compiere. Invece canta e basta, col trasporto di una pagana cerimonia religiosa, mantenendo lo stesso inarrivabile lirismo degli album. Non ci sono dialoghi, incitamenti o pause di alcun tipo a interrompere lo scorrere incessante della musica, i sei musicisti non concedono interazioni e sono allergici al silenzio, perché come l’altra volta che li abbiamo visti non c’è alcuno stacco tra le canzoni, cucite l’una alla seguente senza un secondo di separazione, come se già in partenza la proposta consistesse di un’unica suite suddivisa in varie sezioni. Le derive psichedeliche e i frangenti più abbordabili di stampo hard rock fanno una magnifica figura, “She”, “On The Wings Of Gloria”, “Fire Burning” sono già dei classici, ripieni di un esoterismo e di una poesia maligna che in pochi sanno evocare con la medesima maestria degli olandesi. L’effetto sul pubblico, con tali mostri all’opera, è quello di un ipnotizzamento generale, soprattutto per chi li vede all’opera per la prima volta, mentre gli altri si lasciano andare sulle parti più accese. I The Devil’s Blood non cadono alla prova del nove, semmai rilanciano ulteriormente la posta in palio, candidandosi a non rimanere una semplice meteora. Durante la lunga e inebriante suite conclusiva però li dobbiamo lasciare, giusto qualche minuto prima che finiscano il set, perché incombe l’evento nell’evento, la reunion dei Refused, e il rischio di rimanere ai margini del Warzone è davvero alto.
Refused
Warzone, 01.00 – 02.00
L’ora fatidica sta per scoccare, e sono in molti ad essersene accorti, ad aver capito che non si stava per assistere a un semplice concerto, uno show di routine in mezzo a decine d’altri. No, qui si stava per assaporare l’ebbrezza del ritorno di vere leggende, quattro ragazzi che hanno lasciato un marchio profondo sulla pelle, nel cuore, nella testa di almeno un paio di generazioni di ascoltatori dai gusti musicali aperti, coraggiosi e desiderosi di essere stimolati da qualcosa di non convenzionale e geniale. I Refused sono stati la loro band, coloro che hanno ridefinito le coordinate del punk-hardcore mutandone i connotati dall’interno, amplificandone le possibilità espressive fino a creare la esaltante tracklist di “The Shape Of Punk To Come”. Il Warzone è una bolgia quando vi entriamo, in qualche maniera prendiamo posto poco avanti il mixer, andare oltre è improponibile, a meno di non rischiare la rissa per ogni centimetro di avanzamento. Quando i quattro compaiono, magri e pallidi, vestiti da bravi ragazzi che stanno andando a prendere l’aperitivo con gli amici, e attaccano “Worms Of The Senses/Faculties Of The Skull”, tutta la voglia repressa di urlare, dimenarsi, perdere la testa per canzoni troppo a lungo non udite live deflagra in un uragano di corpi che si scontrano gioiosi e inebriati, in completa estasi. Non c’è ruggine a frenare il gruppo svedese, presentatosi al tour di reunion in condizioni splendide, un meccanismo funzionante al meglio come negli ’90. A incanalare ogni attenzione è il biondo singer Dennis Lyxzén, che si muove sinuoso ed elastico per il palco compiendo una serie di mosse da ballerino e da campione di arti marziali, scivolando coi piedi in un moonwalk pazzesco alla Michael Jackson e azzardando una capriola pericolosissima, da cui esce fortunatamente indenne. Il concerto è un highlight continuo, ogni tassello della set-list è vissuto con pathos incredibile dalla band, che appare indiavolata e presa come solo un ensemble allo zenith della carriera può essere, e dal pubblico, arrivato preparato e carichissimo all’appuntamento, consapevole che andava vissuto al massimo. “The Shape Of Punk To Come” la fa ovviamente da padrone, dal capolavoro del 1998 viene estratta la parte preponderante delle canzoni, introdotte dai discorsi politicizzati di Dennis, che arringa ulteriormente, anche se non ce ne sarebbe bisogno, la folla. “Liberation Frequency”, “Deadly Rhythm”, “Rather Be Dead” (introdotta da una invettiva contro il sistema politico europeo e da un diretto riferimento alla crisi economica in Grecia, Spagna e Italia) sono bombe a mano in un mare di petrolio, ogni minuto è vissuto come se non ci fosse un domani, l’apice probabilmente lo si tocca in “New Noise” e “Refused Party Program”, ma in serate come queste parlare di perfezione è fin limitativo. La finezza, la perizia e il sentimento che ci mettono i quattro di Umea nel riproporci il loro repertorio li manda dritti nella Storia concertistica di questo millennio, per quella che rischia di essere la reunion dall’impatto più sconvolgente tra quelle avvenute nella musica alternativa. REFUSED ARE NOT FUCKING DEAD!!!