La sera del pieno autunno bolognese, così fredda e desolante, è un momento che ben si accosta alle fosche tinte dell’Into Darkness Festival, che alla sua seconda edizione approda per la prima volta sul suolo italico con un carico di artisti di tutto rispetto: un’occasione ghiotta per tutti gli amanti del lato oscuro del metal. Con nomi del calibro di PAIN e Moonspell in cartellone, è insolito non trovare un manipolo impaziente in biglietteria. Sono in pochi a fare la fila per entrare, ma nel giro di un’ora tutto andrà come previsto e l’Estragon si riempirà di punto in bianco.
L’arduo compito di aprire la serata va ai greci Scar of the Sun. I giovani ellenici portano la loro breve setlist, composta da brani tratti da “A series of unfortunate concurrencies”, il loro debut album, con grande energia ed entusiasmo, incuriosendo i pochi presenti e riuscendo a coinvolgerli. Tuttavia sono ben percepibili in loro quell’ingenuità e quella tensione tipiche dell’inesperienza, che purtroppo rendono la performance della band ellenica un tantino legnosa. Senza poi tener conto della gaffe con cui lasciano il pubblico bolognese, salutando Milano al posto del capoluogo emiliano. Una svista dovuta al nervosismo? Un lapsus? Chissà. È certo che gli spettatori non gradiscono simili disattenzioni.
Lake of Tears
All’arrivo sul palco degli svedesi Lake of Tears le fila del pubblico vanno ingrossandosi, e a ragione. Daniel Brennare e soci regalano all’Estragon una prestazione da dieci e lode: senza sbagliare un colpo, plasmano il pubblico a loro piacimento, gestendo il palco con sicurezza. La chiave del loro successo va attribuita al carisma del frontman e alla sua voce graffiante, precisa come e più che negli album. Gli scandinavi approfittano del festival per promuovere il loro ultimo lavoro in studio: gran parte della scaletta contiene brani tratti da “Illwill”, incluse la title track, “Demon you/ Lily Anne”, e “House of the Setting Sun”. La connotazione death che il sound del gruppo ha preso a seguito della reunion di fine 2003 funziona eccome: i Lake of Tears sono consapevoli del fatto che evolversi è ciò che mantiene viva una band che è sulla scena da più di diciotto anni. Lasciano agli Swallow the Sun una folla entusiasta e soddisfatta.
Swallow the Sun
I finlandesi Swallow the Sun portano sul palco un’impressionante drammaticità. Tanto attori quanto musicisti, propongono ai presenti un sound d’atmosfera che si sposa perfettamente con il gioco di luci e nebbia, e il locale in un secondo si trasforma in un cimitero dimenticato. La tensione si taglia con il coltello, il pubblico è confuso ed intrigato dalle sonorità lugubri, che lasciano spazio a ritmiche più spinte e incalzanti nella seconda parte dell’intenso, anche se breve, set: tre dei sei brani sono infatti i più riusciti di “Emerald Forest and the Blackbird”, quinto album dei finnici, osannato dalla critica internazionale per la profondità di concetto e la cura dei dettagli. Tra dolci vocalizzi di fanciulla, tocchi di piano e disperati lamenti d’organo guidati dalla voce cupa e baritonale di Mikko Kotamäki, il tempo a disposizione degli Swallow the Sun scade in un battito di ciglia, e l’Estragon, ormai gremito, è pronto per i Moonspell.
Moonspell
L’ingresso di Fernando Ribeiro (che si presenta in scena con un elmo da battaglia) e soci viene festeggiato con un boato. La band portoghese festeggia il suo ventesimo compleanno proponendo un set che include i grandi classici del loro primo album, “Wolfheart”, e degli estratti dal doppio album del 2012 “Alpha Noir – Omega White”. Il pubblico strepita, canta ogni pezzo, vecchio e nuovo, a squarciagola. Il sapiente mix di heavy, doom e death metal conquista tutti, in un’escalation di energia che raggiunge il culmine con “Vampiria”, “Alma Mater” e “Full Moon Madness”, finale col botto per la band più esplosiva della serata, a cui va dato il merito di aver fatto tremare il locale dalle fondamenta. I Moonspell possono lasciare la scena ai PAIN con la certezza di aver regalato ai presenti una prova di qualità stellare, degna di una band del loro calibro.
PAIN
All’arrivo di Peter Tägtgren e dei suoi musicisti di supporto il pubblico è pronto a sgomitare. Il carismatico frontman si offre agli spettatori in camicia di forza, e apre il set in chiave ironica con “The same old song”. Il pogo si scatena immediatamente, grazie alla svolta industrial che Tägtgren e soci danno alla serata. Anche per i PAIN il festival è un’occasione per promuoversi: è dal DVD “We come in peace”, in uscita il 16 novembre, che sono estratte le tre canzoni conclusive del set. E proprio durante il gran finale, con “Shut your mouth”, il versatile artista scandinavo ha la prova del calore dei suoi fan italiani: infatti non si accorge subito di un problema al suo microfono a causa dei fan che cantano a squarciagola insieme a lui. La performance di Tägtgren e soci è semplicemente impeccabile, l’indole sarcastica del vocalist (che dedica alle ragazze italiane la canzone “Dirty Woman”, dall’album del 2011 “You only live twice”) rende ogni brano assolutamente coinvolgente, l’esecuzione è perfetta sotto ogni punto di vista. L’esibizione dei PAIN è la chiusura ideale per una serata eccezionale come questa. La folla lascia il locale molto soddisfatta, in attesa di un altro evento memorabile quanto questo.