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HELLFEST 2013 – terzo giorno

KRISIUN

ALTAR

12.15 – 12.45

Non sono mai stati iconici come i conterranei Sepoltura, non hanno mai smosso una quantità di metallers oceanica, ma è indubbio che nell’ormai lunga carriera intrapresa i Krisiun siano assurti a nome di punta del death metal, con una presenza fissa nei più importanti appuntamenti di settore. Il trio dei fratelli Kolesne è rodatissimo e rispetto ad altri colleghi, un filo ripuliti nel look dopo anni di militanza e con l’approdo a un’età più matura, mantengono quella fresca rozza minacciosità che li fa apparire come dei newcomer assetati di sangue. Un’apparenza così squisitamente true evil ce li rende subito simpatici, ma le buone impressioni non si fermano al lato visivo e si sposano a uno spiegamento di forze di pregiata fattura. I Krisiun hanno i mezzi e le conoscenze per mettere a ferro e fuoco l’Altar mettendoci pure una bella fetta di tecnica, utilizzata per colpire duro con fantasia e per mordere con più vigore gli ascoltatori, non certo per perdersi in labirinti progressivi fuori dal loro ambito di competenza. Echi di death americano dei primi anni ’90, del thrash/death ruvido di scuola carioca e inflessioni brutal echeggiano eclatanti per una mezz’ora ad altissima intensità, un flagello di “finissima” extreme music che solo chi ha il cuore gonfio di odio e neri ideali può permettersi di suonare con questa convinzione e comunicando tanta genuina malvagità. Promossi a pieni voti.

PRONG

MAINSTAGE 2

12.50 – 13.30

 Dato per disperso chissà quante volte, ed effettivamente rimasto a lungo in ombra con la sua creazione prediletta, Tommy Victor è tornato prepotentemente in pista nell’ultimo paio d’anni, rilanciando con una solida release quale “Carved Into Stone” la fama dei Prong. Per rinfrescare la memoria dei metalhead non c’è niente di meglio che rientrare nel giro dei festival, e allora ecco i Nostri fiondati sul Mainstage 2 per rivisitare la storia del metallo industrialoide e contaminato. Un po’ l’ora, un po’ il poco appeal, sotto un cielo cupo come la New York anni ’80 da cui sono scaturiti, i Prong si devono esibire davanti a relativamente pochi intimi, tanto che si arriva in prima fila molto facilmente. I suoni, come al solito, non proprio hard as a rock di questo palco sono almeno decentemente puliti, il resto lo fa la buona vena del combo, e pure la voce di Victor non difetta. Secchi, meccanici e digitalmente amari, i Prong offrono una proposta che nell’infinita varietà dell’Hellfest è difficile sentirne una similare; certe sonorità all’epoca avanguardistiche non sono state sviluppate secondo un filone ricchissimo dalle generazioni successive, quindi l’ascolto di un saggio di metal crepuscolare, permeato di dark wave ed effetti, come “Rude Awakening” non può che risultare sui generis in questa tre giorni. E’ pregevole anche l’esecuzione del materiale più thrash oriented, che è peraltro preponderante nella set-list odierna. Coloro che sono in prossimità dello stage saranno anche pochi, ma si fanno sentire, ed è con percettibile entusiasmo da novizi che viene accolta “Snap Your Fingers, Snap Your Neck”, la canzone più celebrata della giornata, posta appena prima della chiusura di “Power Of The Damager”. In appendice, una menzione per il bassista, presentatosi con maglietta che più sdrucita non si può, un taglio di capelli chiaramente eseguito da un barbiere ubriaco e una figura complessiva emanante un che di malato e di sozzo che ce l’avrebbe reso simpatico anche se non fosse stato in grado di armeggiare con lo strumento, attività in cui invece se la cava egregiamente.

CRYPTOPSY

ALTAR

13.35 – 14.15

 Una mirabile araba fenice, risorta dai propri errori e dai propri misfatti a nuova luce. Ecco cosa sono oggi i Cryptopsy, capaci di ritrovare la retta via dopo il suicidio artistico di “The Unspoken King”. Flo Mounier ha azzerato tutto ed è ripartito da quello che i canadesi sanno fare meglio, ossia un brutal death iper-tecnico, dall’energia cinetica in sovrabbondanza e attento a quei piccoli agganci ritmici o velatamente melodici che trasformano un sfogo smargiasso di doti strumentali fuori dal comune in una canzone vincente. Li avevamo giù apprezzati ad aprile, in formazione a quattro dopo la dipartita dello storico Jon Levasseur, e sapevamo di andare incontro ad una carneficina perfettamente orchestrata, che non vede punti deboli in nessuno dei quattro musicisti e pesca una buona fetta della sua forza propulsiva in una ritrovata, insaziabile, fame di death metal. E se i suoni sono bombastici come in questa occasione, allora è una inesorabile, esagerata, agghiacciante follia esecutiva quella che ci travolge e scompagina in ogni angolo l’Altar. Mounier picchia in maniera ultraterrena, non cedendo un millimetro in impeto e complicatezza, Donaldson si carica da par suo tutto l’immane lavoro solistico e ritmico, e riesce a destreggiarsi in maniera incredibile, visto che la musica dei Cryptopsy è scritta per due chitarre, e il barbuto e pelato axeman non può certo sdoppiarsi. Matt McGachy è a sua volta un frontman coi controcazzi, sfodera un growl per nulla infiacchito rispetto alle ottime prove in studio, perfettamente a metà strada tra gorgoglii inintelligibili e rantoli più grattati da cantato vecchia maniera. Non gli manca nemmeno il carisma per arringare i fans tra un pezzo e il successivo, e ricorda con orgoglio l’assoluta indipendenza della band da ogni label e management, uno status che lascia ai quattro il pieno controllo della musica e dell’intera attività del gruppo. Nel tempo disponibile i ragazzi hanno il buon gusto di accontentare un po’ tutti i palati, proponendo un paio di estratti dall’eccellente ultima opera, “Two-Pound Torch” e “The Golden Square”, un medley dall’esordio “Blasphemy Made Flesh”, “White Worms” da “Whisper Supremacy” e una sequenza da azzeramento della saliva per i die-hard fans, rappresentata dai quattro assi di “None So Vile”: “Benedectine Convulsions”, “Graves Of The Fathers”, “Slit Your Guts” e l’imprescindibile chiusura con “Phobofile”. Per quaranta minuti va in scena una lession in violence sublime, in cui ogni tassello si interseca perfettamente in un puzzle destinato a sparigliarsi ogni secondo, e poi ricomporsi in un’altra forma contorta, abbietta, assurda e devastante. Brutalità a nastro, velocità sfrenate, giochi di prestigio strumentali e istinti omicida: abbiamo avuto tutto questo in dosi letali, da un concerto death metal non si può chiedere nulla di meglio.

PIG DESTROYER

ALTAR

15.05 – 15.50

 Il grindcore porta avanti l’opera di mietitura vittime sull’Altar, e dopo la gragnuola di colpi inferta dai Cryptopsy l’onere di reggere la scena e di non far scemare la tensione è affidato ai Pig Destroyer. Gli autori del depravato “Prowler In The Yard” si presentano senza bassista (i fan ne saranno stati consapevoli, per me è stata una sorpresa) e con un tastierista/manipolatore di suoni a cui viene affidato il supporto e l’arricchimento dell’unica chitarra di Scott Hull. Strumentalmente l’espressività incasinata e irrefrenabile dei quattro valica ben presto i confini del buon grindcore, affrancandosi un quelle lande di singolarità dove la violenza urtante e urticante diventa pura killing art. Il bilanciamento di follia omicida e tecnica, giostra di invenzioni e frustate sui punti sensibili non fa una grinza e risulta sempre meglio comprensibile ed esaltante anche per orecchie non toccate dal morbo del maiale distruttore tanto più si entra nel vivo delle operazioni. Non convince del tutto, anche se rimane lontana dall’essere scadente, la prova vocale di J.R. Hayes, urlata e squinternata come potrebbe essere quella di un combo punk inglese degli anni d’oro di Discharge e GBH, non abbastanza efferata però da competere con le nefandezze in odore di deumanizzazione degli strumenti. Intendiamoci, nulla di irreperabile, ma è quel che basta a far perdere qualche lunghezza ai grinders di Washington rispetto ai già citati Cryptopsy e i seguenti Misery Index, i due trionfatori del giorno in tema di brutalità senza limiti. Tra le note di colore segnaliamo un tizio della crew salito sul palco vestito da maiale, scena apprezzata sia dalla band che dal pubblico. Un po’ di ilarità in un mare di violenza belluina ci sta sempre bene.

SPIRITUAL BEGGARS

VALLEY

15.55 – 16.40

 Quando ti capita di ammirare gente come i Spiritual Beggars, ti rendi conto che l’attaccamento quasi patologico di molti ascoltatori per i dinosauri dell’hard rock sia davvero patetico. Non si capisce quale sia il senso di spendere attenzione e soldi per vecchie glorie spompe, appagate, orribilmente giovaniliste, quando ci sono band comunque esperte e di lungo corso come gli svedesi che ripercorrono i suoni classici del rock con una freschezza e una ispirazione che personaggi con sessant’anni e oltre sul groppone non si possono fatalmente permettere. Sul Valley va infatti in scena un concerto paradigmatico di quello che dovrebbe trasmettere un ensemble di hard pulsante e vitale, illuminato artisticamente e in possesso di tutti i trucchi del mestiere per tenere in pugno la folla. Michael Amott si presenta con una fascia di stoffa legata in testa da perfetto figlio dei fiori, a contornare capelli tinti in modo quantomeno discutibile e una faccia che dir tirata è nulla. Fa una migliore impressione il singer Apollo Papathanasio,  che incontra subito i favori con una voce piena, calda e che non ha titubanze a salire su note alte. Gli Spiritual Beggars si incuneano nello spazio lasciato libero da Deep Purple, Whtesnake e Rainbow nello spettro del rock duro elegante e con un ampio numero di sfumature, e vi lasciano la propria indelebile impronta. Le tastiere molto vintage di Per Wiberg si legano benissimo al virtuosismo ebbro di feeling di Amott, l’emulsione così generata ha qualche puntata nello stoner che ravviva ulteriormente i pezzi, mentre i vocalizzi privi di stonature di Papathanasio rapiscono l’attenzione e scatenano un’ampia partecipazione nei chorus e non solo. La rotondità infuocata del suono viene esaltata dal sound roboante e impeccabile del Valley, e non esitiamo a mettere il concerto degli svedesi tra quelli pienamente riusciti. Personalmente avrei apprezzato un paio di pezzi in più e qualche botta e risposta col pubblico in meno, anche se mi rendo conto che questo tipo di coinvolgimento compiace una discreta porzione dei presenti, e allora può andar bene anche così.

MISERY INDEX

ALTAR

16.45 – 17.35

 Uragano, tornado, maremoto, tsunami, chiamatelo come volete, il concerto dei Misery Index è stata l’ennesima impennata verso il Valhalla dell’Hellfest 2013. I death/grinders di Baltimora hanno dimostrato di essere ben più che un manipolo di onesti e nerboruti picchiatori e hanno esplicitato tutte le ragioni per cui negli anni sono passati da act di apertura delle ostilità nei grandi appuntamenti festivalieri, a nome da porre nei piani alti del cartellone. E’ un riffing tesissimo ed irregolare, istigato alla ribellione isterica, che ci spurga e ci depura, quello rapinosamente disegnato, o meglio spruzzato come taglio netto all’arteria, da Mark Kloeppel e Darrin Morris, abilissimi nel devolvere una perizia strumentale di alto profilo alla causa del grind parossistico, innervato da una certa qual corazza death. Il collo viene serrato da una presa da cui è improponibile cercare di liberarsi, non ci sono margini per sfuggire all’assalto, irretiti come siamo anche da una linea di fuoco di basso e batteria gentile come un M-16 lasciato sfogare in battaglia. Il fiocchetto al pacchetto bomba è posto dal doppio vociare del succitato Knoeppel e del bassista Jason Netherton, entrambi implacabili nel togliere il minimo respiro che potrebbero essersi lasciati scappare dagli artigli strumentali. I Nostri badano al sodo, niente facezie da intrattenitori e cabarettisti, solo tonnellate di musica incendiaria sono riversate su un’audience ricettiva e devota che, forse è inutile sottolinearlo, non si fa pregare nell’indulgere in pogo casinaro, headbanging come se avessimo un elastico di gomma al posto delle vertebre, stasi complete da visione dell’Apocalisse. Si alternano un po’ questi stati d’animo e queste reazioni alla visione dei Misery Index, mirabili nel compendiare in torbide schegge elaborate ma stringate malessere, disgusto e voglia di reagire a soprusi e ingiustizie di cui il mondo non ci fai mancare la sua dose quotidiana. L’orgia di blast-beat e seghe circolari travestite di chitarra si chiude in leggero anticipo, come ogni buon ensemble grind insegna, e ci rilascia un beato sentimento di soddisfazione, che solo le mattanze ben congegnate ci possono elargire.

VOIVOD

MAINSTAGE 2

18.40 – 19.30

Altra tappa della terza età dei Voivod, una nuova giovinezza inventata di sana pianta dai canadesi nei momenti terribili in cui, dopo la morte di Piggy, una triste fine si stagliava all’orizzonte. Away e compagni stanno attraversando una delle fasi di massima popolarità, coalizzando vecchi affezionatissimi che non speravano più di rincontrare il gruppo così coeso e in palla e giovani dagli ascolti un po’ evoluti rispetto alla media dei coetanei, che si lanciano nei viaggi siderali techno-thrash con la curiosità degli esploratori più coraggiosi. La riappropriazione del nocciolo duro thrashy di “Killing Technology” e “Dimension Hatross” constatata dal riuscitissimo “Target Earth” si estrinseca a maggior ragione nel contesto live, che vede i Voivod idealmente sfidare i “nipoti” Vektor sul medesimo terreno. Un tratto peculiare di questa incarnazione voivodiana è l’estrema rilassatezza, mi verrebbe da dire beatitudine, che traspare dai volti dei musicisti, contenti e felici di poter essere di fronte a un pubblico che li adora, a suonare impeccabilmente una musica ostica e meravigliosa, diventata iconica di un modo di intendere l’arte delle sette note. Anche se ormai abbiamo imparato a conoscerlo, e ad apprezzarlo, l’attenzione tende a focalizzarsi sul chitarrista Chewy, ed egli ci ripaga con la sua personale rivisitazione delle sacre scritture di Piggy, florilegio di dissonanze di un universo parallelo e riff scriteriatamente fuori dall’ordinario. Blacky si ammazza di headbanging, Away imbastisce rullate labirintiche su un drum-set minimale più facile da vedersi in ambito stoner-doom che nel contesto thrash, Snake invece si muove gattesco per lo stage, fa mosse strane, atteggia il faccione con smorfie di ogni tipo, mima le emozioni surreali suscitate dalle canzoni e canta al meglio delle sue possibilità. Si pesca a strascico dall’ultima fatica, formidabilmente rappresentata da “Target Earth”, “Mechanical Mind”, “Kluskap O’Kom”, e godiamo di alcune singole prestazioni diosiniache sui pezzi simbolo, “Tribal Convictions” e “Forgotten In Space”. Quest’ultima è stata praticamente portata a nuova vita, all’Hellfest è stata sviscerata con una accuratezza, una precisione, un feeling delirante e non replicabile che ha lasciato di stucco, perché riuscire non solo a eccitare, ma addirittura a sorprendere, ascoltatori scafati con una canzone conosciutissima è impresa degna di nota. Dopo aver seguito tutta l’esibizione a bordo palco con il trasposto di un quindicenne al suo primo concerto, Phil Anselmo irrompe on stage e inizia ad abbracciare, stritolandoli come un boa, tutti i componenti della formazione, sdilinquendosi in salamelecchi e manifestazioni di sincero affetto. Poi, super chicca, duetta con Snake per la pinkfloydiana “Astronomy Domine”. L’eccezionalità dell’evento porta a una forte partecipazione anche chi fino a quel punto era rimasto abbastanza distaccato, visto l’appeal di un personaggio come Anselmo. Fa appena in tempo a salutare di nuovo tutti, e a dare l’idea di non voler più sloggiare dal palco, il buon Phil che direttamente dall’altro Mainstage, sul quale si era esibito poco prima, arriva Jason Newsted, transitato dai Voivod per il disco omonimo e grande amico della band. Anche lui si becca la sua bella dose di applausi, prima di dar vita a una infuocata “Voivod” a doppio basso e portatrice di una arcaica violenza primordiale, la stessa di quando fu proposta per la prima volta tra i solchi di “War And Pain”. Pianeta Terra colpito e affondato.

MOONSPELL

ALTAR

20.40 – 21.40

 Li avevo un po’ abbandonati negli ultimi anni, sono sincero. Poi poco prima dell’Hellfest, diciamo a un mesetto dall’evento, ho rimesso “Irreligious” in macchina. Ancora quella sottile magia, quella licantropica seduzione, quell’ammaliante ululato rauco, i graffi delicati e romantici delle chitarre, un’originalità che non è venuta meno negli anni, e sono tanti, che il disco ha sul groppone. Ecco allora che il concerto dei Moonspell è diventato una delle tappe chiave dell’Hellfest 2013, un qualcosa di non prescindibile. I lusitani, superfluo dirlo, non hanno tradito. Unica pecca, a loro non addebitabile, una cassa troppo alta e leggermente fastidiosa nelle parti veloci, ma ci possiamo passare sopra vista la performance travolgente di Ribeiro e compagni. Il mastermind arriva on-stage con una maschera di metallo a ricoprirgli il volto, che ne sottolinea la natura guerriera e la combattività con cui calca le scene, sulle note di “Axis Mundi”. Trattasi della maschera medievale che ricopre il volto delle due figure femminee sulla copertina di “Alpha Noir”, la cui title-track arriva come secondo brano della serata.  A Pedro Paixão tocca il compito più gravoso, ossia dividersi tra le tastiere e la chitarra, opera complicata nella quale si destreggia senza sbavature e mettendoci tutto il sentimento che ha reso i Moonspell un caso a parte della scena extreme metal, proprio per quel calore distillato in ogni nota  che nessun altro riesce a instillare nella propria musica. L’architrave della band sono il tastierista/chitarrista e il frontman, ma non c’è dubbio che gli altri tre non siano dei soprammobili e infondano, soprattutto la solista di Morning Blade, il pathos e il tiro necessario a far accendere di fulgore canzoni già di per sé impeccabili. Fernando è seduttore e carnefice, flagella l’audience di un cantato profondo, quasi sempre sporcato di rabbia animalesca e insieme umanamente tragica. I toni puliti sono riservati alla megaclassica “Opium”, sentitissima ma non impeccabile, e alla quasi folk “Ataegina”, ma è quando il romanticismo affonda nella crudeltà sanguinaria che i Moonspell diventano implacabili e fanno ribollire gli animi sul serio. “Night Eternal” e “Vampiria” schizzano sangue vermiglio, Fernando le canta posseduto e assatanato, arrivando ancora un passo più avanti sulla strada senza ritorno verso la perdizione completa nella doppietta finale a prova di mancamento. Penultima in scaletta, la canzone summa del pensiero-Moonspell, la ferina invocazione di “Alma Mater”, che mi è apparsa in questa sede singolarmente sublime e infine la follia delle notti di luna piena narrata vividamente in “Full Moon Madness”, con il latrato ben modulato di Ribeiro a scavarsi un posto di prestigio nella mente di ognuno degli accoliti. Al netto di un bilanciamento dei suoni perfettibile, un’ora della propria vita molto ben spesa.

MARDUK

TEMPLE

21.45 – 22.45

 In una contesa accesissima, combattuta a colpi di deliri assortiti e tuffi al cuore di impronosticabile entità da parte di un fracco di band che mi hanno strappato l’anima, l’hanno innalzata, deturpata, incendiata, polverizzata e fatta trasmigrare in dimensioni extraterrestri, non pensavo che il vincitore potesse essere questo. Tutto mi sarei immaginato, ma non di consacrare i Marduk come sovrani assoluti, seppure di un soffio su un masnada ben selezionata, di questo Hellfest 2013. Li avevo visti in un No Mercy nel lontano 2003, con altra formazione, quella di Legion e di Fredrik Andersson alle pelli e un po’ la mia poca dimestichezza col black all’epoca, un po’ i suoni traballanti, un po’ se non erro un’esecuzione fin troppo basilare, non mi avevano detto nulla. Avevo rivisto il giudizio nel 2008 quando li avevo apprezzati come validissimo antipasto dei Morbid Angel in una delle ultime serate di vita del Rolling Stones, in una fredda serata dicembrina. L’olocausto di domenica 23 giugno, perpetrato per un’ora secca su un Temple quanto mai ferale, rientra però tra gli acuti assoluti, i marchi indelebili, gli sfregi insanabili a un vissuto metallico nel quale fatico a ritrovare la memoria di una tale manifestazione di malvagità. La scossa ricevuta nei primi dieci-quindici secondi del primo pezzo, con la chitarra sibilante, zanzarosa il giusto e trapanante di Morgan ad accoltellarmi in pieno stomaco, il drumming rintoccante torture atroci di Lars Broddesson a rintronarmi il capo e lo stupro vocale di Mortuus a strapparmi ogni centimetro di pelle me la ricorderò per sempre. E una volta saggiato un impatto frontale tanto deflagrante, non sono riuscito a capacitarmi di come abbiano retto costantemente velocità allucinanti, una presa ferrea sul pubblico, una conturbante sensazione di odio cieco elevato ai massimi livelli, un sovraccarico strumentale di furia satanica inappagata che miete vittime a ritmi industriali. I suoni sono quanto di meglio si possa desiderare, l’atteggiamento dei quattro è arcigno, arrogantemente dittatoriale nell’interpretare lo show come una medievale seduta inquisitoria in cui nessuna sofferenza viene risparmiata alla vittima. Le luci sempre basse conferiscono un’aurea ancora più sinistra ai pittati musicisti, dei quali proviamo un timore ancestrale mentre dispensano atomiche di un black brutale e incandescente. In uno scenario di ricerca esasperata della speed of light spiccano tre brani della faccia articolata ed epica dei Marduk, suonati anch’essi con una tensione e un respiro greve, fetido, che non ha affatto alleggerito la cappa di morte aleggiante nel tendone. L’aggressione vocale di Mortuus fa male e infetta come poche cose a questo mondo, Morgan è un riff maker portentoso e un esecutore di conclamata bravura e se pure il basso, pur comprimario, riesce a piantarsi nella carne, allora capite bene che non c’è speranza di salvezza. Pensate agli Slayer a 78 giri, frullateli nella pece, eclissate il sole e buttateli in un vulcano ardente e forse proverete quel misto di paura, dolore e atroce perversione che i Marduk sanno regalare live. Non so dirvi della scaletta, confesso una ignoranza completa sul repertorio degli svedesi, escluso “Panzer Division Marduk”, da cui arriva quello che per me è stato il momento simbolo del concerto, per via di un ritornello bene in mostra e sfrontatamente provocatorio: “Christ Raping Black Metal” diventa il mio inno ufficiale dell’Hellfest di quest’anno, il black non è mai risuonato così bene nelle mie orecchie.

HYPOCRISY

ALTAR

22.50 – 23.50

 E’ tardi e siamo quasi in conclusione di una tre giorni mortifera, appagante ma anche tremendamente faticosa. L’armageddon dei Marduk porterebbe a una naturale voglia di decompressione, e invece no, cinque minuti d’orologio sono la cartilagine di riposo che ci separa da un’altra fulminazione da alta tensione toccata senza le opportune precauzioni: Hypocrisy. Ci arrivo con quella improvvida impreparazione che lascia piacevolmente stupiti quando le casse sparano le prime note. Difatti Peter Tägtren, poco seguito dal sottoscritto nelle sue ultime evoluzioni, mantiene una voce e un killier instict inossidabili come le sue occhiaie e dimostra di aver creato un’idea di metal a dir poco dirompente e originale, il cui marchio appare impresso su tutte le canzoni, che pure arrivano da una selva di dischi ormai sterminata (“End Of Disclosure”, uscito quest’anno, è la dodicesima fatica in studio!). Una sorta di armonia digitale permea ogni istanza dell’esibizione, disegnata da tastiere campionate ma anche dalla costruzione dei pezzi e dalle melodie incise da chitarre alienanti, che al primigenio e decisivo gusto death metal uniscono il modern metal più intelligente e riuscito di ultima generazione, estrapolando da questo abbraccio fraterno di suoni per certi versi antitetici una soluzione vincente, mirabilmente catchy e brutale. Sembra insensato, eppure ho l’impressione che gli Hypocrisy infondano  una scorrevolezza quasi pop al death, ne diano quindi una interpretazione eterodossa che non cade nella stravaganza, li mantiene metallici e feroci nel midollo ma dà anche un aggancio facile facile ai non adepti di lungo corso. Il quartetto è in stato di grazia e non sbaglia un colpo, il leader si accorge del perfetto equilibrio degli elementi e si lascia andare al massimo, non apparendo mai affannato dal doppio ruolo di chitarrista e cantante, cosa che probabilmente gli riuscirebbe naturale anche durante il sonno. E’ un’ovazione meritatissima quella che chiude l’ennesima gloriosa prestazione andata in scena sull’Altar.

SWANS

VALLEY

23.55 – 0.55

 Come la vogliamo definire? Una sfida, un’esecuzione, una tortura oltremodo pittoresca? Tacciarla di rumorismo o innalzarla all’avanguardia più temeraria, e quindi per forza di cose incomprensibile a quasi tutti tranne agli eletti iper-nerd che soli nell’universo si sentono di capirla? Comunque la si consideri, la musica degli Swans sgomenta, spiazza, pone dubbi e interrogativi a cui non si può dare una risposta univoca. O meglio, le risposte proprio non esistono. La cosa più semplice per provare a capire un mondo così sottosopra, spolpato di ogni logica e dipinto a colori che dir bizzarri è fin banale, è tentare di apprezzare l’operato dei newyorkesi dal vivo. L’Hellfest, proprio negli ultimi giorni prima del concerto, decide di giocare pesante e di raddoppiare lo slot a disposizione di questi vecchi sperimentatori, così che si ritrovano con ben due ore a disposizione per compiere nefandezze a go-go. E’ l’ultima sera del festival, quella dei sopravvissuti, le maree umane del giorno prima, quello dei Kiss, si sono ridotte a truppe di incrollabili fedeli pronti a giocarsi quel poco di lucidità mentale rimasta al cospetto di coloro che la mente sana non l’hanno mai avuta. I primi venti minuti circa mettono bene in chiaro la situazione: un arpeggio sfinente retto da Gira e dall’altro chitarrista, rotto da una nenia al rallenty del sommo leader e da un movimento di non so che aggeggi da parte di un moderno vichingo, Thor Harris, impegnato a darsi da fare, a torso nudo in una nottata da 10 gradi e umidità altina, tra tamburi, tromba, tastiere e altri oggetti non sempre ben identificabili. L’audience è fatalmente non foltissima, ma nemmeno troppo sparuta, e assiste inebetita, incapace di reagire in qualsiasi maniera a un qualcosa che sfugge a ogni legge, ogni principio, non ha la creanza di darti un appiglio, un aiuto per comprendere l’incomprensibile. Gli effettacci di Christoph Hahn, pazzamente preso a manovrare robaccia distorta della peggior specie in abito impeccabile, sono forse la cosa più squinternata in sé e per sé, ma è l’insieme che proprio è inspiegabile. Per dirne una, solo l’uso annichilente dei piatti da parte di Phil Puleo, che perpetua a dismisura patterns di solito usati in chiusura dei pezzi, sono un’anomalia difficile da comprendere, oppure certi attacchi di rumorismo epilettico che pensi passino in fretta e invece vanno avanti, vanno avanti, e sfociano in altri deliri ancora più enigmatici. Nel marasma generato, ci sono sprazzi se non di orecchiabilità, quella è bandita in toto, almeno di una fisicità quasi umana, che poi rimanda all’apocalisse del post metal di cui gli Swans sono tra i principali precursori. L’assurdità musicale non ha potuto prescindere da un contesto visivo che, senza neanche cercarlo a tutti i costi, ha dato delle perle che non credo potrò ammirare da parte di nessun altro, campassi anche cent’anni (e mo’ ce tocchiamo…). Mi viene in mente lo scuotimento da ballerino in tarda età, un po’ da anzianotto che vuole fare il giovane, un po’ da Ruggero De Ceglie nelle sue tipiche crisi pre e post sincope, che attraversa Gira in una delle parti più ritmate, o il pezzo che inizia con i fischietti in bocca e palle di metallo scosse davanti al microfono e poi, su tutto il resto, l’impagabile urlo al pubblico, a bocca spalancata e senza microfono davanti di tutta la band alla fine di un brano. Lì ho pensato: “Mio Dio, ma tutto ciò è reale? Ma dove siamo finiti?”. Ecco, difficilmente arriverò a capirci qualcosa della musica di questi pazzi, ma altrettanto difficilmente mi perderò un loro prossimo show su suolo italiano, se mai avremo il piacere di rivederli dalle nostre parti. Un’esperienza unica, uno dei tanti motivi per cui l’Hellfest è il top del top del top un po’ di tutto, non solo dei festival metal.