La ventosa giornata dell’Epifania, al calare delle tenebre, propone in quel di Arese il primo appuntamento live degno di nota del 2012. Sono di scena gli Hour Of Penance, combo brutal death romano sulla cresta dell’onda grazie agli ottimi riscontri per “The Vile Conception” e “Paradogma”, album che hanno consentito ai nostri addirittura la convocazione alla mensa degli Dei, al secolo Hellfest, per l’anno in corso. Impegnati a gennaio in un minitour italiano, arrivano allo SGA in compagnia di tre band rappresentanti, in modalità diverse ma con alcune percettibili similitudini, il pulsante panorama metalcore nostrano.
Prima di passare alla disamina di quanto accaduto sul palco, spenderei due parole per la coraggiosa attività che lo SGA sta portando avanti: in una struttura minimale e ridotta all’osso sia per dimensioni che per dotazioni tecniche, negli ultimi anni si sono succeduti concerti di altissimo profilo, rappresentativi del meglio espresso ultimamente dall’undeground extreme metal, hardcore e sonorità alternative poco convenzionali. Con prezzi, val la pena sottolinearlo, alla portata di ogni tasca. Unico problema, la mancanza di un impianto di riscaldamento come si conviene (si sta parlando di uno spazio ricavato all’interno di un container…), che rende l’ambiente per forza di cose non confortevolissimo con il clima invernale. Poco male, basta non dimenticarsi il giubbotto a casa per godere pienamente dell’operato delle band chiamate a suonare, purtroppo davanti a un pubblico eccessivamente sparuto.
Aprono gli Shake Well Before, combo con base tra il pavese e la provincia di Genova e dai piedi ben piantati in un metalcore livido e dai marcati accenti groovy. Premetto che non sono un grande amante del genere e faccio molto fatica ad apprezzarlo, però in questo caso devo dire che se da un lato gli schemi proposti sono abbastanza prevedibili, la tensione continua che attraversa i pezzi e la mancanza di vere e proprie aperture melodiche fa alzare il pollice a favore del gruppo.
Il difetto più evidente è la poca mobilità della sezione ritmica, troppo spesso abbarbicata su cadenzati monotoni, scossi soltanto dalle urlate del singer. Quando gli Shake Well Before danno maggior impulso alla propria azione, pur senza scintillare, l’impressione generale è invece discreta e, almeno in sede live, i pezzi riescono ad essere sufficientemente coinvolgenti. Da migliorare anche lo stage acting, ad esclusione del cantante il resto dei musicisti è fin troppo statico e un po’ timido nel rapportarsi al pubblico. Nonostante il materiale sia piuttosto omogeneo e non ci siano grosse punte di bravura nei brani proposti la band fa il suo dovere e non stanca, cosa affatto scontata nel metalcore duro e puro. In linea generale manca un po’ di dinamismo, il resto va molto a gusti personali.
Saliamo qualche gradino nella scala sociale del metalcore di oggigiorno e ci troviamo di fronte agli Under The Ocean, da poco fuori con l’esordio “Gates“ e un filo più portati al metal estremo rispetto a chi li ha preceduti sulle assi dello SGA. Aumenta il coefficiente di imprevedibilità e la frenesia delle partiture, soprattutto il drummer fa schizzare da tutte le parti i pezzi come una palla impazzita, anche se non vengono offerte sperimentazioni o particolari divagazioni sul tema. Il tasso di brutalità non va mai a scendere, gli Under The Ocean si incuneano nel lato oscuro dell’agire umano e lo esplorano fino in fondo, senza regalare raggi di luce. Puntando ossessivamente su registri cupi e nevrotici, anche in assenza di soluzioni geniali e con una propensione all’aspetto “core” superiore al disco, più orientato a dettami brutal, lo show complessivamente funziona; dove non arriva l’ispida matassa strumentale ci pensa il cantato mutevole di Isacco, interprete apprezzabile per energia espressa e capacità di modulare diversi registri canori.
Si nota in questo caso una minimamente sviluppata propensione all’intrattenimento, e anche se non sono aiutati dalla freddezza del pubblico gli Under The Ocean anche sotto questo aspetto si guadagnano la pagnotta. Avanti il prossimo.
Un urlo dalla valle. Dura la vita per le band della Valtellina, km e km per portare in giro la propria musica di fronte a quattro gatti, da qualsiasi parte si debba andare c’è sempre da sobbarcarsi trasferte infinite e non certo per chissà quali ricompense. Accettando questa ineluttabile realtà e mettendocela tutta per portare in giro il proprio verbo, gli As Likely As Not affrontano con ben pochi tentennamenti la sfida di tener desta un’audience abbastanza apatica come quella di stasera. I ragazzi viaggiano su coordinate similari ai primi due gruppi, quindi un metalcore muscolare, nervoso, povero di melodia e sufficientemente bastardo per il metallaro medio. Si tratta di un’altra esibizione divertente, frutto dell’operato di una band professionale, coesa, convinta di quello che fa ma che deve ancora trovare un modo per uscire dal guscio e distinguersi tra decine di act con idee di partenza molto vicine. I pezzi, infatti, per quanto sostenuti e mai smorzati da movimenti più pacati suonano abbastanza standardizzati, avrebbero bisogno di un assemblaggio più meticoloso, diciamo una scrittura più complessa, ricca di punteggiature non per forza “core”. Gli As Likely As Not sembrano per ora dei buoni gregari che mettono in mostra fedelmente un repertorio già abbondantemente proposto in altra sede, mentre di idee 100% loro non traspare molto. Trattandosi di un live, questi difetti vanno leggermente in secondo piano, anche senza sprizzare scintille gli As Likely As Not portano a termine una performance solida e sudata, che merita tutto il nostro rispetto.
Finalmente lo SGA si popola un poco, tutti quelli che fino a quel momento hanno ciondolato fuori dal locale si radunano al suo interno per assistere allo show dei deathsters romani.
Personalmente era la prima volta che venivo in contatto con la musica dei quattro, per i quali sono stati spesi elogi a profusione negli ultimi anni. Alle prime note risalta subito che gli Hour Of Penance non siano un fenomeno pompato ad arte da etichette discografiche e riviste specializzate, ma una palla di fuoco lanciata nel cielo del death metal per cambiare la disposizione delle sue costellazioni. La pulizia esecutiva e il freddo controllo della bufera scaturita dagli strumenti sono di prim’ordine, un dedalo di riff minacciosi e tecnicamente ineccepibili si sussegue su un tappeto ritmico ondeggiante tra annichilimento totale e intricatezza disumana. La prova strumentale si unisce a un doppio cantato in cui le due voci si bilanciano perfettamente, mettendo in mostra incroci vocali parossistici, botta e risposta feroci e alcuni growl all’unisono che non lasciano scampo. Rispetto ai dischi va detto che si perde un po’ di incisività nelle voci, meno profonde e grasse di quanto si sente su cd, per quanto l’effetto complessivo rimanga pregevole e non vada perduta un’atmosfera di fondo opprimente, dittatoriale, un valido incrocio del meglio del death più dispotico e schiacciante promulgato da Morbid Angel, Deicide e Nile. Tralasciando infatti qualche debolezza delle growling vocals, il dipanarsi dei pezzi è impressionante, rasentando la perfezione per come questi si mantengono di facile presa a dispetto della poca linearità e per l’offerta, abbondante, di melodie malvagie, da intuire all’interno del massacro chitarristico piuttosto che rese palesemente in primo piano.
Smorza però la portata dello show la freddezza della formazione, la quale sembra essere alle prese con una session in sala prove e non protagonista di un concerto; a peggiorare le cose ci pensano gli accoliti, veramente troppo dimessi anche per gli headliner. Non ci vuole per forza una bolgia modello Cannibal Corpse a Wacken, basterebbe rendere manifesto il proprio apprezzamento per chi si sbatte sul palco a ravvivare un poco l’ambiente. Fatto sta che l’alchimia giusta col pubblico non si crea per niente, e anche il tempo dell’esibizione finisce per risentirne, visto che in quaranta minuti scarsi gli Hour Of Penance concludono la loro fatica. Vista la portata artistica del gruppo, poteva andare meglio, ma volendo vedere il bicchiere mezzo pieno possiamo dire di avere visto all’opera tre buoni act metalcore e un orco death metal dal gran presente e dal futuro probabilmente ancora migliore. Tanto ci basta per considerare riuscito questo mini-festival posto a chiusura delle feste.