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Jon Oliva’s Pain + Guests

Ho sempre considerato certi artisti una spanna sopra alla media: al di là delle qualità tecnico/esecutive e delle logiche compositive messe in campo, un concerto ha un certo ‘peso’ se si crea un’atmosfera tra gli artisti e l’audience. Ad alcuni piace ridere e scherzare, altri appaiono truci e imperscrutabili, altri ancora entrano, suonano e escono accennando un piccolo saluto. Ognuno ha il suo modo confortevole di creare l’atmosfera…Jon Oliva è un ‘riflessivo’; oltre alle corna in aria o alle continue sollecitazioni verso il pubblico, sa come intervallare aneddoti (sempre dal carattere agrodolce), come presentare vecchie glorie passate a quella fetta di pubblico che nemmeno era al mondo quando i Savatage sfornavano i primi lavori, e come ‘paracularsi’ quando la voce non gli viene più fuori come un tempo o quando anche la tecnologia gli gioca scherzetti curiosi. Come un evento in tutte le sue regole, prima del Mountain King appaiono sul palco diverse realtà (per lo più nostrane) che, giustamente, sfruttano a loro favore il carattere della serata.

MAX PIE

Entro nel Live Club ancora semivuoto (si riempirà per più di metà per gli headliner) e mi trovo il quartetto già in azione. Un metal energico e scaltro, caratterizzato da un frontman dalle notevoli potenzialità intrattenitivo/esecutive, eseguito con dignità e tanto sudore. Mi godo un paio di songs prima che la loro mezz’oretta volga al termine. Troppo poco per poter dare un giudizio completo.

KINGCROW

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Rapido cambio palco ed ecco salire on stage il sestetto romano che già ha accompagnato i Periphery nella calata italiana dello scorso autunno. Un progressive metal molto personale, dalle chiare radici folkeggianti anche se degli innesti elettronici lo rendono tutt’altro che scontato. L’omino al mixer da il peggio di sé, facendo uscire volumi spropositati dalle casse che costringono una buona fetta di persone a uscire nella zona fumatori. Mezz’ora anche per loro, nella quale sciorinano una prova più che lodevole mostrando una band integra e una già invidiabile verve esecutiva. Penalizzati dai suoni ma un’autentica sorpresa.

CLAIRVOYANTS

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Sarebbe dura per chiunque salire sul palco dopo una performance come quella dei Kingcrow. Una volta si scriveva così, no?! Ma i Clairvoyants sanno di avere numerose carte da giocare nei trenta minuti a disposizione. Rapido cambio palco ed eccoli partire, dopo una breve intro, con l’apripista del nuovo disco “No Need To Surrender”. Sarà la band che avrà i suoni migliori nella serata, quasi contendibili con quelli dei JOP. La svolta più hardrockosa del nuovo platter mette in mostra una band con un tiro micidiale, dove a farla da padroni sono il bassista Paolo Turcatti coadiuvato dal drummer Manuel Pisano e il duo Princiotta/Bernasconi che si dimostra sempre in ascesa. Nella scaletta c’è spazio per il singolone tratto dal debut (“Journey Through The Stars”) mentre lo show volge al termine con “Endure And Survive” (da “The Shape Of Things To Come”) e l’inno “Word To The Wise”. Il pubblico è dalla loro parte, come dargli torto?

WHITE SKULL

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Un pezzo di storia italiana sta per salire on stage. Oltre al telone retrostante, la band porta on stage qualche ‘oggetto’ di scena. I White Skull portano a un livello ancora più professionale la kermesse, salendo on stage affamati di metal. I suoni peggiorano ennesimamente e durante tutto lo show la voce della mitica Federica DeBoni sarà soverchiata dal volume delle chitarre. La band propina il proprio heavy/speed metal infarcito di grandi soli (e che soli) che si uniscono al singing della bionda cantante, un po’ fuori forma e ‘statica’ ma sempre con la grinta dei vent’anni (bisogna sottolineare che anche on stage si sono presentati problemi audio). Lo show vola tra nuove e vecchie glorie, con l’inserimento in scaletta della nuovissima “Red Devil” e dell’ovvio inno di chiusura “Asgard”, cantato da chiunque fosse presente. Se nel 2008, al Rocking Field (e con la precedente cantante) mi avevano parecchio annoiato, in questa sede si sono dimostrati degni del loro nome. Non apprezzati da tutti i presenti (ascoltando i commenti in giro) ma senza dubbio una band che sta ritrovando la ‘vecchia’ forma!

JON OLIVA’S PAIN

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Stesso timing di cambio palco ed ecco che sull’aria della mitica “Chance” entrano sullo stage gli headliner. Band cambiata per 3/4 (solo il drummer Christopher Kinder è rimasto) ma poco importa, la gente vuole lui, il Mountain King. Visibilmente più in forma rispetto a quattro anni fa (se non altro cammina senza stampella) eccolo sedersi al pianoforte bianco messo on stage e intonare “Gutter Ballet” come pezzo d’apertura. Il Live gli riserva un’ovazione da stadio, cosa che continuerà per le successive “Edge Of Thorns”, “Sirens” e “Power Of The Night”. I suoni, inizialmente pessimi, pian piano migliorano, portando in auge la non più perfetta voce del buon Jon e la ‘presenza’ solista di Jerry Outlaw, impegnato nella maggior parte dei soli. La band, e mi duole dirlo, non è al livello sperato: parecchie imprecisioni e passaggi disuniti mostrano un’ancora acerba alchimia, specie in brani come le nuove “Festival” e “Walk Upon The Water” o la più serrata “White Witch”. C’è spazio per un passaggio nell’era Doctor Butcher, con “Don’t Talk To Me”, prima di prendere in mano “Streets” eseguendo la sempre struggente “Tonight He Grins Again” e l’inaspettata “Ghost In The Ruins” (rovinata da un eccessivo ‘solismo’ della coppia di asce – 12 minuti di soli di chitarra sono un po’ pesantini). Si entra, da adesso in poi, nel vero motivo di questo tour, ovvero la celebrazione del 25ennale del mitico “Hall Of The Mountain King” (ovvero il disco di rinascita dei Savatage), con un’ovvia introduzione da parte del gigantesco cantante (“Grazie per aver dato ai Savatage una seconda chance”). Dalla primissima “24 Hours Ago” alla conclusiva “Hall Of The Mountain King” (che ha chiuso anche il set principale) l’audience passa attraverso un universo di emozioni, ascoltando le meno ‘easy’ “Devastation” e “The Price You Pay”, e riassaporando i veri capolavori “Legions”, “Prelude To Madness” e “Strange Wings”. Sotto una tempesta di applausi e ovazioni il quintetto si congeda, visibilmente emozionato dalla calda accoglienza meneghina. C’è tempo ancora per qualche brivido mentre Jon Oliva si siede al suo pianoforte intonando inaspettatamente “All That I Bleed” (lentone mitico da “Edge Of Thorns”) che, passando per “Exit Music”, si trasforma in “Believe”: l’audience arriva quasi a sovrastare il macro-vocalist, che ricambia con sorrisi e la solita innata simpatia nel ringraziare.

Il bello dell’evento, quello che ha reso il clima così intimo, è stato l’affrettarsi a scendere, da parte delle band supporters, per godersi lo show del Mountain King. I Jon Oliva’s Pain lasciano in bocca sempre la mitica domanda “rivedremo mai i Savatage?” Impossibile rispondere, accontentiamoci di poter ancora assistere all’esecuzione dei brani che hanno reso celebre l’act di Tampa, sempre ‘avanti’ ma proprio per questo mai adeguatamente considerati…