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INTO THE PIT 4

Certe cose sembrano proprio partire con il piede sbagliato. L’entusiasmo e la frenesia che mi avevano portato a contare i giorni e poi i minuti che mi avrebbero separato dall’evento hardcore dell’estate italiana piano piano hanno lasciato spazio a sconforto e frustrazione. La defezione di Shai Hulud per l’annoso e ormai consueto problema della mancanza di un cantante, il titolare che non mi lascia uscire prima dal lavoro e il mio socio di concerti che non può venire perché gli si è aggiunta una data all’improvviso. Dopo un paio d’ore passate a soppesare i pro e i contro decido di partire lo stesso. Le indicazioni sul sito del Magnolia sono perfette, tanto che per la prima volta ho raggiunto un locale a Milano senza perdermi. Giusto il tempo di entrare nella splendida cornice del parco dell’Idroscalo che attaccano a suonare i Set your goals. Che tempismo perfetto…

SET YOUR GOALS

Era da molto tempo che volevo vedere i SYG, artefici secondo alcuni di una vera e propria rinascita dell’hardcore melodico, grazie all’utilizzo di doppie voci e massicci breakdown. C’è da dire che la loro carriera è stata finora in costante declino, con un debut album strepitoso, il secondo decente e il terzo assolutamente ignobile, veramente troppo vicino a sonorità pop-punk californiane alla Mest. Comunque il quintetto dal vivo in quel del Magnolia regala una prova veramente superlativa, con gli elementi della band in palla e una scaletta perfetta per soddisfare anche i fans della prima ora. Dopo la pratica di brani nuovi e singoli sbrigata inizialmente, il concerto decolla con “Echoes”, con il pubblico che comincia a scaldarsi e i primi brividi che corrono lungo la schiena sentendo una cinquantina di kids sotto il palco con me urlare “don’t let this win over you!” all’unisono. I brani tratti dal primo album sono sicuramente quelli che coinvolgono maggiormente il pubblico, con un sano pogo e un po’ di circle pit al centro della pista, mentre sotto il palco i singalong la fanno da padroni, ad esempio nella strepitosa doppietta “Work in progress/We do it for the money, obviously!” e per l’intensa “Our ethos: a legacy to pass on”. Qunado il batterista lancia le bacchette tra il pubblico si nota un po’ di apprensione tra i fan, perché mancano ancora i pezzi più rappresentativi, ma per fortuna Matt Wilson capisce l’equivoco e rassicura il pubblico dicendo che ci sono ancora un paio di canzoni! “Gaia bleeds” è la prima delle due, un brano veramente roccioso che scatena un po’ di sano mosh e vede il chitarrista abbandonare il suo strumento per eseguire la parte in growl. La chiusura è ovviamente affidata a “Mutiny!”, vero e proprio cavallo di battaglia che vede i fan raccogliere le ultime energie e buttarsi per l’ultima volta sotto il palco. Veramente un gran bel concerto, con i Set your goals visibilmente divertiti ed esaltati dal calore dei fan italiani; alla fine Jordan Brown, un vero bonaccione, si lancia in un abbraccio collettivo con i supporters.

VERSE

Giusto il tempo di una birretta per rinfrescarmi un po’ le idee e recuperare le forze che attaccano a suonare i Verse sul secondo palco. Organizzazione veramente impeccabile che riduce al minimo i tempi morti per mantenere sempre alta l’adrenalina. Gli americani tornano dopo un paio di anni di stop e purtroppo la sosta e un rimpasto nella line-up si fanno sentire. L’hardcore new school dei Verse, così passionale, intenso e straziante su un album come Aggression, non riesce a regalare emozioni forti al sottoscritto in questo contesto, anche per colpa dei volumi delle chitarre un po’ bassi che creano un po’ di confusione a livello di suono globale. Una grossa fetta del pubblico comunque apprezza e lo spazio sotto il palco si trasforma magicamente in una piscina in cui i tuffi si sprecano. Viene suonata anche qualche canzone nuova che onestamente non mi entusiasma, ma forse è solo un’impressione. Le emozioni vere esplodono solo verso la fine del concerto, quando la mitica trilogia “Story of a free man” viene eseguita integralmente. Sentire l’intero pubblico che urla “walking away” è qualcosa che tocca il cuore e fa capire cosa voglia dire appartenere a una scena che sembra rinata. Discreto concerto, ma è evidente come gli americani siano ancora in una fase di rodaggio.

DEEZ NUTS

Giusto una decina di minuti d’attesa e poi tocca agli attesissimi australiani scatenare pogo, mosh e quant’altro sulle note del loro hardcore ampiamente infarcito di rap e attitudine gangsta. Il bello di questo festival è che, almeno secondo le mie impressioni, la gente per una volta abbia più voglia di divertirsi che di criticare l’attitudine e l’integrità dei gruppi. I Deez Nuts fanno rapcore, non hanno particolari velleità filosofiche se non far divertire il pubblico con sane e tammare bordate di violenza. E ci riescono alla grande. JJ Peters è un frontman carismatico, con l’aria da duro ma il sorriso da ragazzino entusiasta, capace di tenere il palco come pochi nel genere, aiutato da musicisti di valore, in particolare il notevolissimo bassista. La scaletta è semplicemente perfetta, anche se la varietà non è ovviamente di casa, ma questo è un dettaglio secondario quando c’è così tanto calore che viene dal palco. “Stay true” apre le danze scaldando per bene un pubblico che rimane carico per tutto lo show. “DTD” è un’altro di quei classici da urlare a sqarciagola, mentre scheggie impazzite come “Fuck what you think” e “Go veg” scatenano la furia dei temerari sotto il palco. Il finale è ovviamente riservato all’anthem “Like there’s no tomorrow”, accolta da un boato e cantata da tutti a pieni polmoni, per poi chiudere lo show con la tamarrissima e divertente “I hustle everyday”. Gran bel concerto, pacche sulle spalle tra i sopravvissuti al pit e tutti a casa? Non proprio, c’è ancora una sorpresa…

STRENGTH APPROACH

Vedo un po’ di movimento verso il secondo stage e decido di dare un’occhiata, più per curiosità che per altro. E invece ci sono gli Strength Approach sul palco che attacano a suonare! Fantastica la scelta di far chiudere un festival per una volta ad un gruppo italiano, anche se buona parte del pubblico dimostra la sua inettitudine levando le tende dopo aver visto il “gruppone straniero”. Scelta sbagliata, perché i romani hanno una carriera decennale alle spalle e dimostrano sul campo di meritare la posizione con un concerto energico e di cuore che coinvolge alla grande il centinaio di persone rimaste. Il quartetto ormai è una leggenda vivente ed il loro HC che mescola sapientemente la vecchia scuola newyorkese con certe ruvidità new school risulta veramente coivolgente dal vivo. Brani nuovi come “Do or die” e “With or without you” sono decisamente buoni ed energici, mentre i classici scaldano il cuore e smuovono le gambe. I discorsi di Alex, infarciti ovviamente di “daje”, sono a tratti esilaranti ma anche testimonianza di una scena che effettivamente sembra rinata al di là di mode passeggere. Gran bel concerto, chiuso con un bis in cui tutto il pubblico viene invitato a salire sul palco per mettere a dura prova le assi che hanno già sopportato ore di salti e corse. Ottimo finale per un festival strepitoso, organizzato benissimo e supportato da un pubblico numeroso e coinvolto.