La data del 27/01/2012 è di quelle segnate in rosso per tutti gli affamati seguaci dello sludge. I Kylesa si rifanno vivi sul suolo italiano, l’occasione è propizia per riassaporare le loro oniriche esplorazioni sonore, costruite su una contrapposizione-fusione di mood psichedelici, esplosioni grasse e colorate, percussioni avvolgenti scorticate e accarezzate, a seconda dei casi, dalle voci imperfette e ricche di feeling di Phillip Cope e Laura Pleasants. Il contorno è di quelli interessanti assai, prevedendo due nomi nuovi dell’underground sludge-doom-hardcore nostrano, il noise metal dei Ken Mode e il post-core estremamente evoluto dei Cirle Takes The Square. Una rosa di nomi intrigante, purtroppo baciata in Italia dall’attenzione di una fascia di pubblico ristretta. Infatti al Lo-Fi, circolo arci ricavato da una ex fabbrica nella desolata zona di uffici abbandonati dalle parti della stazione di Rogoredo, le macchine parcheggiate fuori dal locale non sono tantissime. A causa di indicazione capziose e fuorvianti del satellitare, oltre che un posizionamento del locale che lo rende particolarmente difficile da trovare nel dedalo di vie da percorrere una volta usciti dalla tangenziale, perdiamo il primo gruppo, gli Houma, e riusciamo ad entrare a inizio set dei Fuoco Fatuo, di cui andiamo a trattare qua sotto.
Un locale lungo e stretto, abbastanza spartano, con un palco perso sul fondo, è la location nella quale vanno esibendosi le band di stasera. Quando entriamo rimbomba, ad un volume impressionante, l’acro sludge/core dei Fuoco Fatuo, a stento visibili tanto è il fumo sparato da bordo palco. Trattasi di power trio di tranciante intransigenza sonica, duro come il marmo, rumorosissimo. Dopo qualche minuto di ambientamento all’ostica proposta, pare chiaro che i tre hanno dei bei numeri: le porzioni strumentali si allungano a dismura, drogate di riverbero e trafitte da inesorabili colpi del drummer. I vocalizzi sono quanto di più necrofilo e putrescente si possa trovare in circolazione, spaziano dalle urlate hardcore più selvagge al growl profondo e mostruoso del brutal death. I Fuoco Fatuo, fortunatamente, non sono incapsulabili in un genere ben determinato; si ergono a emuli degli Eyehategod (Dio li abbia in gloria), rasentano in alcuni passaggi il death/doom d’annata, accelerano inopinatamente in scarnificanti colpi di mano hardcore. Anche visivamente lasciano traspirare quell’umida, malsana, aria del Sud degli States, in modo particolare il singer/chitarrista Milo, con quella barba lunga che gli fa accumulare qualche anno in più di quelli realmente sul groppone. La morbosità e la negatività vanno a braccetto con una scrittura molto articolata, che lascia intravedere ulteriori sviluppi per l’avvenire. Volumi eccessivi a parte, di cui il gruppo non ha colpa, questa nuova belva assassina fa davvero impressione: urge a questo punto saggiare il valore della loro prima pubblicazione, l’ep “Nell’Infero Ley Nera Creatura Celeste”.
Una scarica elettrica ad alto voltaggio, probabilmente, dà una scossa inferiore di quella dei Ken Mode. Il combo canadese, a suon di spallate di noise rock/metal tritura cervello, rischia di diventare una nuova next big think del sottobosco metal/alternative internazionale. L’effetto avuto al Lo-Fi questa sera è di quelli forti, per via di una perfomance illuminante, di quelle che lasciano il buon umore, una gioia nel cuore depravato del metallaro bulimico allorchè si accorge di essere venuto a contatto con una realtà degna di nota. Ma partiamo dal principio, ed elenchiamo tutti i motivi per cui non dovrete farvi sfuggire in futuro una copia di un disco dei canadesi o un loro concerto.
Intanto sono uno spettacolo per come si mettono sul palco, da bravi nordamericani alternativi con l’unico scopo nella vita di girare il mondo per suonare e divertirsi, senza tirarsela e buttando ettolitri di sudore on-stage. Zero spocchia, aria trasandata e vagamente alticcia, noncuranza per l’aspetto. Poi arrivano le prime note, a detonare in distorsioni allucinate, accozzandosi disordinatamente e stridentemente, con una sapienza che va al di là del semplice rumorismo ben confezionato. Il cantante/bassista Jesse Matthewson, tra uno sputacchiamento e l’altro e occhiate fulminanti, inanella vocals distorte non troppo dissimili da quelle tipiche dell’industrial, con una aggressività tutta hardcore, e lancia dalla sua sei corde onde sonore a dir poco disturbanti, confezionate per mezzo di una pedaliera delle dimensioni e della sofisticazione di una astronave. L’impianto audio, a parte i primi minuti da sfondamento auricolare, viene in aiuto del trio dandogli watt e nitidezza a sufficienza per riempire ogni micron del locale delle scariche lancinanti scagliate dai Ken Mode. La musica è insieme aliena e tremendamente fisica, carnale, una ideazione umana-cibernetica maneggiata da scriteriati criminali violentatori di corpo e mente. Alcuni pezzi esplodno addosso come mine anti-uomo, altri, più subdolamente, si trascinano in maniera fintamente sommessa, in uno stato di tensione silente ogni tanto interrotta da assalti micidiali. Volendo sintetizzare al massimo, è come se il punk fosse rimasto intrappolato in un enorme cortocircuito, che ne avesse alterato la forma fino a farlo diventare un crogiuolo di bit impazziti. Per chi già li conosceva, un bagno di sangue rinfrescante, per chi li vedeva per la prima volta, una folgorazione sulla via di Damasco.
Come per gli headliner, i Circle Takes The Square hanno una donzella protagonista a chitarra e voce. La biondina in questione, al secolo Kathleen (Coppola) Stubelek, si divide la maggior parte delle vocals con il chitarrista Andrew Speziale, e insieme al batterista Caleb Collins, anch’egli impegnato al microfono, formano un trio che ai più è pressoché ignoto. Andiamo quindi a tastare con molta curiosità cosa sono in grado di combinare questi americani, provenienti anch’essi da quella Georgia ombelico del mondo sludge/psychedelic/core, sugli scudi in questo periodo. Si carpisce qualche affinità con gli headliner, per via del contrasto tra voce maschile e femminile e il modo in cui queste interagiscono, gli echi sludge sono la trave portante dei pezzi, ma per altri aspetti vi sono considerevoli divergenze con i Kylesa. Nei primi pezzi i tre ci deliziano con molti stacchi rarefatti, ai limiti del prog più delicato e del post-rock atmosferico, nel quale le voci si ergono sognanti e gli sprazzi di terremoto sono presto mitigati da un’atmosfera generale per nulla oppressiva. Con l’andare dei minuti il discorso si fa ancora più interessante, anzi, il giro di vite è di quelli davvero prepotenti: se nelle trame più melliflue si rischia qualche calo di attenzione, nelle parti più serrate e incalzanti i Circle Takes The Square si avvicinano pericolosamente all’intensità di chi suonerà dopo di loro. L’ingrossamento del sound, le mille diverse voci utilizzate, l’infittirsi delle ritmiche tirano fuori l’hardcore che c’è in loro, oltre a una vocazione pazzoide ben esemplificata dalle urla nasali di Speziale, ben coadiuvato dalla scatenatissima Stubelek. L’originalità non va a perdersi nemmeno nelle fasi più concitate, i nostri trovano sempre il modo di distinguersi e di non appiattirsi sul già sentito, rivelandosi ancora più intriganti di quanto si era sentito durante il primo scapolo di concerto. Una bella sorpresa insomma, che chiude nel migliore dei modi l’avvicinamento ai cittadini di Savannah più conosciuti nel mondo metal.
In un modo o nell’altro, anche negli spazi non esagerati del Lo-Fi si riesce a farci stare le batterie di Tyler Newberry e Carl McGinley, poste una di fianco all’altra a fondo stage. Rispetto a questa estate si è perso per strada il bassista/tastierista Corey Barhorst, e al posto delle keyboards troviamo uno strano macchinario che emana onde sonore all’avvicinamento delle mani. Non c’è bisogno di toccarlo, non ci sono tasti, basta mettergli le estremità vicino e questo, a seconda dei movimenti effettuati, lancia il suo campionario di vibrazioni. Suggestivo.
Per il resto l’assetto è quello che abbiamo imparato a conoscere, con Phillip Cope e Laura Pleasants a dividersi le incombenze vocali e chitarristiche e il nuovo bassista Eric Hernandez un po’ più in disparte.
Fortunatamente il fonico ha compiuto un lavoro attento e il bilanciamento tra gli strumenti è ottimale, così da poter andare molto vicino alla resa che si avrebbe su cd.
“Almost Lost”, da “Static Tensions”, è l’opener designata, che può svelarsi nel suo bizzarro puzzle di note, effetti, rumori, incastri ritmici, senza che ci sia il benché minimo dettaglio fuori posto. La fangosità diluita e incantata in cui è avvolto il sound della band risuona convincente, scosso dalla fisicità hardcore come da rassicuranti cuscini psichedelici, lievemente percossi o bastonati senza misericordia dal doppio battito di tamburi. Pur non dotati di un carisma esagerato i due vocalist mostrano una buona tenuta del palcoscenico, anche se l’indole da performer esagitati non è nelle loro corde e probabilmente mai lo sarà. Ad occhio e croce, pur conoscendo bene solo “Static Tensions” e alcuni pezzi di “Spiral Shadow”, sono abbastanza certo del fatto che la set-list spazi soprattutto sull’ultima parte di carriera, abbondando sia i toni smussati e rudemente cullanti dell’ultima fatica, che il violentamento catchy del penultimo lavoro. Si sente eccome che ormai i Kylesa hanno svoltato decisamente verso l’Olimpo dei grandi, in quanto la qualità altissima del materiale in studio viene riproposta in naturalezza on-stage, con fedeltà esecutiva e feeling fin frastornante, tanta è l’esplosività della musica. Si può al massimo obiettare che la Pleasants sulle voci pulite non è sicura al 100% e perde lievemente colpi, ma per il resto i presenti hanno avuto di che godere. Unica nota stonata, la durata non chilometrica dell’esibizione, chiusasi dopo 50 minuti scarsi, con un ultimo bis strappato per acclamazione a seguito della squassante “Scapegoat”. Un tuffo nel passato, del quale purtroppo non ricordo il titolo ma solo il tiro impetuoso, chiude una serata davvero appagante, ennesimo squarcio su un underground in ribollente salute e che ha solo bisogno della giusta visibilità per manifestarsi in tutto il suo, letale, potenziale.