Siete andati a vedere gli In Flames? Sì, vero? Non siete andati?!!? Perché? E’ successo qualcosa? Davvero ci avete rinunciato? Peccato, peccato, peccato!
Non c’è niente da fare, ormai anche gli scettici, i nostalgici dei tempi andati, i criticoni ad oltranza dovrebbero ammetterlo; gli In Flames sono una delle realtà più clamorose dell’heavy moderno, la schiera di dischi originali ed innovativi messi sul mercato a getto continuo negli ultimi anni ha ampiamente alzato gli svedesi all’altezza dei Grandi, ed è difficile rimanere impassibili di fronte a un percorso di crescita così coraggioso ed eclettico, quanto in un primo tempo poco riconosciuto da audience e critica. Anders Friden e compagni se ne sono strafregati di tutto quello che gli è stato detto in questi anni, hanno percorso la loro strada senza curarsi di niente e nessuno e ora incassano il frutto dei loro azzardi, delle loro sperimentazioni, della loro visionarietà. E come i Migliori sempre insegnano, suffragano il loro status con performance live stellari.
La serata però non nasce e finisce con gli Infiammati, vede un suo prologo nelle esibizioni di Sonic Syndicate e Gojira. Sui primi, francamente, preferirei stendere un velo pietoso, non che mi dispiaccia infierire sugli ensemble di poco valore, però è inutile stare a rimestare nel torbido, dai, un po’ di pietà ogni tanto non fa male. Fa sorridere pensare al (relativo) successo dei giovani tedeschi, tanto povera di contenuti è la loro musica, metal plastificato senz’arte né parte, scontato all’inverosimile e pregno di ogni stereotipo metalcore. Eppure, vedendo la buona partecipazione del frammento più avanzato degli astanti, sembrerebbe quasi che qualcuno prenda sul serio i loro dischi. Ma….
Passata questa mezz’ora di nulla rumoroso, si comincia a parlare di cose serie coi Gojira, quartetto francese ben recensito un po’ ovunque con la loro ultima fatica, The Way Of All Flesh.
Non sono una bufala, gli elogi spesi nei loro confronti corrispondono al vero, la prova on-stage rende onore ad un complesso estremo fluido nell’inseguire ora le trame dei Meshuggah in versione più immediata, ora le visioni indefinite di Isis e Neurosis, e ci sta pure, nel putiferio di accelerate psicotiche e alienazioni a profusione, un tocco di thrash moderno e industrialoide, ritmico e sinuosamente sincopato. I 45’ datici in pasto prima bloccano il pubblico in uno stato ipnotico, indi lo scuotono fino a un convinto headbanging e a qualche accenno di mosh. Al loro battesimo italiano, non notiamo alcuna loro incertezza, al contrario la tensione continua dei loro pezzi, l’ermetismo di fondo di certe strutture, le improvvise scariche elettriche si piantano come chiodi appuntiti nelle carni dei presenti, e non escono tanto facilmente. Luci rosse e blu incorniciano le sagome sempre più indistinte dei quattro francesi, tolti idealmente dal palco e gettati in una dimensione indistinta, foriera di suoni inusuali e affascinanti, difficilmente inquadrabili; i Gojira lasciano tra applausi molto convinti e dimostrano di essere all’altezza del loro ruolo di prima spalla dei fuoriclasse scandinavi.
Avanzano le truppe, si infoltiscono le prime file, l’aria si scalda, un telo bianco scende a coprire il palco da occhi indiscreti e si contano i minuti mancanti allo scoccare dell’ora X, prevista per le 21 spaccate.
Per aprire degnamente un concerto tanto atteso, dopo la beffa meteorologica di luglio all’Evolution, ci vorrebbe un colpo di teatro, uno spiazzamento completo delle aspettative dei fans; e gli In Flames questo fanno, perché mentre ancora solo le ombre si intravedono al di là del lenzuolo, parte il dolce giro di chitarra di The Chosen Pessimist, le ombre si allungano e si rimpiccioliscono sul lenzuolo frapposto tra noi e la band per tutta la prima, lenta, porzione di song.
Il sipario cade verso la fine del brano, restituendoci i cinque musicisti in carne, ossa, strumenti. Delirio, pieno e onnipotente delirio, la temperatura sale in un istante a livelli equatoriali, un turbinare di corpi senza ordine né disciplina vibra irrequieto sotto palco. I brividi si accavallano all’agonismo esagitato di chi accetta lo scontro e vola di qua e di là per la venue, il fiato si mozza e la tensione esplode sul singolo Mirror’s Truth, che flirta da vicino con un estratto dal precedente Come Clarity, Vanishing Point. Da qui in avanti, e sia da indizio del feeling pazzesco instaurato all’Alcatraz dagli In Flames, l’ordine delle songs, nella mia testa, va un po’ a farsi benedire, ma provateci voi a star dietro alle botte emotive, prima ancora che fisiche, in arrivo dallo stage; l’avreste immaginato, ad esempio, di risentire The Hive, pezzo bestiale di Whoracle? Bene, stasera c’è proprio da strabuzzare gli occhi e rimanere a bocca spalancata, perché questo è solo il primo di una lunga serie di mirati ripescaggi dal passato. La parte del leone la fa però l’ultimo nato, e c’è di che scorticarsi la gola sulle meraviglie di Alias, Sleepless Again, Move Through Me, tanto per ribadire quale sublime equilibrio di melodie di facile presa, modernità e potenza abbiano partorito gli svedesi anche stavolta.
Friden lascia qualche scampolo di pausa ogni due-tre pezzi, giusto per non vedere cadere stremate a terra le prime file, incessanti nella loro opera di abbattimento vicendevole dei corpi, e gli altri quattro musicisti fagocitano l’energia dell’audience rigettandocela addosso sotto le spoglie di un suono di purezza e durezza diamantina. Ci sono alcune esecuzioni, nella rosa di infinito piacere fattaci accarezzare stasera, che meritano una citazione particolare; System, suonata su livelli di violenza da gelare il sangue, le riesumazioni di Colony e Astronauts And Satellites, il medley da Jester Race, note da tanto tempo non più accarezzate on-stage. Difficile da dimenticare, e nient’affatto consigliata ai deboli di cuore, la scorribanda di Pinball Map, o il trasporto alienante della pseudo-ballad Come Clarity; per non parlare dei beat impazziti di Cloud Connected, e del trittico conclusivo, giunto a siglare la parola fine a una performance di 1h45’ filata, con una ventina di pezzi e più pescati a piene mani da ogni angolo delle discografia dei pionieri del death melodico.
Ecco, il trittico conclusivo, solo questo avrebbe valso la pena di muovere il culo da casa, venire all’Alcatraz e sottoporsi al devasto del pit. The Quiet Place – Trigger – Take This Life, sparateci così, come se fossero la cosa più normale del mondo, e le ultime gocce del (tanto) sudore regalato alla causa del metallo scendono copiose in mille rivoli da ogni fan che si rispetti. I led si spengono, la musica sfuma dopo una serata di adrenalina pura, un’altra battaglia campale ha visto trionfare i padroni dell’heavy odierno. Mille di queste notti a chiunque ama questa musica…