TERZO GIORNO
OBSCURE INFINITY
E’ un manipolo di ruvidi seguaci della tradizione quello che ci si presenta davanti in apertura di giornata. Il numero di persone all’interno dell’Ungdomshuset è già abbastanza alto quando vanno in scena gli Obscure Infinity, combo tedesco con un paio di album all’attivo. L’impronta è nettamente nordeuropea e l’enfasi va su tempistiche esasperate, con profusione di ritmiche tritatutto e stupro vocale dalle poche soluzioni di continuità. Gli Obscure Infinity prendono per il collo e stringono il più forte possibile, sacrificando l’appeal atmosferico a favore di un’incessante doccia di sangue. Le coloriture old-fashion e la decisione che contraddistingue l’esecuzione fanno passare sopra a un songwriting che prevede pochi cambiamenti di umore e di tonalità, che quando vengono affrontati segnalano una discreta capacità di gestione delle dinamiche e delle sfumature di suono; si percepisce in poche parole che la band ha spunti interessanti quando si tratta di inserire passaggi thrash o mid-tempo piuttosto lavorati ritmicamente, anche se a quanto pare il gruppo si sente maggiormente a proprio agio nel caricare a testa bassa. I ragazzi cercano di portare il pubblico dalla loro parte prodigandosi in richieste di partecipazione, il cantante Jules scende perfino tra il pubblico durante un’ampia porzione strumentale a fare headbanging con le prime file. Potendo contare su materiale valido ma non eccelso i cinque fanno leva sulla grande carica e voglia di combinare disastri, e alla fine si può dire che centrano perfettamente il bersaglio. Se le prime canzoni avevano lasciato qualche dubbio sull’effettivo valore dei cinque, alla fine si resta soddisfatti di quanto si è appena ascoltato e visto, e anche gli Obscure Infinity finiscono per essere ricordati con un sorriso di approvazione.
KATECHON
Freschi freschi dell’esordio “Man, God, Giant”, segnalatosi ancor prima che per la musica grazie a una curiosa e intrigante copertina a base di figure incappucciate e seminude, metà uccello e metà uomo, in toni di grigio e contorno di simbolismi assortiti, i Katechon si rendono protagonisti di una performance per certi versi unica tra le band viste all’opera durante il festival. Il segreto per suonare un po’ fuori dal coro è l’iniezione di dosi da cavallo di d-beat/crust, che nel contesto live fanno detonare le canzoni in un marasma impazzito e isterico, retto da chitarre scorticanti e disturbanti all’ennesima potenza. Il mix porta in alto le sei corde, sature e tiratissime, innalzate a culmini di parossismo quasi insopportabili. Il cantato urlato, esasperato, fin disperato del gigantesco singer (per le fattezze, un Bjorn “Speed” Strid più incazzoso e meno bolso) trapana cervello e anima, si fatica a immaginare che i Katechon, dopo un inizio così smodato possano andare avanti per tanto tempo, eppure accade proprio questo. Praticamente non ci guardano, non gliene frega di chi hanno davanti, l’idea di dover pure intrattenere oltre a suonare non li sfiora minimamente. Il cantante è quasi preoccupante, ha l’aria pericolosa e stranita, non gli si legge in volto altro che rabbia contorta e infinita, almeno finchè si sgola nel microfono, mentre tra un pezzo e l’altro non tradisce sentimento alcuno. Gli altri, potrebbero essere dei semplici automi, impeccabili meccanismi arrecanti omicidio auricolare e neuronale. I norvegesi sono monocromatici, paragonabili a gente come i Doom piuttosto che agli Entombed o qualsiasi altro dioscuro del metal estremo, danno l’idea di essere dei crusters prestati al death/black, dei punk estremisti che si dilettano a bagnarsi nelle acque stagnanti del metal. Nonostante gli schemi di riferimento non siano molti, i Katechon non annoiano e colpiscono durissimo, lasciandoti addosso un certo disagio una volta che gli strumenti hanno taciuto e si insinua nelle orecchie un fischio persistente.
ENGULFED
Esotici nella provenienza, ortodossi nella musica, gli Engulfed arricchiscono di una nuova bandierina il numero di nazioni rappresentate al Kill-Town Death Fest. Con molto coraggio, perché per proporre metal estremo in un paese islamico ci vuole sempre un bel fegato, gli Engulfed si stanno costruendo un passettino dopo l’altro una solida nomea underground. I giovani turchi guardano dall’altra parte dell’Atlantico nelle fonti di ispirazione, imbastendo schemi abbastanza intricati ma prevalentemente col piede a tavoletta e un grosso sforzo del basso nel sostegno delle sferzate chitarristiche, fatto prevedibile essendo soltanto in tre. L’assetto di battaglia fa sì che vengano scomodati anche i Dying Fetus tra i paragoni possibili degli Engulfed, seppure li si debba immaginare meno compromessi con l’hardcore e il brutal e sostanzialmente più semplici rispetto agli autori di “Destroy The Opposition”. La padronanza strumentale e i misurati ingarbugliamenti ritmici a velocità sostenuta impattano favorevolmente sull’audience, che segue con attenzione l’operato dei ragazzi on-stage, molto caldi e indiavolati. Il growl grassoccio di Serkan Niron assomma altri chili a una proposta già pesantissima e mette la panna sulla cioccolata a uno show estremamente positivo, per una band che da qui in avanti avrà solo da trovare una sua personale interpretazione del death metal per passare dallo status di promessa a nome di richiamo dell’underground.
LANTERN
Poveri Lantern. Non se lo meritavano, ma hanno dovuto portare la croce dei suoni più disgraziati tra tutte le 24 band del festival. La distorsione ha qui raggiunto climax wagneriani, e non in senso positivo, lacerando quel poco di sensibilità auricolare rimasta. Difficile dimenticare i fastidiosi fischi all’orecchio lasciati a ricordo dello show dei Nostri, giunti al Kill-Town Deathfest per suffragare le lusinghiere impressioni suscitate dal fresco esordio sulla lunga distanza “Below”. Aggiunti un paio di elementi per rimpolpare una line-up altrimenti ridotta all’osso, essendo solo due i membri ufficiali, Cruciatus e Necrophilos, i Lantern un po’ per le oggettivamente improbe condizioni ambientali summenzionate, un po’ per l’esigenza di andare dritti al cuore di chi non li conosce, mettono in un angolino quasi ogni elucubrazione darkeggiante ed elaborata della propria proposta, e infittiscono le serpentine chitarristiche in un velenoso incedere death striato di black vecchia maniera. Il cantato asseconda questa visione musicale, anche se non aggiunge particolari elementi di interesse, risultando vigoroso ma un po’ anonimo se rapportato a cantanti di ben altra caratura apprezzati durante il festival. La presenza scenica indiavolata spinge verso un discreto indice di gradimento lo show dei Lantern, peccato che il sonoro sia troppo brutto per far capire esattamente cosa abbiano suonato. Per quel che si è compreso, li promuoviamo sul campo.
PENTACLE
Vecchiaia, forte odore di vecchiaia. E tanto per chiarire subito i termini della questione, è un gran bel fetore. Gli olandesi Pentacle rappresentano un vero e sacrosanto tuffo negli anni ’80, e pazienza se i loro dischi sono della decade successiva, anzi, le pubblicazioni si protraggono negli anni 2000 in modo frammentario e tipico di un ensemble che vive nei sotterranei dell’estremo. Il cantante/bassista ha quella pettinatura fashion stempiato in mezzo-capello lungo ai lati all’ultimo grido che un po’ tutti vorrebbero sfoggiare, ma non si sentono abbastanza fighi per farlo; il chitarrista più anziano sfodera una criniera argentata da vecchio saggio, o da burbero clochard, gli altri due si accontentano di un appeal da metallaro al sudore rancido. Et voilà, eccoci in mezzo, o appena ai lati per star tranquilli, a un pogo tra i più partecipati della quattro giorni, con un bel numero di metallers a cantare rabbiosamente con la band. Ritmi quadrati e abbastanza semplici fanno da cornice allo scorbutico riffing proto-death metal, o thrash/death primordiale che dir si voglia, una miscela di sapori acri alla Celtic Frost in salsa death fatti girare su mid-tempo abbastanza velocizzati. L’emulsione ha quell’insano retrogusto volgare e arcano che solo il primo metal estremo poteva evocare, e che coi Pentacle sembra essersi cristallizzato come i suoi esecutori. Se poi aggiungiamo che i pezzi funzionano benissimo, capirete quanto i Pentacle abbiamo avvinto un po’ chiunque e siano usciti di scena loro stessi con l’aria molto, ma molto, ma proprio molto, contenta.
BLASPHERIAN
L’anticristianesimo da ultrà vive i suoi tre quarti d’ora di gloria con i Blaspherian, tra i massimi interpreti del death metal blasfemo e gratuitamente offensivo. Li inseriamo nella categoria dei pesi massimi dopo due secondi, ma non per la musica, anche se finiremo per apprezzarli senza condizioni. Pesi massimi lo sono per il giro vita tragicamente abbondante, da invasione del colesterolo in ogni cm del corpo, della coppia Daniel Desekrator-Wes Infernal, rispettivamente cantante e chitarrista della formazione americana. Soprattutto il secondo accusa uno stato fisico più vicino a quello di un grizzly che a quello di un essere umano, e un faccione segnato che fa più paura di una maschera orrorifica. I Nostri si fanno pure notare per bracciali borchiati con punte di metallo da 20-30 cm e un non so che di repulsa a trasparire dall’intero insieme. Cotanta presentazione è doppiata da una proposta perfetta per il festival, uno schiacciasassi intransigente e luciferino di death all’americana con inclinazione verso la pesantezza asfittica piuttosto che per la velocità incontrollata. Quando i Blaspherian alzano i giri sono in ogni caso sfracellanti, non fosse altro che siamo già talmente stretti in una morsa mortale che le accelerazioni rappresentano il classico colpo di grazia a un corpo ormai troppo martoriato per reagire. I cinque sono tra i soggetti più imbevuti d’odio che abbiamo avuto modo di conoscere su questo palcoscenico, possiamo quasi esplorare la morbosità insita in ognuno di loro e intuita dalle espressioni tra l’odio e il disgusto dipinte in volto. Le reazioni sono entusiastiche un po’ da parte di tutti, e se a parere strettamente personale i Blaspherian risultano alla lunga leggeremente prevedibili e perdono un poco di interesse, coloro a me vicini di questa monotonia non sembrano accorgersi e si divertono come per pochi altri gruppi. E allora chapeau per i maciullatori di Houston.
TRIBULATION
Sono andati oltre il death, oltre il black, oltre l’heavy metal nella sua normale accezione, e hanno prodotto uno dei capisaldi metallici del terzo millennio. Ormai sulla bocca di tutti, anche di chi ne mette in discussione le qualità, avvalorandone comunque tramite commenti negativi l’assoluta importanza nella scena odierna, perché diventati materia di discussione imprescindibile, i Tribulation hanno un ottimo banco di prova per concretizzare dal vivo le storie di fantasmi e apparizioni narrate nello strabiliante “The Formulas Of Death”. I giovani svedesi, ad occhio e croce tutti sotto i trent’anni, si presentano con un trucco abbastanza pesante, usato per schiarirsi il volto e dare una certa ambiguità alle loro fattezze. Il chitarrista Jonathan Hultén fa addirittura venire qualche dubbio sul suo genere, il trucco sbavato delle labbra e il ghigno sardonico tenuto durante il concerto lo fanno assomigliare a una strega cattiva in procinto di sganciarci addosso chissà quale sortilegio. L’intro è affidato alle soavi arie in apertura di “When The Sky Is Black With Devil”, la band imbraccia gli strumenti per attaccarci alla giugulare quando il pezzo entra nel vivo con il primo rantolo death. I suoni sono leggermente sporchi per una proposta tanto poliedrica e dalle infinite striature come quella degli svedesi, ma in questo modo il potenziale distruttivo si eleva fortemente e i riff più taglienti fanno rintronare pure le teste di coloro che sono diffidenti rispetto all’operato dei Nostri. I Tribulation sono precisi, geniali, performers sgamati nonostante la gioventù e le attese spropositate a cui può andare incontro un gruppo dopo aver sfornato l’album della vita. Se gli sferragliamenti da death/black luciferino, perfettamente condotti dal drumming di Jakob Ljungsberg, sono più feroci del disco, le iridescenze delle ombrose trame chitarristiche sono un qualcosa di inenarrabile, suonate senza sbavature e con il trasporto che meritano. Pagato il giusto tributo al primo, diversissimo, lavoro “The Horror” con una canzone mozza respiro, per la gioia degli estremisti con poca voglia di sorbirsi melodie e progressioni, “Wanderer In the Outer Darkness” fa ripartire verso un mondo di magie e lo sprofondamento, cercato, voluto e trovato, nell’oscurità maledetta. I Tribulation mettono sotto incantesimo e fanno volare l’immaginazione, solleticano i fini palati nelle aperture ariose e occulte, mettono sotto scacco in cascate di note frenetiche e incendiare quando esce la loro bestialità incontaminata. “Rånda” è un altro gradioso numero da circo, il tema iniziale, che ricorre martellante mentre Johannes Andersson ci avverte di tenerci lontano da questa pericolosa creatura femminea che dà il titolo al pezzo, avvolge minacciosamente la venue, cullandoci nella perdizione. L’ultima ventina di minuti vede scatenarsi un’enciclica di primizie progressive, una trasmutazione dei Goblin e del dark sound in chiave death somministrata dalla strumentale “Ultrasilvam” e dal cortometraggio gotico in solo sonoro di “Apparitions”, sferzante burrasca all’inizio, quindi eterea estasi nel mezzo ed esplosione fragorosa alla fine. Non avranno raccolto consensi indistinti come altre band più rozze e pienamente death metal, ma i Tribulation dal vivo sanno farsi valere e al di là dei gusti personali hanno ampiamente suffragato l’inserimento del bill con uno show veemente e malvagio, una gioia immensa per i fans e credo non disdicevole anche per quelli che non li amano.
EXHUMED
Che ci crediate o no, l’act di maggior celebrità e più vicino al circuito mainstream del Kill-Town Death Fest 2013 sono gli Exhumed. Proprio loro, nati sotto la bianca luce del tavolo delle autopsie, ossessionati dal gore e dalle frattaglie, un tempo usi ad andare in scena ricoperti di sangue e con cartucciere ad adornarne il petto e i fianchi. Gli anni hanno in parte raffinato i quattro di San Josè, California, autori con l’ultimo “Necrocracy” di uno dei migliori tentativi di emulazione del Carcass sound di “Heartwork”, con i dovuti distinguo ravvisabili non in una minore qualità ma nella difesa attenta dei propri trademark di origine. Per loro il soundcheck è particolarmente meticoloso, mi accorgo finalmente che il piccoletto col pizzetto che si ammazzava di headbanging in questi giorni a bordo palco, e che ha proferito un caloroso “yeah!” guardando la mia maglietta dell’Hellfest 2012 è il bassista, da lì a poco intento a strapparsi la testa dal collo e gorgogliare nel microfono. La sala è piena zeppa e c’è una tensione superficiale troppo perfetta perché possa durare molto; tempo del primo rullare di tamburi, del riffone thrash/death armonico e dell’urlo strozzato di Matt Harvey e la baraonda è dappertutto. I suoni sono il top di giornata, le due voci, un po’ smorzate rispetto al disco quando li avevo ammirati di spalla agli Atheist un paio d’anni fa, oggi sono perfette e duettano che è un piacere, una strozzata, l’altra marciotta, non siamo per niente lontani dal doppio topo in gola del duo Steer-Walker. Sensazionale è il ritmo frenetico impresso a ogni canzone, il grind irrompe nella sala grande del Ungdomshuset, Mike Hamilton alla batteria funamboleggia e fa il capovoga per i brillantissimi compagni. Le facce attente e assorte assunte da molti per le esibizioni precedenti lasciano spazio al tifo da stadio, gli Exhumed sono al settimo cielo per l’accoglienza e incontenibili, il pubblico li segue e si esalta oltre ogni dire ripercorrendo gli estratti dei primi album, di cui il quartetto non è mai parco, e le composizioni più recenti, strabordanti assoli cristallini. Non si cede alla tentazione di assecondare il clima festivaliero sporcando maggiormente il suono, gli Exhumed sono pulitissimi anche quando sono presi completamente dalla foga esecutiva. Il già menzionato bassista si spreme nel “ventilatore” più insistito che si ricordi della quattro giorni, gli altri due che gli sono a fianco non sono tanto da meno. Da sarcastici buontemponi quali sono, gli Exhumed allestiscono un divertente siparietto, con il chitarrista che finge un malore improvviso, strabuzza gli occhi, barcolla e, mentre gli fuoriesce bava biancastra dalla bocca, stramazza al suolo; quando è oramai immobile, irrompe un omaccione vestito da coroner, il quale sfodera l’”antidoto” al male dell’individuo steso a terra. Trattasi di volgare birra, e buttandogliela in bocca a garganella Bud Burke si riprende “miracolosamente” e può ricominciare la sassaiola. Per non farsi mancare niente viene invocato, e ottenuto, un wall of death in formato ridotto, e sul finale possiamo di nuovo incontrare da vicino il misterioso finto medico, che si lancia con finta motosega in mezzo al pubblico. Il verbo del gore è stato promulgato nel migliore dei modi ai suoi discepoli.
QUARTO GIORNO – “GLOOMY SUNDAY”
APOTHECARY
Il death metal senza chitarre ci mancava. In generale sono pochi i gruppi metal che rinunciano a priori a una sei corde in formazione, e i pochi in cui ci siamo imbattuti si piazzano negli orizzonti imbevuti di riverbero dello stoner/doom. E del doom gli Apothecary hanno la profondità e il senso di oppressione, ricreati dal basso iperdistorto, il cui suono slabbrato va a compendiare sia quanto normalmente è di competenza di questo strumento, sia quello che si ode solitamente dalla chitarra. Le architetture dei brani sono per forza di cose spogliate di molti “abbellimenti” e arricchimenti delle linee guida di ogni canzone, il trio spinge sull’inturgidimento del sound e il suo carattere infetto, oltre a segnalare una propensione al groove in alcuni spaccati dell’esibizione. Spicca un growl molto cavernoso e gorgogliante non tanto dissimile da quello in vigore nel brutal, il cantante è anche l’unico che fa un po’ di movimento, mentre il bassista potrebbe essere benissimo impegnato in una esercitazione in cameretta e non fa neanche un cenno di saluto a chi lo ascolta. La digeribilità di quanto proposto dai ragazzi, che hanno all’attivo un solo demo e pochissima attività live, è discreta, ma non aggancia come la maggior parte degli altri ensemble visti all’opera, per cui il pubblico rimane abbastanza freddo, anche se l’attenzione mostrata e il numero di presenze è ben al di sopra di quello che gli Apothecary avrebbero goduto in qualsiasi altro contesto.
INTO DARKNESS
Non è facile rintracciare giovani gruppi italiani allo stesso tempo feroci, intransigenti, anticommerciali e con una conoscenza approfondita del genere in cui suonano, tanto da farli sembrare dei veterani e non degli esordienti. Ecco perché gli Into Darkness si distinguono come una tigre albina nella giungla del metal nostrano, poiché perseguono una via ultimamente inflazionata, quella dell’old-school death metal, facendo trasparire un pervicace attaccamento a formule incancrenite appartenenti all’underground più vero e dissoluto e una risolutezza non proprio così comune tra gli artisti sotto i trent’anni. Tra le forze in campo nel Gloomy Sunday sono quelli che più agevolmente potevano essere inseriti negli altri giorni, senza timore di esser fuori contesto. La giovane età del trio, lo scorso anno già rinnovato per 2/3 attorno alla frontwoman Doomed Warrior, non è un handicap, anzi, si potrebbe pensare di trovarsi di fronte a dei navigati subissatori di atrocità con quattro-cinque lustri di esperienza sulle spalle. Gli Asphyx sono quanto di più assimilabile al marciume degli Into Darkness, che denotano una scrittura piuttosto elaborata, trasudante odio e tesa a scavare nell’orrido attraverso schemi e riff spessi e scuri, mai ripetitivi e fortificati da uno spiccato dinamismo. La voracità delle parti velocizzate, spolpate di ogni umanità da un doppio growl mastodontico, uno più latrato di Doomed Warrior, l’altro gorgogliante di Ken Hunakau, spiana ogni resistenza, gli stacchi ripieni di lerciume e morte non lasciano passare alcuno scampolo di luce, né di armonia, non si entra in territori funeral doom giusto a livello formale, in quanto la negatività prevale sempre su tutto. Sullo stage il nostro trio è gelido, per nulla comunicativo, e appare già in grado di emanare quel carisma da vecchi eroi dell’estremo che di solito si acquisisce in anni di militanza sulle scene. Per i meno appassionati di doom/death si è trattato del concerto più avvincente e facile da seguire del giorno, assieme alle peripezie conclusive degli Anhedonist, speriamo di avere a breve a che fare con il primo album completo degli Into Darkness per avere una riprova del loro valore.
OPHIS
Con gli Ophis ci si addentra pienamente nel concept della giornata, i tedeschi rispetto a chi li ha preceduti fanno lievitare la massa doom per dilatare esponenzialmente le canzoni e farle scorrere per infiniti minuti. I brani assumono quindi i contorni di strazianti litanie, un po’ alla maniera dei maestri Evoken, si viene investiti da una melassa di tristezza e pessimismo, in versione brutalizzata, con gli aspetti puramente death messi in risalto da chitarre molto heavy e dal growl possente di Philipp Kruppa. I due chitarristi incastrano melodie incisive ed evocative in trame schiaccianti, ammalianti nei toni contemplativi, dirompenti negli strappi death. Una subitanea idea di staticità, indotta dai primi minuti dell’esibizione, viene ben presto spazzata via e ci si lascia andare a quella concentrazione estatica che si accompagna all’ascolto del death/doom meno movimentato; lo sgocciolare lento dei pezzi è in linea con il piglio severo e ombroso della band, austera quanto basta per non prodursi in grossi scuotimenti del corpo e restare quasi sempre assolutamente concentrata sulla musica suonata. Il songwriting è di ottimo livello, non così killer come coloro che seguiranno ma appagante per tutti quelli che nelle tenebre amano tergiversare. Suoni sufficientemente puliti e pieni completano il quadro di una performance convincente, seppure non tra le punte di giornata.
INDESINENCE
La declinazione del death rallentato assume connotati più accesi con gli inglesi Indesinence, combo nel quale confluiscono alcuni nomi di spicco della scena estrema in slow motion e che ha rilasciato solo l’anno scorso il secondo album “Vessels Of Light And Decay”. Le nebbie di afflizione tipiche del genere si schiudono in questa caso a un’interpretazione energica, assassina, che fanno ricadere i quattro in un alveo più tipicamente old school death metal. Le costruzioni dei brani tendono a sfidare l’ascoltatore martoriandolo con riff formato macigno in caduta libera da vette altissime, per aprirsi all’apice dello sfiancamento in scorticamenti a cui anche i Bolt Thrower applaudirebbero a scena aperta. Le sabbie mobili delle parti prettamente doom presentano una cruda ed enigmatica poetica, destinata a essere terremotata da inflessioni death che nulla hanno da invidiare ai pesi massimi del genere. Questa mobilità di schemi e la forte pulsione all’attacco senza esclusione di colpi solleva dal torpore i semplici curiosi, che non vedevano l’ora di ammazzarsi di headbanging come nei giorni precedenti. Il frontman si carica a molla e lancia occhiate fumantine, assecondando uno sviluppo a sali e scendi nel quale ritroviamo quel senso di onirica e ambigua esplorazione di altre dimensioni suscitata dalla cover dell’ultimo disco, e in generale dai testi della band. Il materiale è di primissima scelta, la foga dei quattro gli dà una marcia in più e il pubblico se ne accorge, segue incattivito il concerto e mostra di gradire l’amalgama di pugni nello stomaco e trivellazioni nell’oscurità densa e terrificante. Grande prova per gli Indesinence, a fine concerto l’acquisto del doppio vinile del summenzionato “Vessels…” è stato un atto doveroso.
FUNERALIUM
E poi ti accorgi che sei lì, spaventato, sgomento, affannato nel provare a ritrovare i lumi della ragione dinnanzi a questa rappresentazione del male. L’ennesima, visto che i Funeralium sono i penultimi ad esibirsi dell’intero festival, si dovrebbe essere preparati, ma i francesi sono di quelli che spostano la percezione dell’atrocità in musica verso il delirio, la pazzia, la collisione neuronale fino al suicidio di massa dell’intero cervello. Le magliette presenti al loro stand recitano come definizione della proposta del combo “extreme doom metal”, e se dovessimo sintetizzare al massimo quello che suonano i parigini, voteremmo convinti proprio per questa descrizione sommaria; i Funeralium sono la massima degenerazione del concetto di doom, una delle cose più bastarde e inumane messe in scena in un concerto metal. Cominciamo da due dati, tanto per intenderci: 50 minuti di esibizione, 2 canzoni. Questi giganti compendiano sconcertanti manifestazioni di follia degenere, prime fra tutte stasi complete fetide e morbose, una sorta di azzeramento delle funzioni vitali, in cui far crogiolare linee chitarristiche esasperanti, ripetitive per indurre sfinimento e raccapriccio. I Funeralium fanno traboccare il funeral verso partiture care al black metal più deviato, hanno una complessità ritmica e una spinta verso l’aggressione incontrollata destabilizzante, si accavallano due bassi e due chitarre in un tumulto ciclopico, paragonabile ad altre realtà solo prendendo un tassello per volta di questo mosaico di aberrazione. Possiamo immaginare i francesi come il frutto di un incesto eretico tra Marduk, Darkthrone, Evoken e Reverend Bizarre, bastonato dalla negatività totale degli Eyehategod e scagliato fuori dal mondo dai fumi degli Sleep. Quei cinque normalissimi metallari visti in giro per la venue i giorni scorsi si sono trasformati in cinque demoni imbizzarriti, protagonisti di un sabba accelerato di ignobile crudeltà, con quel doppio, a volte triplo, assalto vocale vomitato e ferino che ti si aggancia alla giugulare e sbrana, vorace, incontrollato, quel che resta del tuo io. Alcuni, prostrati dai tesissimi minuti di lentezza narcolettica che punteggiano una fetta importante dell’esibizione, vanno a respirare all’aria aperta, molti altri come il sottoscritto si trovano inchiodati al loro posto a farsi scuoiare vivi, incapaci di muoversi, pensare a una reazione, dare un senso a tanto odio. Il concentrato di mostruosità, promulgato ininterrottamente per l’intera durata del concerto, non sfora mai nel tedio, considerando una tale definizione secondo i parametri di un masticatore di estremismi concettuali e sonori davvero probanti; d’altronde, i Funeralium hanno un numero incredibile di frecce al proprio arco e conoscono mille modi per spaccarti in due, strapparti le viscere, avvelenarle e poi darle in pasto alla mensa di un asilo per vedere che effetto fa.
A fine concerto ci si guarda intorno un po’ smarriti, contenti di essere ancora vivi. E’ stato solo un brutto sogno? Vi prego, voglio viverlo di nuovo.
ANHEDONIST
Un soundcheck meticoloso introduce all’ultimo show della manifestazione. Sentiamo già la nostalgia di queste mura accoglienti arrivarci addosso, una certa melanconia si insinua un po’ ovunque. E’ un peccato lasciare un posto del genere, per lenire cotanto dolore ci conviene farci sbatacchiare come una nave in tempesta dagli Anhedonist, per la prima volta in vita loro su uno stage europeo. Band di nicchia (ma và?), ha stupito le platee doloranti del death/doom con un esordio molto apprezzato lo scorso anno; “Netherwards” si è preso le prime posizioni delle classifiche di fine anno di molti siti e riviste specializzate, creando una giusta attesa per gli accadimenti sonori e visivi del live.
Nascoste le identità dietro le semplici iniziali, i quattro calcano il palco con animo diverso a seconda dei componenti; orco sadico lo spilungone alla voce, anche chitarrista, V.B., maestro di headbanging il bassista D.F., algida e concentrata la graziosa chitarrista K.H. Il batterista ha le apparenze di un punkettone indefesso, e si svela come uno dei drummer più tecnici e fantasiosi uditi in questa quattro giorni, esibendo un ventaglio di patterns persino insospettabile per l’ambito di competenza. La versatilità ritmica è un quid importante per il quartetto di Seattle, che del death/doom ha un’idea focosa, lambendo il brutal nelle non rade aperture veloci praticamente in blast-beat, e lasciando scorrere inquietudine nelle vene attraverso pastosi gorgoglii mai eccessivamente statici. Dato il genere, le canzoni sono percettibilmente fluide e quindi adatte a scapocciatori di professione iscritti all’albo e affamati degustatori di pietanze old-school. Suoni tra i meglio calibrati e sfrondati da sporcizia inutile danno un assist perfetto alla plumbea elargizione di psicosi dolenti e tragedie mentali, gli Anhedonist rappresentano uno dei punti di congiunzione meglio saldati tra il doom e il death, impeccabili sia nel soffocare che nel passare nel tritacarne ogni forma di resistenza. Inumanità e degradazione nella perfetta tradizione del vero death si accorpano all’indulgenza verso il metal funereo e sofferto, celebrante l’agonia fisica e morale. Non ci sono appunti per l’operato del gruppo, gli Anhedonist hanno dato l’impressione di meritarsi ampiamente la serie di elogi letti in rete su di loro, non meritano di restare in un angolino buio dell’underground ma di aprirsi a falangi un po’ più folte di ascoltatori.
A questo punto leviamo le tende per l’ultima volta, sapendo che almeno per un anno non ci capiterà di tornare in questo luogo, del quale sentiamo già la mancanza una volta oltrepassata la soglia.