Un’utopia, perfetta e scevra di scalfitture come solo le creazioni della mente degne di tale definizione possono essere, proprio perché albergano nelle fantasie di ognuno di noi. In rari casi, qualcuno decide di provare a metterle in pratica queste magnifiche idealizzazioni, e in occasioni ancora più rade qualcuno riesce a dare alla luce una creazione che non ha nulla da invidiare al pensiero sublime originario. Nel suo piccolo, il Kill-Town Death Fest è proprio questo, o se preferite una fantasticheria da bambini troppo cresciuti, di quelli che sono sempre alla ricerca di un nuovo giocattolo più nuovo, splendente, pieno di risorse con cui sollazzarsi. Gli organizzatori hanno pensato che se un tale “oggetto” non era in vendita, allora era il caso di farselo da sé. Nasce così, dall’unione delle forze di un gruppo di ragazzi di Copenaghen innamorati del death metal più vero, carnale e nauseante, un festival diverso da ogni altro, che alla quarta edizione è ormai diventato il punto di riferimento per il metallo della morte lontano anni luce da derive commerciali, contaminazioni, meticciati con ingredienti che ne snaturano la primitiva essenza.
Il Kill-Town Death Fest è prima di tutto l’estrinsecazione di una esigenza, quella di apparecchiare per una platea selezionatissima una manifestazione fuori da ogni logica commerciale, senza fini di lucro, messa in piedi per il piacere di riunire quelle band che normalmente non sono invitate ai grandi festival perché stanno fuori dal coro, perseguono un ideale di suono che il grande pubblico non può capire, in quanto incapace di avere abbastanza dedizione e impegno per forme di musica così dirompenti, scorbutiche, raccapriccianti come quelle proposte dal Kill-Town.
Qua non ci guadagna nessuno in termini strettamente e miseramente monetari, le band vengono rimborsate per le spese sostenute ma non si beccano nessun cachet, i soldi ricavati dai biglietti, venduti a un prezzo davvero irrisorio rispetto alla quantità e alla qualità dell’offerta, vanno esclusivamente a coprire le spese dell’evento. Il merchandising, acquistabile già in prevendita con una maggiorazione minima rispetto al biglietto, è curato come se non di più rispetto a un festival tradizionale, e i prezzi di cibo e bevande sono incredibilmente bassi, irrealmente sotto la media di quello che si deve scucire altrove, per non parlare della sproporzione al ribasso rispetto al costo della vita in Danimarca.
Il bill di quest’anno ha racchiuso un vasto spettro di quello che si intende per old school death metal, partendo dai progenitori Death Strike del mitologico Paul Speckmann, passando per le tentazioni occulte ed esoteriche di Essenz, Alchemyst e Lantern, il marciume da palude dei rinati Rottrevore, la blasfemia dei Blaspherian, le orride turbe depressive dei Funeralium, il vortice death/gore degli Exhumed, i barocchismi dei Tribulation, il death/doom multiforme di Ophis e Indesinence, il death ombroso e scurissimo di Drowned, Anhedonist e Into Darkness, gli schiaffoni velati di armonica malattia della Scandinavia anni ’90 targati Convulse ed Entrails, e altro ancora.
Per il Warm Up, di fatto parte integrante del festival e non semplice antipasto, ci si è recati al Loppen, locale posto all’interno della celeberrima zona di Christiania, mentre il grosso dell’evento si è tenuto in un centro sociale organizzatissimo e molto ben tenuto, l’impronunciabile Ungdomshuset, facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici o, cosa impensabile alle nostre latitudini, in bicicletta tramite la fitta rete di piste ciclabili della capitale danese. Vedere tante biciclette all’esterno di una metal venue è parso oltremodo singolare.
Per una più ampia descrizione della filosofia DIY che sta alla base del Kill-Town si rimanda direttamente al sito della manifestazione, http://www.killtowndeathfest.dk: c’è quasi da commuoversi nel leggere una dichiarazione di intenti così pura, che trasmette una genuina devozione per l’undeground e un impegno assiduo per promuoverlo e cercare di coinvolgere musicisti, booking agency, case discografiche, webzine, fanzine e fans in un solidale network internazionale a supporto del migliore death metal in circolazione.
Sicuro di aver tediato abbastanza passo a una cronaca il più possibile rappresentativa di accadimenti, gesta e pulsioni animali andate in scena all’ Ungdomshuset, ormai luogo dell’anima per parecchie decine di metalheads europei, tra cui gli italiani non hanno mancato di far sentire la propria presenza.
PRIMO GIORNO
Arriviamo al Loppen dopo 20 minuti buoni di cristonate ai quattro santi del Paradiso, non rendendoci conto che il locale non era soltanto dalle parti di Christiania, ma al suo interno. Poco male, siamo in anticipo, ed entriamo con una certa trepidazione in questo posticino dal soffitto basso, tutto in legno, al secondo piano di un caseggiato che definire rustico è un complimento. Il locale invece non è affatto male, anche se la folta presenza umana, il poco ricambio d’aria e l’altezza sotto i limiti dell’abitabilità ne rendono il clima equatoriale già prima dell’inizio dei concerti. Ci facciamo dare il nostro braccialetto, il più caratteristico tra quelli indossati in tante esperienze a Wacken, Headbangers ed Hellfest, quindi ci facciamo consegnare il ricco package comprendente due poster, la compilation in doppia cassetta con una canzone a testa di tutte le band presenti (Tribulation esclusi), due manifesti piccoli, uno sticker del cartellone dell’evento e il programma ufficiale. La cura posta per ogni singolo dettaglio fa invidia ai giganteschi open air per cui si arrivano a scucire somme, per il solo biglietto, triple rispetto a quelle di ingresso al Kill-Town Death Fest.
Lo stage, molto raccolto, è posto sul lato lungo del Loppen, il che costringe a schiacciarsi in uno spazio piuttosto angusto a ridosso dei musicisti. Non è una situazione comodissima, visto soprattutto quanto si suda, ma è apprezzabile poter essere viso a viso con chi sta suonando. Alle 22 precise l’attesa ha fine, tocca ai Reverie portare per primi la torcia del death metal in questa lunga maratona di morte, sfacelo e passione.
REVERIE
Giovani, anzi, giovanissimi, i Reverie hanno l’onore di partecipare al Kill-Town Death Fest con un solo demo alle spalle, che deve essere piaciuto molto agli organizzatori, visto che ogni gruppo viene scelto apposta e non perché imposto da qualche agenzia o perché è in tour con qualcun nome di peso. I quattro hanno la faccia un po’ spaurita, o forse semplicemente non fanno trasparire grande emotività, infatti quando giunge l’ora di iniziare l’approccio non è di certo tentennante. I suoni non sono una meraviglia, la batteria è troppo alta e ruba spazio al riffing cupo e ruvido, che si muove a cavallo di death svedese prima maniera e thrash selvaggio. Le canzoni catturano subito l’attenzione, trafiggono in velocità e cambi di tempo molto secchi, e si fa notare per una personalità accesa e uno stage acting sofferto il singer, truccato ed epilettico dietro il microfono, nel quale vomita voci strozzatissime in preda a deliri assortiti, rese ancora più efficaci da un sentore di lontananza, ricreato da un riverbero molto accentuato. L’apparente timidezza denotata prima del concerto è rimasta dov’era e i Reverie in una mezz’ora scarsa si sono sicuramente aggiudicati qualche nuovo seguace.
ESSENZ
Saliamo prepotentemente di livello con gli Essenz, autori nel 2012 dell’interessantissimo “Mundus Numen”, enigmatico componimento con i piedi ben piantati nel death di fine caratura e una propensione alla dilatazione delle trame verso lidi inaspettati, senza affrancarsi dall’imprinting originario. L’attacco rintronante di “Seæ of Light: Pleroma” dà il primo vero scossone della serata, e con suoni adesso pienamente all’altezza gli austeri tedeschi possono compiere le loro avvincenti scorribande su un terreno decisamente favorevole.
Cappuccio della felpa in testa, G.ST sradica dalla gola un growl ostile che non disdegna un certo eclettismo interpretativo, fondamentale per tenere il passo di viaggi strumentali che si fanno più misteriosi e sorprendenti col passare dei minuti. Dal vivo la band sonda territori poco esplorati di death, black e doom con la stessa maestria delle opere in studio, spaccando la testa nei non radi frammenti furibondi e lasciando in preda allo straniamento nelle corpose escursioni in plumbee foreste, da cui uscire con irrisoria facilità per lanciarsi verso altre esaltanti strade. Fedeli a un low profile che sarà tenuto dalla maggioranza delle band del Kill-Town Death Fest, propense a distinguersi solo per la musica e poco o niente per allestimento dello stage e interazione con l’audience, gli Essenz badano al sodo e allestiscono inappuntabili rappresentazioni della parte di mezzo della tracklist di “Mundus Numen” (“Seæ of Light: Pleroma”, “Extricate Spirits: Amor”, “Observed by Spectres: Paranoia”), lasciando alle ultime due canzoni il compito di dar luce all’esordio KVIITIIVZ – Beschwörung des Unaussprechlichen. Lievemente più organiche e facili da seguire rispetto alla prima parte dello show, “Der Atem Genesis” e “Lavitae” possono scatenare un po’ più di headbanging tra i meno avvezzi a una proposta così sofisticata. E ora sotto con l’Evento della serata.
DEATH STRIKE
Presente l’anno scorso con i Master, Paul Speckmann ritorna quest’anno a far visita con la sua primissima incarnazione, i Death Strike. Il personaggio, di nicchia e poco considerato dal grande pubblico, assurge in questo contesto alla figura del pater familias, del nume tutelare di un intero movimento e di quasi un trentennio di storia dell’estremismo sonoro. Lo scorrere delle primavere ha ingrigito barba e capelli fino a dargli i connotati di un neanderthaliano santone, e il modo compunto, accorto, con cui numerosi fans gli si avvicinano per una foto e una stretta di mano prima dello show la dicono lunga sulla considerazione vantata ad oggi da questo deathster. Il cartellone prevede che si suonino i brani del primo demo dell’’85, una delle massime fonti di ispirazione del giovane Chuck Shuldiner sul cammino verso “Scream Bloody Gore”, e brani dal primo disco dei Master. Le prime linee sono in fibrillazione, igrometro e termometro sono sotto pressione per un ambientino a questo punto invivibile, e all’alba della prima canzone molte voci si uniscono a Speckmann per intonare le crude lyrics; una scena quasi incredibile in un contesto tanto estremo!
Appostato come Lemmy sotto il microfono, e gorgogliando in esso come una versione in growl del tipico cantato del musicista inglese, il rude uomo dell’Illinois guida vigoroso i suoi sostenitori, coadiuvato da una formazione all’altezza nel divulgare un verbo di morte odorante di antichi effluvi. I Death Strike macinano un repertorio datato tra incessanti ovazioni, nonostante gli spazi vitali ristretti c’è chi osa lanciarsi nel mosh, col risultato di far quasi collassare le prime file su Speckmann e il suo chitarrista. I più fedeli sostenitori sono gasatissimi, per alcuni è già la vetta dell’intero Kill Town, e non avendo vincoli d’orario i Nostri esagerano e la setlist diventa un elenco chilometrico di sprangate. Fra tracotanti mid-tempo e deragliamenti abominevoli gli americani compiono un excursus approfondito nella storia del death. All’una e mezza passata, madidi di sudore, Paul e compari chiudono l’esibizione, il leader acclamato come un dio, lasciando a dir poco soddisfatti i pretoriani e i novizi, che tornano ai propri alloggi pregustando le scorpacciate dei giorni a venire.
SECONDO GIORNO
CADAVERIC FUMES
La giornata inizia con i francesi Cadaveric Fumes, ensemble giovane, autore finora di un solo demo su cassetta nel 2012, poi rilasciato anche dalla Blood Harvest, rigorosamente su vinile (i supporti in analogico, per inciso, sono in netta maggioranza nel merchandising rispetto ai cd). Si trovano di fronte un discreto pubblico, al Kill-Town Death Fest durante ogni singola esibizione la maggior parte delle persone sta all’interno della sala concerti, non all’esterno come troppo spesso accade alle latitudini italiane. Una volta chiuso il portone di accesso, ecco scatenarsi i deathsters d’oltralpe, che si rivelano abbastanza disinvolti e famelici. La loro proposta è intransigente e legata a un death oscuro e martellante, da ricondurre geograficamente al nord Europa, dalle tinte perennemente cupe e prodigo di stop’n’go, guidati da affilati stacchi di chitarra di impronta thrash. Lo spartito è noto, ma non affiorano fastidiosi deja-vu, la band è preparata sui fondamentali e non tradisce le attese di chi pretende la prima doccia bollente di brutalizzazione. Il solismo incisivo, una sezione ritmica abbastanza incline ai mutamenti di rotta e un growl graffiante ci facciano alzare il pollice alto per la prima esibizione di giornata.
ALCHEMYST
Tocca alle narrazioni di culti demoniaci degli Alchemyst, band tedesca che si è recentemente guadagnata una segnalazione nella prestigiosa pagina “Band Of The Week”, esprimente le scoperte musicali nel mare magnum dell’underground da parte di Fenriz dei Darkthrone. Il cantante Inkantator Koura è il primo a mettere un po’ di colore sul palco, si presenta con un face painting dorato che gli copre pure i capelli, mentre i suoi compagni si presentano in modo parecchio più sobrio. I teutonici sono una bestia atipica nel quadro complessivo della giornata, racchiudendo nei propri componimenti una forte fascinazione per ritualismi abietti, che si riflette in un cantato quasi recitato nelle parti più lente e in sviluppi non sempre lineari e suscitanti inquieti e raggelanti pensieri. La band non è comunque di quelle che lesini in fisicità, altrimenti non sarebbe tra queste mura, e si compiace di lisciare il pelo al black metal nelle graffianti sciabolate che partono travolgenti tra una evocazione di immonde creature e l’altra. Gli snodi efferati dei pezzi mediano tra la lezione dei Celtic Frost e il death zuppo di pece, le immersioni in deliranti invocazioni del male deviano verso il doom più malato, creando una commistione affascinante ed originale, che purtroppo viene in parte smorzata da suoni abbastanza brutti almeno per tutta la prima metà di show. Poi le cose migliorano, ma si ha la sensazione che il pubblico fatichi a recepire appieno il messaggio degli Alchmyst, a tratti difficilmente decifrabile e quindi a misura solo di una fetta di ascoltatori. Le linee vocali si conquistano un posto d’onore tra le cose più inconsuete sentite nella quattro giorni danese, e pur sapendo di non manifestare l’opinione comune sul loro operato li promuovo con convinzione.
OGDRU JAHAD
Talmente scurrili, sozzoni e volgari nel prendersela con tutto ciò che attinge alla religione cristiana, gli Ogdru Jahad sono quanto di meno curato e artistico abbia da offrire il festival. Sono così primitivi che potrebbero stare nel brodo primordiale, le prime forme di vita terresti al confronto sono dei premi Nobel per la letteratura. E proprio per così tanta bassezza, sonica e concettuale, che diventano un puro spasso e una mosca bianca nell’ampia scelta del festival. Alla voce abbiamo un omone dal face painting dozzinale, tipo quello fatto da un bambino maldestro sulla faccia dell’amichetto quando ci si prende troppo la mano coi pennarelli, e al collo un enorme crocifisso (ovviamente rovesciato), che non canta propriamente in growl, o meglio ci si avvicina, ma è più veritiero affermare che emette urla sgraziate e iraconde, sfregiate e luciferine come si usa nella nicchia maleodorante del war metal. L’osceno figuro suona anche la chitarra, coadiuvato da altro essere, meno pittoresco a vedersi, che porta la distorsione a livelli inconcepibili, lasciando abbastanza basiti anche i più navigati adepti di metal estremo. Per le ritmiche, onestamente, credo di poter affermare, pur dichiarando di non avere una grande dimestichezza con lo strumento , che il batterista abbia cambiato il tempo tre volte in tutto durante il concerto, essendosi accanito in un “tac-tac-tac-tac” compulsivo che se al suo posto mettevano una marionetta, adottava un drumming più intricato.
Monotematici e unidirezionali oltre ogni ragionevole limite, gli Ogdru Jahad riescono sorprendentemente a raccogliere attorno a sé un’ampia dose di consensi, e assistiamo a manifestazioni di calore verso la band di cui Cadaveric Fumes e Alchemyst non hanno sicuramente giovato. Pure io devo ammettere che rispetto al disco, registrato ostentatamente in modo abominevole, gli Ogdru Jahad attirano perversamente, tanto sono votati al casino e al cattivo gusto con sprezzo di qualsivoglia critica al loro operato. Riuscissero a sviluppare trame più complesse attorno a uno dei suoni di chitarra più malati in circolazione, sarebbero dei Messi dell’estremo. Visti i componenti, rimarranno così finchè la band avrà vita.
ENTRAILS
Gli Entrails calzano a pennello al concept del Kill-Town Death Fest. Il festival nasce per promuovere il caro vecchio death scandivano? Benissimo, gli Entrails snocciolano nella loro musica tutti i precetti dello swedish death, ne incarnano l’identità più incorrotta e fedele all’idea che se ne ha in mente. Zombie, sporcizia, scenari di macabra desolazione, chitarre motosega e pressione su schemi di assalto frontale sono tutto quello che serve per solleticare gli appetiti dell’avventore medio del festival. L’attitudine digrignante del gruppo compiace un po’ tutti, è galvanizzante vedere i musicisti che suonano compatti a bordo stage sfidando allo scontro. Dalle casse esce una goduria di riff sgranati e un martellamento ritmico mai troppo uniforme e sempre incline a sbranare e disossare, evitando passaggi che esulino da un contesto di ostentata ferocia. Gli Entrails sfruttano appieno l’intero tempo concessogli, riducendo ai minimi termini le pause, e incanalano il killing istinct in una esecuzione febbrile e sudatissima, una di quelle dove band e pubblico sono agganciati strettamente in un abbraccio mortale, in una condivisione completa delle stesse marcescenti sensazioni. Usciamo all’aria aperta pienamente soddisfatti.
CONVULSE
Per precisa volontà dell’organizzazione lo spazio dedicato ai singoli gruppi è equamente distribuito e le primedonne non sono ammesse, così anche il posizionamento in cartellone indica sì un ordine di importanza, ma è meno ossequioso che altrove verso chi in teoria guida le gerarchie. Con i Convulse però si ha la percezione chiarissima di salire di grado, di sollevarsi qualche metro da terra e di approssimarsi a piaceri superiori. I finnici di Nokia sono l’ennesimo culto underground che ha deciso di riprendere in mano gli strumenti per beccarsi un po’ di sana gloria postuma, dopo lo scioglimento all’indomani del secondo album “Reflections”. Addetti ai lavori super preparati come quelli qui presenti hanno sicuramente tra i dischi prediletti l’esordio di questa formazione, “World Without God”, uscito nell’annata di platino 1991, la release che ha permesso ai Nostri di passare alla storia. Un incantesimo, non così rado a verificarsi nell’underground, ci dona dei Convulse per nulla arrugginiti, con sola metà della line-up storica rappresentata dal cantante/chitarrista Rami Jämsä e dal bassista Juha Telenius, mentre gli altri due membri sono entrati in ruolo solo con la reunion del 2012. Lucidissimi e preparati all’evento, aizzati da fans caldissimi, i quattro sfruttano al massimo i suoni meglio calibrati della giornata e mettono in movimento le teste di quasi tutti gli astanti all’interno della sala grande dell’Ungdomdushet in cui si tengono i concerti. Si respira il senso del proibito che animava la scena a inizio anni ’90, si affondano le mani in una brodaglia infetta di immane gustosità, assaporando nitide esecuzioni capitali perfino nobilitate da una certa solennità, un rigore estetico che si fonde con una brutalizzazione dal sottofondo gelido e con una punta, una piccola speziatura, di nordico senso della melodia. I Convulse piazzano progressioni ritmiche cupissime e fragorose nella distruzione arrecata, non ci si libera dal feeling opprimente neanche quando la velocità cala leggermente, i finnici sono padroni della situazione e affiatati come se suonassero in giro incessantemente, mentre questa è in realtà una delle poche uscite dal paese natio nella loro storia. Le canzoni, anche per chi come il sottoscritto non le aveva mai sentite in vita sua, paiono sculture impeccabilmente modellate da artisti al massimo livello di conoscenza e comprensione della propria arte. Il gruppo capisce di averci in pugno e ci osserva con lo sguardo di chi la sa lunga, e con quella sacrosanta soddisfazione di chi trova pieno accoglimento del proprio messaggio. Uno dei segni più profondi lasciati sui miei padiglioni auricolari dal Kill-Town Death Fest 2013.
DROWNED
Ammetto di essermi avvicinato ai Drowned con un filo di scetticismo, pensando che un gruppo dalla discografica così scarna, zeppa di demo su cassetta e con un solo ep alle spalle come uscita più o meno ufficiale, eppure con molti anni sul groppone, dovesse essere così in alto nel programma più in virtù dell’anzianità di servizio e della fedeltà a una linea di condotta ultraortodossa, piuttosto che per la dotazione artistica. Ovviamente mi sbagliavo, infatti vengo spiazzato in pochi minuti dal passo felpato e greve del trio, con in formazione due terzi degli Essenz, il cantante/bassista G.ST. e il batterista T.E.. Non cambia la serafica postura on-stage dei ragazzi, riservati al massimo, concentrati e precisi, G.ST con il cappuccio in testa impegnato in una performance vocale leggermente più convenzionale rispetto agli Essenz. La musica dei tedeschi è avvolgente e schiacciante prima che straziante, per lunghi minuti si rimane intrappolati in una vischiosa matassa doomeggiante, gradita e recepita con soddisfazione da un pubblico che non cade in distrazione neanche di fronte a composizioni più compassate. I primi minuti di lavoro ai fianchi sono da preludio a una vivacizzazione degli schemi e entrano quindi in gioco percussioni più spinte e un palese indurimento del suono, così che i Drowned finiscono per allinearsi agli stessi livelli di potenza di fuoco di chi li ha preceduti. Complessivamente però il trio ha un suono ombroso e corrucciato che non li avrebbe messi fuori contesto nel Gloomy Sunday, e in questo modo si differenzia dal resto della ciurma odierna. Il songwriting non sarà all’altezza degli splendidi Convulse, ma il fatto di non aver sfigurato al loro cospetto e di aver comunque raccolto molte presenze vicino al palco testimonia la prova di valore dei Drowned.
ROTTREVORE
Un oggetto da custodire gelosamente, alla maniera di Gollum con il suo “tesssorrro”, e da usare con parsimonia per non farsi accecare dai suoi ambivalenti poteri. Volando un po’ alto e ai confini dell’assurdo, questa è l’idea di molti death metallers riguardo a “Iniquitous”, unico full-lenght dei Rottrevore, mitizzato combo che 20 anni orsono diede alla luce questo ripugnante concentrato di death melmoso, testimonianza di una personale rivisitazione dei già leggendari, all’epoca, stilemi della via americana alla musica della morte. I Rottrevore, assurti al rango di divinità in un pantheon elitario e poco conosciuto dalle masse, si sono fatti desiderare per molti lustri, i fans europei non hanno mai avuto il piacere di vederli in carne ed ossa e dalla natia Pennsylvania i primi segni di vita si sono fatti sentire, sommessamente, solo nel 2011. Scaldati i muscoli con un nuovo ep di tre brani, “Blind Sided Attack”, e qualche apparizione sugli stage di casa loro, i Rottrevore mischiano nella line-up vecchi naviganti e nuove leve, per quel mix di saggezza ed entusiasmo da fans rivelatosi vincente già per altri act. Eccoci di fronte allora lo storico e ben invecchiato frontman, Chris Weber, uno di quelli a cui gli anni hanno giusto contornato di qualche ruga la faccia, senza intaccarne lo spirito, un batterista fresco di nomina, un ragazzone barbuto alla seconda chitarra, e il bassista dei tempi andati Chris Free, che si presenta con un mastodonte a otto corde di un vistoso rosso fiammante. Weber annuncia i pezzi con il fare consumato dell’uomo di spettacolo, uscendo dai panni del tipico omone truce che parla solo in growl, prendendo in pugno l’audience con le sue occhiate penetranti e annunci dei singoli pezzi concisi e che predispongono al macello ancor prima che parta la musica. Sentori di palude riempiono la sala, il sound dei Rottrevore ha una pastosità quasi sludge ed ha connotazioni tecniche di non poco conto, che permettono di attaccare da angolazioni differenti prendendo fin di sorpresa chi, meno avvezzo di altri ai pezzi, si aspettava qualcosa di quadrato e ultraignorante. Le nuove tracce non soffrono il confronto con le perle di “Iniquitous”, accolte da urla belluine, lambenti urla animalesche più che umane. D’altronde, c’è chi ha aspettato una vita per sentire i tre minuti circa di “Ceased By Failure” o di una “Disembodied”, sia mai che si debba contenere!
Impeccabili sul fronte della precisione e del pathos infuso, i Nostri non si risparmiano nemmeno negli atteggiamenti, e se il bassista è un po’ controllato, credo anche per paura di far qualche danno a quel gioiellone di basso che si porta appresso, i due chitarristi ognuno a suo modo si piegano sullo strumento di continuo, con Jared Lubawski in preda a uno scuotimento quasi bambinesco per il disordine motorio che lo contraddistingue. Felici e contenti dopo un’ora di vigorosa mattanza old-school si va a nanna, domani il programma è pieno di altre delizie.