THE SECRET
TEMPLE
11.40 – 12.10
Il segreto è svelato. E’ atroce, torbido, nerissimo, un incubo da cui non c’è risveglio. E non viene più rivelato a pochi, le sue istanze si propagano come un’epidemia. Anche l’Hellfest è contagiato da questo morbo, quello che il gruppo di Trieste sta inoculando nelle menti degli extreme metallers attorno al globo grazie a una attività live incessante, un pellegrinaggio tra cattedrali grandi e piccole della musica indipendente. Una scelta di fegato, in questi tempi dove è più facile rintanarsi nel proprio guscio e lagnarsi della mancanza di prospettive e delle innumerevoli difficoltà da affrontare quotidianamente. I The Secret invece lottano e non mollano, e anche stavolta si palesano in gran spolvero. Alle 11.40 salgono sul palco inviperiti, duri e letali, innescando una valanga immane a forza di tempi black/crust, riff di accecante lava al gas nervino e vocals rantolanti. L’intensità, il fervore che ci mettono i quattro li avvicina a una interpretazione dell’esperienza concertistica di stampo hardcore. Suonano un pezzo dietro l’altro, annichiliscono e spingono in un angolo, ti riempiono di spintoni e calci e non ti lasciano reagire. Piazzano qualcuno dei loro pezzi rallentati e viscidamente doomish per spezzare il maelstrom di coltellate e portare l’attacco a un livello subdolo e strisciante, insensatamente abissale, ma la gran parte del minutaggio è soggetta a un flusso di elettricità stuprata e straziante. Coslovich sputacchia a destra e a manca, non gli appare in faccia un sorriso che sia uno, e l’ostilità permea anche i restanti membri del gruppo, un manipolo di assassini goduriosamente spietati. E’ una tempesta di pioggia acida, 30 minuti di malefici al napalm che rapiscono e conquistano le depravate menti all’ascolto. Per chi già li apprezzava, si è trattato di un altro tassello della scalata ai piani alti del metal estremo, per chi ancora li ignorava è stato un fulmine a ciel sereno molto ben gradito.
PROCESSION
VALLEY
12.50 – 13.30
Capita un fenomeno curioso ai Procession: nel programma ufficiale, stampato qualche settimana prima, all’ora in cui si esibiscono sono previsti i lanciatissimi Uncle Acid And The Deadbeats. Sennonché, essendo saltati i Masters Of Reality, tutti i gruppi sono slittati in avanti di uno slot. Peccato che la modifica, apparsa sul sito e presente nel running order da qui scaricabile, non sia stata comunicata adeguatamente all’interno dell’area concerti, col risultato che tanti, inconsapevolmente, credono di vedere apparire a breve i psychedelic doom rockers inglesi. I cileni Procession godono a questo punto di una platea foltissima quando appaiono sul palco, tra gli sguardi perplessi della maggior parte dei presenti. Alcuni, capito l’inghippo, escono, molti altri giustamente restano e seguono con interesse i giovani sudamericani, increduli di trovarsi di fronte tutta questa gente. I quattro colgono l’occasione per farsi conoscere e si destreggiano con sicurezza all’interno del rassicurante, seppure non scontato, spettro dell’epic-doom di scuola Candlemass e Solitude Aeturnus. I brani elargiti sfoggiano una discreta costruzione e non puntano solo sull’efficacia del refrain, i registri enfatici si sposano a venature prettamente heavy metal che consentono di apprezzare l’operato del gruppo anche ai meno amanti del doom propriamente detto. La varietà delle cadenze e un’idea chiara su come indirizzare le singole canzoni spostano l’ago della bilancia verso un apprezzamento convinto per i Procession, protagonisti minori ma non per questo meno meritevoli di elogi.
MONSTROSITY
ALTAR
13.35 – 14.15
L’ex band di George “Corpsegrinder” Fisher ha viaggiato in questi anni in una sorta di aureo cono d’ombra, proiettato dal suo illustre passato singer. L’ensemble originario di Fort Lauderdale ha avuto la forza di proseguire nei solchi di un death feroce e profumato di un tecnicismo omicida, come la scuola floridiana insegna da oltre vent’anni. Solo leggermente penalizzati da un basso spropositatamente in primo piano, i cinque mettono in vetrina tutto il campionario sonoro e visuale a cui la musica della morte si abbevera. L’insistenza sui blast-beat, voracemente perseguita dal nerboruto drummer Lee Harrison, un uomo praticamente sovrastato da un drum-set delle dimensioni di un hummer, scatena una molteplicità di bassezze nelle prime file, avviluppate in un abbraccio di mosh disordinato e convulso. Tutti i componenti della band tengono il cipiglio severo che contraddice i deathsters con fama da cattivoni, e fa piacere vedere le chilometriche chiome dei Nostri roteare come se avessero un ventilatore davanti, una scena che odora di death anche più della musica. La classicità ultraortodossa del combo non prevede grandi sfumature sul tema, che credo possano essere percepite solo dai die-hard fans del combo; certamente, pur non brillando oltre misura, i Monstrosity ci piazzano alcuni frastornanti colpi da ko, che ci sembrano meno dolorosi solo perché la concorrenza attorno ha saputo, e saprà fare, ancora più male.
UNCLE ACID AND THE DEADBEATS
VALLEY
14.20 – 15.10
E una volta compreso lo spostamento orario, ecco riproporsi la stessa fitta presenza umana comparsa prima dei Procession. Anzi, se possibile il numero dei presenti è addirittura aumentato…
Solo da pochi mesi i barbuti componenti degli Uncle Acid… si sono svelati al prossimo, per molto tempo hanno giocato a fare i misteriosi e a non rivelare le proprie sembianze. Le quali, come abbiamo imparato a conoscere dalle prime foto viste in giro, non sono altro che quelle di quattro barbuti giovani uomini, uguali a chissà quanti altri nel mondo ma con le mani e nella voce del leader un tocco che ha estasiato frotte di ascoltatori. Avvolti da una palpitazione generale che, a parte gli headliner dei vari palchi, è stata toccata solo per i Vektor, i Nostri calano subito l’asso in apertura, con uno dei brani più noti del repertorio, “I’ll Cut You Down”. Il raccoglimento dei minuti precedenti lo show si apre a una partecipazione corale del pubblico, in piena sintonia con l’armonioso operato dei musicisti sul palco e consapevole di assistere a un battesimo del fuoco carico di significati, essendo questa una delle prime esibizioni in assoluto dei rockers inglesi. Il combo è oltremodo misurato nelle interazioni con l’audience, affermare che questi ragazzi sono timidi è dir poco, ma la loro musica ha una capacità comunicativa invidiabile, a cui quasi nessuno sotto il Valley può rimanere indifferente. La voce sottile e antica di Uncle Acid ti entra nel cuore, il riffing pieno, morbidamente metallico e ritmato si fa strada nelle vene e finisci per pulsare ai tempi soggioganti di “Valley Of The Dolls”, “Death’s Door”, “Poison Apple”. Della sfera sinistra di cui avevo letto odo a dire il vero solo una punta sottile, significativa ma non preponderante, e la stessa conturbante presenza di psichedelia non si risolve mai in deliri difficili da seguire. Inoltrandoci nel cuore dello show emerge un gusto stoner di cui poco avevo sentito discutere, segnalato da una certa indulgenza per riffoni un po’ fuori dal seminato rispetto allo scheletro dei singoli brani, e che gli Uncle Acid… maneggiano con cura e sapienza. Ecco, se c’è da muovere un piccolo appunto alla pur ottima prova di questo astro nascente del metal contemporaneo questo risiede nell’essersi sbilanciato sulle canzoni più d’impatto nella prima parte, e aver puntato al repertorio leggermente più dilatato nella seconda, così che il pathos generato nella prima metà di spettacolo è andato leggermente affievolendosi sul finale. Se saranno capaci di non farsi tentare dalla facile ricopiatura di se stessi, gli Uncle Acid… faranno molta strada.
KAMPFAR
Temple
16.10 – 17.00
La pioggia che cade all’esterno dei tendoni fa arrivare sotto il Temple una folla assolutamente inusuale per chi è impegnato on-stage in questo orario. Bisogna quindi farsi strada tra Kiss-maniacs assolutamente impreparati a un open air, armati di seggiolini da campeggio e zaini giganti, per riuscire ad arrivare a una distanza decorosa dal palco. E dopo qualche spallata qua e là per mettersi alle spalle i soggetti meno interessati (ma zoologicamente interessantissimi), possiamo goderci pienamente le gesta dei Kampfar. I norvegesi sono dei maestri nell’ammantare di epos guerresco le fustigazioni black e rendono vivido e tangibile il pathos insito nella loro musica. Sono estremamente partecipi e attivi e avvincono non solo le prime file colme di aficionados, ma buona parte di quelli che gli stanno dietro. Il mattatore, il centro dell’attenzione è il leader Dolk, che intrattiene gli astanti come un consumato frontman hard rock, aggiungendo al cipiglio severo da black metaller un forte impegno per incitamenti, chiamate ai cori e urla di supporto che insieme al sapore glorioso delle canzoni portano a un coinvolgimento diffuso. Al di là dello zoccolo duro dei fans di lungo corso, non sorpresi dall’impeto avvincente del combo, tutti gli altri si sentono piacevolmente spiazzati da una prestazione così sentita, accorata, euforica dei Kampfar. Dolk spende anche alcune belle parole per l’organizzazione dell’Hellfest, puntualizzando che questo è l’unico show dell’anno della band, e che sono venuti a Clisson perché si erano trovati molto bene nelle precedenti scorrerie in terra di Francia e ritengono la manifestazione un metal happening riuscitissimo e che sa mettere a proprio agio i musicisti. Abbiamo quindi assistito a un altro concerto rivelazione, un ennesimo squarcio su una realtà personalmente finora quasi ignota ma interessantissima e doverosamente da approfondire.
GALLOWS
WARZONE
17.05 – 17.55
Sdoganati in pieno anche fuori dal natio Regno Unito, i londinesi Gallows si presentano come un’entità in netta crescita e che proprio in occasioni come questa dovrebbe spiccare il volo verso i piani alti dello svettante grattacielo del moderno punk/hardcore. Invece i Gallows steccano, non in maniera imbarazzante e fragorosa, intendiamoci, sicuramente non spaccano in due il cuore dei presenti e si limitano a un compitino appena sufficiente. Quello che manca è la spumeggiante vitalità, la botta di vita secca e stordente, la spallata decisiva promulgata nei dischi da canzoni rissose e brucianti, hooliganesche, manesche, di pancia e coglioni, che sul Warzone solo a tratti ci arrivano addosso con immutato ardore. Si perde il deragliante crunch chitarristico e denota più di un affanno il corpulento singer Wade MacNeil, incapace almeno quest’oggi di trasmettere nella voce la stessa fisicità buzzurra e grossolana del suo corpo. Frenati, ovattati, perfino poco selvaggi nelle movenze, i Gallows non è che suonino male, questo no, però non si accendono, appaiono solo come una tenue ricopiatura dell’immagine burbera ed energica che ne abbiamo tratto dai dischi. MacNeil col fiatone, apparso evidente dopo tre pezzi, è impietoso nel certificare le difficoltà trovate on-stage dal gruppo. Addirittura escono di scena con largo anticipo, dieci minuti abbondanti sull’orario disponibile, lasciando un po’ di amaro in bocca al nugolo di fan più esagitato. Li aspettiamo altrove per un pronto riscatto.
ROTTING CHRIST
TEMPLE
18.00 – 18.50
Una grande storia artistica e umana, quella dei Rotting Christ. Una storia di dedizione, passione, tenacia, per inventarsi un modo di fare black metal, gothic, extreme metal tout-court partendo da un paese non esattamente l’ombelico del mondo metal, la Grecia. Esistono da fine anni ’80 e sono ancora vivi, vegeti e creativamente infuriati. Li conoscevo solo di fama, sono contento di averli saggiati in tutta la loro inventiva e carnalità in un Temple che non ha risparmiato onori a uno dei pesi massimi della scena extreme europea. Lo schieramento prevede il leader supremo Sakis Tolis a microfono e chitarra al centro, i due giovani musicisti entrati in formazione nel 2012, Vagelis Karzis e George Emmanuel ai lati, e il veterano Themis Tolis alla batteria. L’impatto è subito deflagrante, l’entusiasmo dell’intera line-up è chiaramente percepibile e si riversa nelle canzoni, ibridi inclassificabili di black, gothic nerissimo, incursioni folk ed etniche, quasi sempre molto spinte e incendiarie. E’ un atmosfera particolarissima quella evocata dai greci, cangiante da canzone a canzone. La rifinitura degli arrangiamenti e l’evocatività della proposta vanno a braccetto con un attacco diretto, da falange lanciata contro i persiani, che non lascia indifferenti e porta a una massiccia risposta del pubblico alle richieste di botta e risposta vocali, quando ci sono refrain ben marcati. I cinquanta minuti a loro assegnati passano in rassegna tutte le perigliose vie percorse in carriera dai Nostri; le castiganti cinghiate black metal old-style, i chiaroscuri gotici, il fuoco divampante da chiari influssi mediterranei di cui il quartetto non può fare a meno ormai da tempo, e infine la percussività della musica etnica, spesso spiazzante ma mai inserita a casaccio. Al di là dell’alta qualità della musica congegnata in carriera, avvince non poco l’energia e la voglia di entrare in sinergia con l’audience che traspare in ogni istante. “In Yumen Xibalba”, favorita da un refrain modello chiamata alle armi, tocca l’apice in questo senso e resta impressa come uno dei momenti più epici dell’intero Hellfest. Lunga vita ai Rotting Christ, entrati di gran carriera nel mio sempre più largo pantheon delle band da onorare e venerare.
ACCEPT
MAINSTAGE 1
18.55 – 19.55
L’unico punto fermo in tema di hard rock ed heavy classico, per come mi ero immaginato di vivere l’Hellfest 2013, era rappresentato dai sempiterni Accept, riportati a nuova giovinezza con l’ingresso del singer Mark Tornillo al posto dello storico Udo Dirkschneider. A dimostrazione che i cambi di cantante, anche quando riguardano figure apparentemente inamovibili, non vengono sempre per nuocere ma possono servire a voltare pagina e iniziare una nuova era di vittorie e gioie, gli Accept del nuovo millennio sono stati descritti da più parti come uno dei gruppi più in forma in circolazione. Era ora di soppesare la veridicità di tali affermazioni.
Fa piacere che siamo in tanti, giovani e attempati, ad affollarci in prossimità del Mainstage 1 per questo show del tardo pomeriggio, che parte in quarta e direi anche in quinta, con un paio di quadrate canzoni degli ultimi due dischi. Poi è già ora di un’ampia sezione di classici, aperta da “Breaker”. Tornillo canta benissimo, anche i più accaniti sostenitori di Udo non possono non ammettere quanto riesca a ricalcare le sue linee vocali senza esserne un clone, mettendoci un gracchiare personale e più incisivo di quanto è in grado di fare oggigiorno il predecessore. I suoni sui mainstage soffrono sempre il confronto coi palchi più piccoli, per non si sa quale motivo la nitidezza, la pulizia, la rotondità udibili su Valley (in cima a tutti), Altar e Temple non albergano anche all’aperto, e gli Accept soffrono sicuramente un sonoro piuttosto precario, che distorce eccessivamente l’operato delle munifiche sei corde di Wolf Hoffman ed Herman Frank. Il feeling non ne esce lo stesso compromesso, e “Balls To The Wall”, “Metal Heart” e il meticciato di arie classiche su metallo crucco della straripante “Princess Of The Dawn” portano a un sing-a-long compiaciuto, rivitalizzante ed evergreen le almeno tre generazioni in prossimità dello stage. Come accadrà anche per altre esibizioni del weekend, compare per un infuocato duetto sulle note di “Fast As A Shark”, posta in chiusura, il super fan Phil Anselmo, metallaro vero che non ha perso l’entusiasmo per gli idoli di gioventù, li omaggia e partecipa alle loro esibizioni con genuina passione e gioia di condividere il palco con chi gli ha tracciato la strada. Uno dei brani che più è andato vicino al thrash senza esserlo ancora completamente dà la stoccata finale a un concerto che si è rivelato realmente imperdibile.
MY DYING BRIDE
ALTAR
20.45 – 21.45
Scocca l’ora dell’epitome della triste decadenza romantica portata in musica, I My Dying Bride, ancora oggi indefessi perpetuatori di una formula sonora incorrotta e di qualità perennemente di alto lignaggio. Oggi ho il piacere, e il privilegio, perché tanti mai potranno dire di averli visti, di ammirarli all’opera per la terza volta. E per l’occasione, anche se è ancora giorno, c’è l’oscurità del tendone ad accrescere l’atmosfera cremisi e gotica delle onde soniche. La formazione vede oramai in pianta stabile un violinista, Shaun Macgowan, che giostra le proprie abilità anche alle tastiere, entrato da qualche tempo a rafforzare una mescolanza di artisti di grande affiatamento e rigorosi nel portare l’attenzione alla mera riproposizione delle canzoni, senza abbandonarsi neanche per un secondo a velleità di intrattenimento. Gli strumentisti si pongono umilmente in disparte, lasciando il proscenio all’attore protagonista, Aaron Stainthorpe, il cui capello corto e la camicia bianca potrebbero di primo acchito stemperare quell’aura di perenne depressione che pare sempre attanagliarlo. E’ una semplice supposizione, sfatata fin dalle prime note, che vedono il frontman entrare in simbiosi con le dolenti narrazioni proferite dalla sua bocca. E’ incredibile che dopo tanti anni di vita on the road, di tour estenuanti, ore e ore di cantilenanti o rabbiosi, a seconda dell’esigenza, vocalizzi, Aaron non faccia affiorare un’incertezza, un affaticamento, un appannamento. “The Raven And The Rose” non conosce sbavature, ci inonda potente e sanguinante, nelle sue rasoiate death come negli inabissamenti di disperazione, tratteggiati impeccabilmente in ogni arrangiamento e linea melodica e con vocals che sfidano in limpidezza la versione in studio. Aaron, come è consuetudine, sembra soffrire lancinanti dolori, si prostra, si strugge, è pervaso da un male emotivo troppo evidente per essere solo frutto di una prestazione attoriale ben riuscita. Emana un fascino magnetico, l’audience lo segue ipnotizzata, attenta a non perdersi una sfumatura di pezzi toccanti e a loro modo imprevedibili, che si spezzano all’improvviso per trasmigrare in una nuova forma e inoltrarsi in un andamento apparentemente slegato da ciò che l’ha preceduto. Poche espressioni, praticamente impercettibili, affiorano sui volti dei musicisti, mentre scorrono impeccabili “A Kiss To Remember”, “Thy Raven Wings”, “She Is Dark”, “The Snow In My End”, stritolate in una straziante poetica senza gioia nè positività. La funesta intensità dei My Dying Bride schiaccia l’Altar, inchioda chiunque a una visione del mondo in cui la gioia è un sentimento sconosciuto e dove il destino è segnato dalla sofferenza interiore. Nessuno sa comunicare questo atroce sentire come i maestri di Halifax.
MANILLA ROAD
VALLEY
21.50 – 23.10
Mark “The Shark” Shelton è un uomo lungimirante. Quando si è accorto, nei primi anni del nuovo millennio, che la voce iniziava ad abbandonarlo, ha deciso che non era il caso di diventare la parodia di se stesso e di andare incontro a dei live con vocalizzi sfiatati e irriconoscibili, che avrebbero offuscato la grandezza dei Manilla Road e ne avrebbero perpetuato un’immagine sbiadita alle nuove generazioni. Ha deciso di farsi affiancare da un uomo più giovane, Bryan Patrick, dalla voce simile alla sua ma più pulita ed estesa. Si è tenuto per sé alcune parti, su disco si è pure permesso di cantare, splendidamente, “Voyager”, e così ha allungato di chissà quanti anni ancora l’attività della sua creatura. Così, in un 2013 in cui tanti suoi coetanei arrancano e anche i più brillanti faticano a non mostrare i segni del tempo, Shelton e compari si guadagno un’esibizione stellata, da eroi indiscussi, sul palco elitario dell’Hellfest. Non sono propriamente un gruppo da Valley, ma gli organizzatori, da esperti e intelligenti conoscitori della scena, hanno capito che non poteva esserci location migliore per il combo del Kansas. Al quale non sarà parso vero di allungare il proprio set di una ventina di minuti, loro che sono principi degli show estesi e con scalette speciali. Anche stasera è pura magia quella che va in scena. Si assiste a una perfetta commistione di one man show e lavoro collettivo: one man show, perché Shelton catalizza buona parte dell’attenzione, un po’ per il carisma, un po’ per un modo di suonare spiritato, simbiotico con lo strumento, esagitato e unico che solo Dave Chandler, non a caso all’incirca coevo di The Shark, riesce a esprimere on stage. Gli altri musicisti sembrano per certi versi i figli adoranti, o i discepoli, del leader, viste le occhiate cariche di ammirazione e di rispetto che gli vengono tributate, ma sono ben più che degli scolaretti giudiziosi. “Hellroadie” canta da dio ed è bravo a condividere il ruolo di frontman con Shelton, le cui vocals per certi versi afone e sempre più roche continuano a suscitare un fascino senza tempo, sottolineato dall’alternanza con la più consueta voce di Hellroadie. La sterminata discografica degli americani viene passata al setaccio ed è usata molta oculatezza nel riproporre quei pezzi che nessuno oserebbe togliere dalla set-list e qualche chicca succosa. Trovare veri highlight in una serata tanto monumentale è difficile, essendo però tra le canzoni che conosco meglio dei Nostri ho provato particolare piacere sulle antiche “Witches Brew” e “Road Of Kings”, anche se il visibilio completo, lo scardinamento mandibolare più pronunciato l’ho avuto sulla progressiva “Cage Of Mirrors”. Gli intrecci durissimi ed epic partoriti da Shelton dovrebbero costituire il manuale d’istruzioni per ogni chitarrista che voglia suonare metal classico, i duetti serrati con Bryan Patrick rientrano invece nelle categorie di quelle cose non riproducibili, non so chi altro possa permettersi di avere due singer del genere nella stessa formazione che ridisegnano pezzi storici e dall’identità scolpita nei lustri grazie a due voci simili nelle linee melodiche, ma ognuna con un timbro unico sulle rispettive lyrics scandite. “Necropolis” è la chiusura di un’estasi old-school molto apprezzata dal pubblico francese.
CULT OF LUNA
VALLEY
00.00 – 01.30
Dire che ero in attesa dei Cult Of Luna non è sbagliato. E’ solo terribilmente riduttivo. Di tutta la lista di meraviglie che avevo in mente di vedere, ce n’era qualcuna che non potevo perdermi per nessun motivo al mondo. Altre le potevo sostituire con qualche alternativa, all’Hellfest difficile non essere incuriositi da qualcuno, i Cult Of Luna no. Ammaliato da “Salvation”, regalatomi a Natale, sono lentamente, ma neanche troppo, diventato dipendente dai mantra liquidi, rocciosi, monumentali e progressivi del sestetto partito per emulare i Neurosis e finito per diventarne il concorrente più credibile, seppure mettendo sul piatto carte lievemente diverse. Caso vuole che la dipartita dei Masters Of Reality, rimasti senza sostituti, porti a un allungamento degli show di Manilla Road e Cult Of Luna, resisi disponibili in pratica a un show da headliner. E’ così che mentre sul Mainstage 1 i Kiss celebrano il loro immortale circo del rock, sotto il Valley va in scena uno show dai toni quasi liturgici, depredato di espedienti visuali troppo marcati e asettico nel modo di raffrontarsi dei musicisti verso il pubblico. Lo sfondo è rappresentato dall’artwork di “Vertikal”, ultimo mastodonte discografico sfornato quest’anno dagli svedesi, vestiti anonimamente e distaccati rispetto alle presenze umane al loro cospetto. Nessun saluto, nessun dialogo, un’estetica grigiastra come la cover del loro lascito discografico più recente, luci che li mettono in penombra e non aiutano a interpretare volti impassibili, che non riusciresti a riconoscere se te li trovassi di fronte in mezzo a una strada. I componenti dei Cult Of Luna sono i tipici giovani uomini svedesi di cui abbiamo in testa lo stereotipo, non fanno nulla per distinguersi. Comunicano con la musica, quella sì, subito riconoscibile, cristallina e magica, un compendio di emulsioni di tre chitarre siderali e di arrangiamenti elettronici bene in evidenza nel mix, sorretto da ritmiche corpose, architettonicamente ardite e pure così naturali nell’impostazione. Qualche magagna tiene lontano dalle operazioni uno dei chitarristi durante l’esecuzione de primo pezzo, creando un po’ di scompiglio sul palco. Nulla che vada in inficiare la performance, ma le continue segnalazioni ai tecnici tolgono un po’ di pathos, che viene a crearsi completamente quando tutto si sistema e la band può tornare a essere un nucleo coeso, un organismo in piena salute pulsante emozioni raffinate e brutalizzate da un cantato che non ne vuole sapere di abbandonare gli sfregi hardcore. Brillanti, concentratissimi e col passare dei minuti anche imbelviti, i Cult Of Luna non lasciano scampo sia nelle lunghe meditazioni liquide di scuola post rock che nelle ondate elettriche dal riffing spesso e levigato che le interrompono e conducono a un headbanging simultaneo, da trance, col quale le prime file in particolare si trovano a dover fare i conti, senza alcuna possibilità di controllo. Giochi di luce monocromatiche accrescono la sensazione di vivere un’esperienza di suono unica, prima ancora che un normale concerto metal, una immersione in una vasca di suoni celestiali, rabbiosi, visionari e futuristi che anche un non-fan del gruppo potrebbe apprezzare per la sua unicità. La scaletta proposta volge lo sguardo prevalentemente all’ultima fase di carriera, post-“Salvation”; in levare eccoci “I: The Weapon”, seguite da “Ghost Trail”, “Finland”, l’epopea di “Vicarious Redemption”, “Dark City, Dead Man”, “Owlwood” e un finale-monster con “In Awe Of”. Un’ora e mezza vissuta sull’ottovolante, intensissima, si chiude senza una minima reazione degli schivi musicisti, che prendono e se ne vanno come se avessero semplicemente terminato il loro turno in fabbrica. Brividi.