E rieccoci, di nuovo nel posto dei sogni, qui dove si comprime in tre giorni estenuanti e inebrianti un enorme ed esaustivo spaccato del mondo metal, hard rock e hardcore contemporaneo. Mesi passati a scorrere col fiato mozzato il bill e un’incredulità per nulla facile da scrollarsi di dosso al pensiero di poter vivere di nuovo un’esperienza tanto esaltante cedono il passo alla consapevolezza di essere giunti un’altra volta ai cancelli del Paradiso, e che il festival si chiami Hellfest è una logica conseguenza, non un ossimoro. Lo scenario fisico che accoglierà i nostri corpi, pronti a farsi trasmutare in una entità astratta di pura impetuosità fuori controllo, dati gli stimoli esagerati a cui la mente sarà sottoposta e sovraesposta, è identico a quello dell’anno passato, le installazioni dei palchi hanno visto un significativo e doveroso allargamento del Valley, la cui capienza sarà saturata per alcuni pesi massimi, e lo spostamento, invero infelice, del Warzone in uno spazio all’aperto leggermente distaccato dal cuore dell’area concerti. Al suo posto gli stand per il cibo, concentrati in un’unica zona, mentre per lo sbevazzamento a scopo reintegrativo e da stordimento alcolico sono posti stand in vari angoli dell’area. Completano il quadro banchi del merchandising presi d’assalto fin dall’apertura porte del primo giorno, toilets in discreto numero ma spesso esautorate del loro ruolo a favore di uno spisciacchiare a cielo aperto nelle aree periferiche, il che ha creato una certa fragranza d’urea ai margini del boschetto adiacente all’extreme market e nelle vicinanze dei palchi. A chi inorridirà a tale descrizioni, direi di non fare troppo lo schizzinoso, perché all’Hellfest tutto è lecito pur di guadagnare qualche minuto per arrivare a bordo palco in tempo. Completa il quadro l’extreme market, zeppo di ogni ben di dio, dall’abbigliamento, alle serigrafie, a corni, cinture, magliette da straculto e di raro genio e ovviamente una caterva di materiale discografico di ogni specie e natura, con frutti proibiti pronti per essere colti per la gioia della nostra fame musicale appagata e per il dispiacere di un portafogli già provato da costi di trasferta e di sopravvivenza festivaliera. Cielo plumbeo, vento freddino e insistente, temperature non proprio estive sono consueti da queste parti, e quindi non ce ne stupiamo, proviamo giusto quella sottile tensione di chi spera che non pioverà ma ha la quasi certezza che accadrà. E ora, una disamina di quello che ci ha fatto orgasmare nel santo trittico 21-22-23 giugno 2013. GO!!!!!!!!!!
THE GREAT OLD ONES
TEMPLE
10.30 – 11.00
10.30 del mattino, è ora di iniziare il nostro lungo viaggio. Ci riscaldiamo con la proposta dei The Great Old Ones, descritti nel programma ufficiale come un tipico gruppo di black evoluto che piace assai di questi tempi, ossia un po’ introspettivo, malinconico e in flirt col post metal. Descrizione calzante, i ragazzi si immedesimano nella parte fin dall’approccio misurato al pubblico, tipico di musicisti post-quello che avete in mente, poco propensi a mettersi in mostra e a dare un’immagine forte di sé. Parla quindi solo la musica, leggermente penalizzata da volumi leggermente più bassi di quelli che avremo nel resto del festival su questo palco, e da chitarre non abbastanza rigonfie. Sui lidi prettamente artistici e di resa dei pezzi, i cinque funzionano dignitosamente, pur non lanciando stilettate al cuore. Gli alti e bassi, i vuoti e i pieni del post metal si anneriscono nelle sezioni ad alti bpm, invero un po’ monocordi, assumono coloriture blu scuro e violacee nelle fasi d’atmosfera, meglio calibrate seppure nemmeno queste così vibranti come dovrebbero essere per fare veramente la differenza. Ad ogni modo, il gruppo francese nel complesso non si fa affatto disprezzare, denotando una buona cura delle dinamiche e una decisa coesione di tutti gli elementi in gioco, che rendono senza dubbio gradevole la mezz’ora in loro compagnia. Non rilucono di magnificenza, ma da un manipolo di musicisti con un nome così splendidamente lovecraftiano mi aspetto un futuro di discreto livello.
CAPTAIN CLEANOFF
ALTAR
11.05 – 11.35
Ad occhio e croce sono quelli che si sono smazzati più strada per essere qui. Gli aussies Captain Cleanoff sono una granata grind in arrivo dall’altro lato del pianeta, non rappresentano un nome di punta del settore ma sono tra quelli che sgomitano per salire in alto, partendo proprio da concerti cruciali come quello dell’Hellfest. Per una realtà undeground una manifestazione di questo tipo, che già in mattinata vede un folto pubblico assieparsi attorno a tutti i palchi, è manna dal cielo e un investimento sul futuro. I Nostri se la giocano bene la loro chance nella Loira, aggredendo alla gola con un riffing molto crust oriented e vocalizzi isterici e tendenti a un urlo infinito sporco e stridente, un reiterato graffio sulla lavagna in preda ad epilessia. I ragazzi non appartengono a nessun movimento atto a rivoluzionare il concetto di grind, anzi, si spingono in classiche rappresentazioni di follie metropolitane dai minutaggi stringati e dalle minime variazioni. L’impeto e la concisione convincono i presenti e assistiamo a un mosh soddisfacente per caos e numero di corpi coinvolti. I Captain Cleanoff tolgono il disturbo in leggero anticipo lasciando un retrogusto auricolare niente affatto sgradevole.
EAGLE TWIN
VALLEY
11.40 – 12.10
Due uomini e le loro ideali protesi. Detto meno critipticamente, gli Eagle Twin, costituiti da un cantante/chitarrista e da un batterista. Ah, sì, giusto, un’aquila finta in miniatura appostata sopra il drum-set. Stop. Non c’è altro sul palco. Il duo a stelle e strisce è un oggetto da culto, cresciuto spropositatamente di appeal all’interno della cerchia di adepti dello sludge/doom sperimentale, quello fieramente ostico e difficile da maneggiare anche per gli ascoltatori di lungo corso. Andando per sommi capi, si potrebbero scomodare gli Sleep per definirli, in un’ottica più greve e con ancora meno appigli a un’idea classica di canzone. La mancanza del basso non si sente, riempie ogni vuoto la chitarrona di Gentry Densley, a dir poco massiccia, un’escavatrice di dimensioni ciclopiche per intenderci, che esplora gli anfratti più cupi del suono e li distorce, li ottenebra, rende i riff extralarge e grumosi, una sorta di calcoli biliari da elefante. La batteria è rintronante, porta allo sfinimento e segue i pellegrinaggi della chitarra aggravandone le conseguenze, verso direzioni apparentemente impercorribili e senza che per lunghi minuti vi sia uno straccio di vocals a ricondurre alla retta via i pezzi. La voce ricorda il buon Kirk Windstein dei Crowbar, e nei momenti più umani anche la musica riporta alla mente i re dello sludge pessimista e malinconico della Louisiana. Onestamente quando ci sono le parti cantate gli Eagle Twin mi paiono più entusiasmanti, le lunghe digressioni con i combattimenti all’ultimo macigno tra chitarra e batteria sono spossanti, pur non privi di un certo fascino. Percepisco inoltre, in lontananza, un gusto per il southern inacidito e malsano, tipico del profondo sud americano, che il duo plasma con sadismo per portarlo in una dimensione pressoché irriconoscibile. Insieme agli Swans, l’esperienza uditiva più stramba della tre giorni.
VEKTOR
MAINSTAGE 2
12.50 – 13.30
Potremo dire: “Noi c’eravamo.” Quando tra qualche anno, spero pochi, i Vektor saranno headliner nei principali festival europei, le booking agency faranno a gomitate per metterli in cartellone e i costi dei biglietti per andarli a vedere lieviteranno oltre l’indicibile, orgogliosamente dichiareremo che alla loro prima calata europea, al primo concerto in assoluto al di qua dell’Atlantico noi ci siamo spaccati il collo insieme a loro. Dall’esordio “Black Future”, licenziato dalla piccola label Heavy Artillery, i Vektor si sono conquistati un posto di riguardo nelle discografie dei Thrashers con la T maiuscola, unico act di recente formazione a poter rivaleggiare alla pari (ripeto, alla pari…) coi pesi massimi del genere. La maggioranza delle realtà neo-thrash, alcune anche molto brave, pagano comunque dazio in qualche maniera a chi li ha indirizzati su questi suoni, e alla fine manca sempre un pizzico di inventiva,originalità, songwriting, o un qualcosa non sempre identificabile, per collocarsi tra i giganti. I Vektor no, giganti lo sono già, almeno su disco, e all’Hellfest vengono a darci la risposta definitiva sulla loro concretezza e sui piani di conquista del pianeta, da cui un live incandescente non può prescindere.
L’attesa è palpabile, non ci sono cazzi. L’hanno fomentata gli organizzatori, creando un hype ad hoc per i quattro dell’Arizona, ha rincarato la dose la band, che sul proprio profilo facebook dimostrava di non star più nella pelle per l’imminente arrivo in Europa. E poi ci sono i fan, che con un passaparola incessante per l’etere hanno portato un oscuro gruppo underground in cima alle preferenze di legioni di persone. Il coro “Vektor! Vektor!” si alza forte nel cielo pochi minuti prima dell’entrata in scena, il cielo carico di pioggia ci guarda minaccioso e gonfio d’acqua quando i ragazzi arrivano finalmente on-stage e scatenano il finimondo. Qualsiasi dubbio sulla tenuta e il controllo della situazione svanisce in un amen, ci troviamo davanti a un meccanismo perfetto, inappuntabile, a dir poco miracoloso. Definirli a parole è un conto, e già così, mettendo insieme le peripezie interstellari dei Voivod, l’iper tecnicismo di Watchtower, Toxik, Realm, Atheist, più una vena black nel cantato, uno sente subito l’acquolina in bocca; ma trovarseli davanti, e sentire che ripetono a menadito le follie del disco, beh, è tutto un altro paio di maniche. Come si usava nel thrash anni ’80, anche il più evoluto, sono le chitarre a condurre le danze, l’intersecarsi delle due asce è uno sballo impareggiabile, è talmente armoniosamente scriteriato l’arcobaleno di note che ci arrivano addosso che si fatica a pensare che in due possano suonare tutta questa roba. E se già vedere David DiSanto dividersi tra lo strumento e voce senza sbagliare un colpo è uno spettacolo, il funambolo assoluto, vero Malmsteen o Blackmore applicato al thrash, è l’altro chitarrista Erik Nelson, che mette assieme un’alluvione di scale difficilissime su un impianto graniticamente thrash, in un modo mai sentito prima. Viene voglia di mettersi a urlare come pazzi per lo stupore, la gioia di vedersi realizzare una così rigogliosa manifestazione di supremazia, e infatti di gente ferma in giro se ne vede pochina. I ragazzi, visibilmente emozionati e appagati dal vedere una reazione così benevola nei propri confronti, non risparmiano elogi e ringraziamenti all’audience, e lasciano il campo in un vero tripudio. Arriveranno altri concerti, altri bagni di folla, ma questo era una primizia assoluta, ed è stata davvero magnifica.
HOODED MENACE
ALTAR
13.35 – 14.15
Se appena finito di vedere i Vektor vi portano ad ammirare, in un tempo poco più lungo di qualche battito di ciglia, un gruppo death/doom, la sensazione di vertigine e simil ubriachezza potrà sovvenire abbastanza facilmente. Dai viaggi astrali superando il propagarsi della luce alle sabbie mobili assolute dei finlandesi Hooded Menace, all’Hellfest capita anche questo e devo dire che il contrasto nei primi minuti mi ha provocato un leggero stordimento. Ritrovata la terra sotto i piedi, sono entrato a capo chino e sopportando un gravoso fardello sotto le volte umide di un asfittico castello di note, quelle pesanti come macigni e inamovibili di Lasse Pyykkö e compagni, dalla line-up rivoluzionata per venire incontro alle esigenze dei live. Il mastermind abbandona infatti il microfono e lo consegna al nuovo entrato e musicista di lungo corso della scena finnica Markus Makkonen, impegnato anche al basso. Il suo growl non differisce poi molto da quello di Pyykkö, che usa stranamente indossare occhiali da sole anche sotto il buio tendone dell’Altar, forse per occultare meglio la sua già impassibile espressione. La poca enfasi data nei volumi alla solista toglie qualche coloritura al sound degli Hooded Menace, che in questo modo pare ancora più inamovibile, ma anche se smorzate le inflessioni di doom classico e crepuscolare riescono a manifestarsi, spezzando ogni tanto le catene di una marcia a tappe forzate verso gli abissi mentali e fisici traslati in musica. La lentezza e il senso di soffocamento, accompagnati a qualche pennata gotica, spadroneggiano, la possanza e la nitidezza degli strumenti permettono di godere appieno il senso di sfinimento che questi moderni eroi del death/doom rappresentano nei loro dischi. I musicisti non aggiungono molto allo show, quasi immobili e poco interessati a coltivare il rapporto col pubblico, che comunque li segue attentamente, chi più preso come lo scrivente, chi solo curioso e interessato a scoprire cosa bolle in pentola sull’Altar nel primo pomeriggio. Insomma, a vedere le reazioni si tratta di un’audience di die-hard fans, una minoranza piuttosto folta e agguerrita, e una maggioranza che sembra gradire, anche se non sempre assimilare appieno, l’operato de Nostri. Hanno gioco più facile i brani con qualche accelerata in più del consueto, tipo “Curses Scribed In Gore”, che meglio dispone all’headbanging del resto del materiale offerto oggi. Non risulteranno tra i vincitori assoluti né dell’intera manifestazione né della giornata, ma anche gli Hooded Menace hanno ben contribuito al nostro godimento plurimo.
HEATHEN
MAINSTAGE 2
14.20 – 15.00
A dispetto di un ritorno sulle scene da primi della classe come quello compiuto nel 2009 con “Evolution Of Chaos” e le successive, esaltanti, performance live, gli Heathen sono rimasti un act da cultori del thrash e non hanno realizzato il passo verso un successo di pubblico ampio e conclamato. Le presenze, rispetto a una band affine come i Vektor, sono significativamente inferiori e si arriva agevolmente nelle vicinanze delle transenne, come in pochi altri casi nel corso del festival. Se il colpo d’occhio è deludente, lo stesso non si può di certo dire per l’efficacia on-stage della band, carica a mille e scattante fin dalle prime battute. Purtroppo gli americani si beccano i suoni peggiori che ho avuto modo di sentire durante il festival, con grossi problemi per una delle chitarre in alcune canzoni a penalizzare ulteriormente la resa complessiva, ma fatta la tara a questi intoppi, comunque non di poco conto, l’impressione generale è sicuramente positiva. Non c’è la pulizia assoluta né il taglio tecnico straripante della data italiana a Milano nel 2010, e pure la voce di White si esprime su registri buoni ma non stellari, però i pezzi scorrono via bene, anche se in parte inficiati nell’impatto dai predetti problemi sonori. Ci si concentra sull’ultima fatica, rappresentata dall’opener “Dying Season”, “Control By Chaos” e “No Stone Unturned”, che richiamano l’attenzione e fanno smuovere in modo più contenuto rispetto agli unici due pezzi storici proposti, “Hypnotized” e “Death By Hanging”. Per assistere a un’esaltazione diffusa del pubblico bisogna per forza aspettare quest’ultima, il cui ritornello è ben noto anche al di fuori dei die-hard fans del combo. Non saranno stati tra i più acclamati e non avranno fatto strappare i capelli come altri loro colleghi, in ogni caso gli Heathen si sono difesi onorevolmente sull’affollato battlefield di Clisson.
EVOKEN
ALTAR
15.05 – 15.55
Il limite massimo di lentezza introspettiva, ottenebrante, cinerea dell’Hellfest 2013 viene rappresentato dagli americani Evoken, da quindici anni tra i campioni incontrastati del funeral doom. Uno stilema qui segnato da una vena death crepuscolare, decisiva nell’indirizzare lo spettro sonoro della formazione, tornata con nuovo materiale dopo cinque anni di silenzio nel 2012, tramite l’acclamato e per pochi eletti “Atra Mors”. Schivi e controllati negli atteggiamenti, come spesso accade per musicisti votati al versante depresso del metal, i Nostri si concentrano esclusivamente su un’esecuzione fedele e massimamente comunicativa del loro universo di dolore e desolazione. L’unico a guardare dritto negli occhi gli spettatori e a chiamarne urla di incitamento è il bassista, che non lesina in headbanging sulle (poche) parti arroventate da digressioni puramente death presenti in repertorio. Considerati i pochi sussulti ritmici delle loro, lunghissime, canzoni gli yankee devono creare atmosfera, riempire l’aria di umori mortuari combinando al meglio riff ammorbanti e tastiere lacrimevoli e contemplative. La fusione riesce, consentendo di entrare in punta di piedi in un quadro cimiteriale che non prevede rotture celestiali o chiaroscuri, solo un abbandono allo sconforto più totale. La recitazione in growl di John Paradiso spennella di altra pece un impasto già di per sé denso e torvo come pochi, e capirete quindi che la loro esibizione abbia mandato in brodo di giuggiole e in uno stato di singolare compiacimento solo i doomsters più radicali, che sono ormai una larga fetta di ascoltatori, vista l’ampia e soddisfatta platea che ha seguito passo passo l’operato degli Evoken. I quali bravi lo sono stati ma avrebbero potuto essere stellari se il lavoro del bravissimo tastierista Don Zaros fosse stato messo maggiormente in risalto, mentre in questa sede non ha potuto accompagnare alla pari le chitarre come succede su disco, così che la corposità del suono, la sua opulenza di sfumature, è stata in alcuni punti sacrificata. Pazienza, ci siamo in ogni caso sollazzati a sufficienza.
BLACK BREATH
VALLEY
16.00 – 16.40
Barba e capelli, please. No, no, che avete capito. Non sono da tagliare, ma da tenere belli lunghi, altrimenti come fate a conformarvi ai vostri idoli? I Black Breath sono la risposta più rumorosa, adrenalinica, urlata data dall’Hellfest di quest’anno a quanti dal metal pretendono, in primis, divertimento, capocciate, mosh e pioggia di riff sparati a volumi insostenibili. Alla pari di quanto fatto e disfatto dai Cancer Bats l’anno passato i Black Breath passano con l’eleganza e il tatto compunto di un caterpillar o di un qualsivoglia mezzo cingolato voi prediligiate su un Valley stracolmo, adorante, composto da figuri consapevoli di trovarsi di fronte uno dei must di questo scorcio di millennio. Una camicia di forza non basterebbe a ingabbiare la vitalità di Elijah Nelson, J. Byrum, E. Wallace, F. Funds, Neil McAdams, squadra scelta di incursori nel mezzo delle nostre viscere scosse, strizzate, battute come un pezzo di carne prima di finire in padella, in una sequela di inni ora scagliati addosso in lanci degni del miglior polso della Major League, ora trattenuti a stento in un groove scosso dall’irrequietezza come i soldati americani prima dello sbarco di Normandia. Saltano schemi, si liberano gli istinti, i demoni insiti nel vissuto metallico di ognuno, dopo tanta agitazione soppressa, si possono liberare nel marasma generale. E’ un bollore da vulcano in ebollizione quello che si crea nel Valley, il death collide nel rock’n’roll, a sua volta sbattuto nel crust/punk e da questo infiocinato per formare una pallottola composita dai danni irreparabili, una volta arrivata a bersaglio. Il bordello suscitato dagli autori di “Sentenced To Life” è memorabile, occhi estasiati brillano di un fuoco caldissimo sopra e sotto lo stage, la felicità della band è la stessa del pubblico, consci entrambi di aver dato vita a un concerto inarrestabile, summa di tutta la bellezza screanzata che l’universo heavy comunica fin dai suoi primordi. Con gente del genere il futuro della nostra musica non sarà mai in pericolo.
ABSU
TEMPLE
17.40 – 18.30
Che personaggione Proscriptor! Credo di non aver mai visto un batterista così fuori di melone come il deux ex machina degli Absu, folle e spiritato all’ennesima potenza, padrone assoluto dello strumento e della voce principale e totalmente invasato nell’approcciare il pubblico. Vestizione di scena e trucco sono già di per sé singolari, per non dire buffi, la fascetta sbarluccicante attorno alla testa e l’eye liner pesante inducono a una risata, quando poi si sente un figuro così conciato proferire certe urla stridule tra un pezzo e l’altro, si rischia una reazione da spettacolo comico, non da concerto black metal. Il frontman ama inoltre introdurre i brani con deliranti sproloqui, anche questi molto divertenti, e a un certo punto è talmente gasato che scende dal suo seggiolino e va ad aizzare il pubblico sgolandosi in urla il più selvagge possibili. I motivi di interesse per una esibizione degli Absu non si limitano fortunatamente a queste elementi di colore, la ciccia è rappresentata da un serrato duellare senza esclusione di colpi tra chitarra e batteria, che sfoderano entrambe tutto il miglior armamentario disponibile in campo black/thrash. Se nel corso della carriera i texani hanno attraversato fasi diverse, esprimendosi compiutamente nei reami del metal atmosferico come nei duri universi del black/thrash ultratirato, ed avendo sempre presente una certa vena occulta, dal vivo l’accento è posto sull’impatto e sull’esasperazione delle ritmiche verso un maelstrom di metallo complesso e ferale assieme. Le song del trio viaggiano oltremodo spedite e schiaffeggiano spietate attraverso un riffing teso e definito e un drumming fantasioso, che spiega benissimo perché Proscriptor, quando il posto di batterista è rimasto temporaneamente vacante con l’uscita di Paul Bostaph, sia stato a un passo dall’entrare negli Slayer. Gli Absu live sono intensi, magnetici e furibondi, anche se tutta la violenza espressa è sempre sotto il vigile controllo di doti tecnico-compositive abbondantemente oltre la media. La sensazione è che i Nostri interpretino il concerto come una band thrash metal, aggiungendoci quella goccia di nera malvagità che ogni buon devoto della nera fiamma si porta nell’animo. Gran spettacolo e indimenticabile cabaret di Proscriptor.
ASPHYX
ALTAR
18.35 – 19.35
Il death dal pungente odore di putrescenza e dai tratti mostruosi conosce, è risaputo, nuovo splendore. E’ quindi con oculatezza che gli Asphyx vengono posti nei piani alti dell’Altar, nel tardo pomeriggio di una giornata che ha già regalato tanti momenti salienti.
La chioma argentea di Martin van Drunen si staglia a centro palco, e insieme a qualche ruga a contorno dei volti essa appare come l’unico segnale dello scorrere del tempo per gli Apshyx. Infatti basta un primo pezzo, “Vermin”, aggredito con veemenza scellerata, per farci comprendere l’assoluto stato di grazia che gli olandesi hanno addosso, e che viste le ultime uscite in studio si protrae, per la gioia dei fans, ormai da tempo. La mortifera miscellanea fra death e doom della formazione olandese si sbilancia, almeno per la prima parte di show, sull’accezione più estrema del proprio sound, con brani diretti e mediamente veloci macellati da riff plumbei portati agli alti voltaggi, e decantati dal growl personale del leader. Van Drunen non ha una voce tra le più piene e viscerali in circolazione, il suo cantato affonda le radici nelle urla strozzate di seconda metà anni ’80, risuonando piacevolmente old style e facendo percepire in maniera molto vivida il marciume del vero death metal. Si sbraccia per indurre il pubblico a seguirlo con passione nelle sue peripezie vocali e percorre lo stage in lungo e in largo per non far mancare il proprio calore a un’audience ben disposta al materiale del gruppo. Nella seconda porzione di spettacolo affiorano dettami più compassati, e così possono essere appagati anche i cultori del materiale maggiormente oppressivo e asfissiante del combo. Tutta la band gira che è una meraviglia, e il climax positivo va aumentando nell’ora a disposizione. “Last One On Earth” e “The Rack” suggellano un’ottima prova di forza degli inossidabili deathsters dei Paesi Bassi, tra i leader indiscussi di una vecchia guardia della musica estrema lontana dall’abdicare al ruolo di guida spirituale dell’intero movimento.
PRIMORDIAL
TEMPLE
20.05 – 20.40
Dovrebbero cominciare, ma non appare nessuno. Strano, i ritardi non sono propriamente frequenti da queste parti. Sarà successo qualche imprevisto… E’ successo. La previdente organizzazione manda un suo uomo ad annunciare che causa ritardi aerei i Primordial non sono ancora pronti per salire sul palco, ma che comunque suoneranno. Avendo ancora negli occhi e nelle orecchie l’epicissima esibizione del Wacken 2008, mi mangio le mani al pensiero di vedere accorciato lo show degli irlandesi. Il tempo passa e si inizia a temere la cancellazione, poi arriva Alan Nemtheanga a rassicurare i presenti e finalmente, trascorsa quasi mezz’ora dall’orario fissato per l’inizio dei lavori, i Primordial sono on-stage. Come si dice in questi casi, è la qualità che conta. E su quello, i Primordial non sono secondi a nessuno. Lo sporco epic metal dei Nostri, sempre meno permeato di black e folk e virato a un suono alla Doomsword in chiave extreme con l’andar degli anni, irrompe come spada nel costato sul Temple, e capiamo che anche con un set accorciato i guerrieri di Dublino non sono venuti a Clisson per una semplice comparsata. I concerti degli autori di “To The Nameless Dead” sono una gigantesca chiamata alle armi, anche se paradossalmente loro celebrano l’assurdità della guerra, ma l’effetto suscitato è quello di portarti con la mente su un campo di battaglia e di immaginare di scontrarti col nemico nel nome di un ideale. L’assemblato strumentale, pur splendido, potremmo paragonarlo a un piatto rustico allettante, con la voce di Nemtheanga diventa una creazione da gran gourmet, un unicum di epos lacerato e lacerante, grondante sangue, sudore, rumori e sapori di tempi antichi e bellicosi. Il singer, unico col face painting della formazione, interpreta un one man show vibrante, declamando con vigore ogni singola sillaba e sprizzando scintille da occhi sempre lì lì per scattare fuori dalle orbite, tanto sono iniettati di adrenalina. Il poco tempo disponibile e il discreto minutaggio delle canzoni consentono di udire solo quattro gemme dagli ultimi dischi: in apertura “No Grave Deep Enough”, seguita da “Bloodied Yet Unbowed”, entrambe dall’ultimo album del 2011 “Redemption At The Puritan’s Hand”, quindi un leggero salto all’indietro per “The Coffin Ships” da “The Gathering Wilderness”, infine l’apoteosi dell’inno “Empire Falls”, intonato all’unisono dal Temple. Ci saranno altre occasioni per vedere compiutamente i Primordial, oggi anche se in formato ridotto il valore di questa band non è venuto meno.
SLEEP
VALLEY
21.50 – 22.50
Musica prodotta da fattoni per fattoni. Questo il mio pensiero dopo l’esperienza lisergica degli Sleep, ennesima resurrezione della scena rock degli anni ’90, perpetratasi nel 2012 per la gioia di chi vive in trip fisico e mentale buona parte della propria esistenza. Il trio di Oakland è uno degli act più febbrilmente attesi, e infatti il tendone del Valley, rivisto al rialzo nella capienza visto il successo riscosso l’anno scorso dalle creature stoner e doom più rinomate, inizia a riempirsi con ampio anticipo. Si crea una densità umana tra le più elevate provate sui palchi al coperto, e leggendo le espressioni di molti dei presenti si legge una trepidazione non comune. C’è qualcosa che va al di là di un mero apprezzamento e sconfina nell’idolatria, e la cosa non dispiace affatto, anzi, crea un clima suggestivo, che diventa torridamente alterato appena il trio sale on-stage. Per la prima volta in vita mia ho pensato che per godere appieno un certo tipo di musica si debba essere per forza sotto effetto di qualche droga, perché raramente sono stato messo così a dura prova, a causa di un’insistenza verso lidi sonori astratti, fumosi, esacerbati nella loro indefinitezza da un chitarrismo ridondante, che allontana dalle cose terrene e spinge lontano, dove esattamente non si sa. Gli intrecci di basso e chitarra, così come le occhiate di complicità tra i panciutissimi Al Cisneros e Matt Pike fanno rumoreggiare a ragione gli adepti di lungo corso del verbo Sleep, le note corrosive del combo sono innaffiate da abbondanti odori dolciastri, in dosi ben superiori a quelle annusate di solito a un concerto. Le divagazioni prolungate mi tolgono lucidità, lo ammetto, anche se in sé e per sé sono inappuntabili e interpretate benissimo da un ensemble di musicisti affiatato e che gira come un congegno meccanico ad alta precisione. Le parti in cui possiamo udire i toni vocali stonati di Cisneros catturano maggiormente e toccano nel segno anche i meno stonerofili, a cui si piegano un po’ le gambe quando si esula completamente da una logica di canzone e si va totalmente fuori dal seminato. Pur confessando la mia incapacità di comprendere e apprezzare fino in fondo i significati e le qualità degli Sleep certifico che abbiano ancora molto da dire e che nel contesto live possano davvero fare sfracelli, a patto di essere sulla loro stessa lunghezza d’onda.
AT THE GATES
ALTAR
22.55 – 23.55
Avevano detto che sarebbe durata poco, il tempo di un paio di estati di amarcord a prendersi la valanga di applausi che avrebbero meritato in quegli anni ’90 dove il successo era rimasto su scala prettamente underground. Invece ci hanno preso gusto, e come recita la splendida maglietta (acquistata al volo) celebrante questa nuova estate di festival, la “Suicidal Legacy” è ancora giro a far danni. Sull’Altar il sonoro è normalmente buono, in taluni casi eccezionali, in altre occasioni pur non rovinando l’operato dei gruppi non esce propriamente adamantino. E’ il caso degli At The Gates, e sarà l’unico neo di un’altra serata da cineteca con gli autori di “Slaughter Of The Soul”. Proprio con la title-track del masterpiece datato 1995 si dà il là al macello, con lo stentoreo “Go!” di Lindberg a spezzare la tensione superficiale di una folla ampiamente in temperatura. Passando sopra all’eccessivo impastamento degli strumenti, si capisce che la band è in bolla. Cappellino d’ordinanza in testa, leggermente ingobbito, ringhioso e un carisma che lo illumina al pari di una supernova, Tomba avvelena l’aria con il growl urlato, e negli anni un filo hardcorizzato, che ne ha segnato l’ascesa tra i vocalist prediletti dalla scena extreme metal tutta. Il nichilismo ci circonda quando “Solo i morti stanno ridendo”, è “Cold” a bissare l’effetto straziante del primo pezzo. Non sta fermo più nessuno, il pogo al centro ha raggiunto vette soddisfacenti di confusione e chi è meno focoso è quantomeno impegnato in un obbligatorio headbanging e cerca di cantare alla bell’è meglio i pezzi. Ci ingolosiamo ulteriormente quando i ganci diretti iniziano a essere inframmezzati da meticolosi lavorii ai fianchi, rappresentati da canzoni nervose e spezzettate quali “Raped By The Light Of Christ” e “Terminal Spirit Disease”. La scaletta è pressappoco quella della reunion del 2008, qualche new entry non sarebbe male sentirla, l’unico sostanziale cambiamento è dato dal regale omaggio a Jeff Hannemann con la cover di “Captor Of Sin”, che gli At The Gates avevano registrato in passato ed è possibile sentire nella versione in studio nella ristampa del 2002 di “Slaughter Of The Soul”. Tra i pochi che possono permettersi di rivedere secondo il proprio sentire un pezzo slayeriano, i Nostri ci fanno un gran bel dono, rendendo giustizia a una delle composizioni più efferate dei californiani. Ci lustriamo le orecchie con una delle tracce migliori di “The Red In The Sky Is Ours”, “Windows”, poi via a testa bassa con “World Of Lies”, e prima dell’uscita di scena alla fine di “Need” l’ovazione più rumorosa arriva all’annuncio di “All Life Ends”. La reazione esplosiva non è solo dovuta alla provenienza dal primo ep, si sa che ogni rimando ai primi passi di carriera manda in estasi fan di qualsiasi ensemble storico, è che questa traccia ha qualcosa di speciale; atmosfere tetre tutte sue, una struttura spigolosa, sezioni che si dipartono imprevedibilmente come improvvise scariche di terremoto, spiazzanti anche se si conosce a menadito il pezzo. Non possono mancare gli encore, prevedibilmente le ultime tre rasoiate sono “Blinded By Fear”, che fa provare gelidi brividi lungo la schiena già solo con l’intro, poi giunge il malsano disgusto della vita trasmesso da “Nausea” e infine il colpo di coda con “Kingdom Gone”. A parte che non siamo riusciti ad apprezzare appieno alcune sfumature dei pezzi, tipo il solo in uscita dalla sporcizia sonica di “Suicide Nation”, per via di una qualità di suono precaria e mai raddrizzata durante l’esibizione, gli At The Gates sono stati tra i migliori di tutto il festival, mantenendo alto anche in questa occasione il vessillo della propria leggenda.
GOD SEED
TEMPLE
00.00 – 01.00
Gaahl è indubbiamente un personaggio controverso. La sua uscita dai Gorgoroth alla fine di una diatriba legale con l’ex compare Infernus è stata degna di un divorzio tra star di Hollywood, arrivando a lambire i territori del ridicolo. Le sue beghe private e la carriera d’attore hanno un po’annacquato l’immagine del sanguinario black metaller che aveva costruito negli anni, spiazzando parecchio i suoi fan. Quando però il Nostro sale sul palco, allora è tempo di zittirsi e ammirare, dimenticandosi qualsiasi facezia, luogo comune, pregiudizio nei confronti di quello che a conti fatti è uno dei frontman più agghiaccianti del mondo black metal. L’approdo sul Temple, nel cuore della notte, è una deflagrazione di ronzii chitarristici old-school e di una sezione ritmica lanciata verso il centro della Terra nei gironi più reconditi dell’Inferno. Poi irrompe la voce purulenta, raccapricciante di Gaahl, e con essa la sua persona, che si muove lenta e cerimoniale per lo stage, lo sguardo vitreo, fisso, un pugnale nella carne; il face painting, irregolare nella macchie di bianco e nero gettate sul viso e screziato di sangue, accresce la sensazione di disagio che la figura del singer provoca. Le rasoiate della band, composta da musicisti privi di trucco ma dal piglio feroce e alacremente impegnati nel martirio strumentale, lasciano intravedere nel maelstrom prodotto un senso di folle epicità e scampoli di avanguardismo, tritati in una mattanza estrema che conosce ben pochi rallentamenti e nessuna apertura a melodie ariose. Gaahl, mattatore assoluto della formazione, si produce in una performance teatrale, invasata, nella quale allo screaming vomitato con disprezzo totale per ogni forma di vita contrappone a tratti frammenti recitati, in voce pulita, in cui è possibile cogliere un controllo e una duttilità delle corde vocali ben oltre la media. Il materiale proposto alterna blasfemie dei Gorgoroth, come “Sign Of An Open Eye”, ed estratti dall’unico disco pubblicato dai God Seed, tra cui citiamo l’ottima “Awake”, opener di “I Begin”. L’esecuzione è impeccabile nell’evocare un feeling di malignità travolgente, con un che di glorioso ad ammantare la musica, che accende l’immaginazione dei fans portandoli ad esplorare il lato perverso e cupo dell’umano e del sovrumano. Un’ora di musica demoniaca mozzafiato ed appagante.