Loading

Living Colour + Guests

Living Colour is my favourite black metal band

Mai titolo fu più azzeccato, e mai nome fu più appropriato per una band che ha da sempre unito in un magico calderone gli stili musicali più disparati – rock, funk, progressive, pop, hip hop, jazz, hardcore, elettronica…e anche il nostro amato heavy metal – creando un modo di suonare unico ed inimitabile che è valso loro il riconoscimento quasi unanime di band Crossover per eccellenza.

Quella del 2 ottobre sarà una data che io e tutte le persone presenti al Rolling Stone di Milano ricorderemo per molto, molto tempo…ma andiamo con ordine.
Quando giungiamo nel locale ancora semivuoto sono circa le 21:00, dopo circa un quarto d’ora toccherà ai Fratelli Calafuria, da Milano, il compito di aprire le danze.
Nella mezz’ora a loro disposizione i tre propongono un alternative rock che incorpora un sacco di influenze, quasi ogni pezzo ricalca uno stile differente: si va dal rock appunto al post-punk degli anni 90 passando per indie e stoner, fino addirittura al nu-metal.
Non avevo mai avuto a che fare con questo gruppo – che leggo fresco di uscita discografica con l’album “Senza titolo. Del fregarsene di tutto e del non fregarsene di niente” – , il genere proposto non tocca sicuramente le mie preferenze musicali ma lo show risulta convincente in quanto vario, diretto e soprattutto goliardico. È infatti un piacere vedere una band che mentre suona diverte e si diverte senza prendere tutto troppo sul serio.
Segnalo in chiusura la cover di “Vasco” di quel Jovanotti in stivali e cappello da cowboy che per un attimo mi ha fatto tornare all’infanzia. Promossi.

imm

Un lungo check (che però poi darà i suoi frutti) serve a far riempire poco a poco un Rolling Stone che purtroppo non registrerà un grandissimo numero di presenze; sono le 22.30 inoltrate quando si parano davanti a noi quei quattro neri figuri che hanno surclassato la scena rock a cavallo tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90: signore e signori i Living Colour!
Il gruppo è accolto da un boato, non avevo mai visto un loro show prima d’ora ma ero convinto che sarebbe stato qualcosa di unico, quando ho visto Vernon Reid abbozzare uno stretching prima di cominciare a suonare, carico come fosse una molla, ne ho avuto la assoluta certezza.
L’inizio del concerto è una dichiarazione d’intenti. I quattro di New York ci sparano subito in faccia la diretta Auslander tratta dal terzo album Stain, seguita a ruota da una versione di Desperate people suonata a velocità folli nella sua prima parte che fa partire un boato tra il pubblico (sicuramente coinvolto ma decisamente troppo freddo per tutta la serata).
Tempo di pescare anche dall’esordio Vivid con una Middle man più funky che mai, non sto più nella pelle e via con la stupenda Pride.
Lo show è di un’intensità stupefacente, adrenalinico, divertente, strabordante di sfumature diverse ma allo stesso tempo compatto come un carro armato, non c’è un momento in cui i quattro non ti lascino a bocca aperta.
Reid spara in continuazione assoli schizofrenici eseguiti alla velocità della luce grazie alla sua spaventosa plettrata, ed emette ogni suono possibile riproducibile con una chitarra elettrica; Doug Wimbish ha un fare distaccato, sembra che sia lì giusto a pizzicare due corde ogni tanto mentre ci regala degli intrecci ritmici di una tecnica sopraffina che sempre e comunque al servizio della musicalità; è splendido vedere Will Calhoun fare tutto quello che vuole coi suoi tamburi, mentre un Corey Glover in forma smagliante riesce perfettamente nel compito di scaldare i nostri cuori.
Siamo nel momento incandescente dello show, la crossoverissima e metallica Funny vibe mi dona il primo momento di delirio della serata, è però con una Type stravolta e ricomposta nel suo DNA durante la sua esecuzione – con un intermezzo di assoli funambolici, sintetizzatori e assoli vocali da brividi – che lo show tocca il suo punto più alto, ma lungi dal tirare il fiato perché i quattro ci buttano in faccia la granitica Which way to America, che Wimbish (quest’omone sembra uscito da un incrocio dei geni del wrestler Booker T con quelli di Ronaldinho) si rifiuta di suonare se non dopo un bel Fuck George Bush intonato da tutto il pubblico.
Un estratto anche da Colleidoscope – presente successivamente anche con Song without sin -, la cadenzata Operation mind control serve per tirare il respiro prima della devastante e ai limiti del thrash-core This little pig che chiude la “sezione adrenalina” dello show, è il tempo dei virtuosismi.
Durante una stravolta Never satisfied Reid ci regala un solo pazzesco per tecnica inventiva e velocità d’esecuzione, l’irresistibile classico Glamour boys riesce a far cantare tutto il locale mentre su è Bi che il buon Doug Wimbish applica al suo basso un effetto gli conferisce un suono acido e decisamente hendrixiano, andando a ridosso della folla per prodigarsi in un assolo da LSD pura con tanto di denti.
Anche Calhoun ci tiene a far vedere di non essere da meno e, accompagnato da un Reid al computer in versione dj, ci da un saggio in cinque minuti delle sue mirabolanti capacità e di quell’innato senso ritmico che solo il popolo afro possiede.
Lo show si protrae oramai da quasi un’ora e mezza, a nostro malincuore ci avviciniamo al finale.Ignorance is bliss (anch’essa da Stain, letteralmente depredato questa sera) e Time’s up (che riesce finalmente a scatenare qualcosa di lontanamente somigliante a un pogo tra le prime file) fanno da preambolo alla mitica Cult of personality, il classico per eccellenza della band, cantata all’unisono da tutto il pubblico presente.
Finita? No, i Living Colour hanno ancora due cartucce da sparare, la suadente Love rears its ugly head e la storica Should I stay or should I go dei Clash, riadattata ovviamente col Suono (la s in maiuscolo non è messa a caso) Living Colour e contenente un break centrale tipicamente hardcore che non fa altro che mettere la ciliegina su una torta (e che cazzo di torta!) a uno show praticamente perfetto in quanto a tecnica ma soprattutto per energia, adrenalina, divertimento, coinvolgimento e per aver creato un’atmosfera indescrivibile che nessun disco riuscirà mai a catturare e riprodurre.
Il sogno putroppo finisce qui. La band non lesina ringraziamenti e inneggia alla pace prima di congedarsi, noi torniamo immediatamente alla grigia Milano, poi al solito anonimo tran tran giornaliero, che però in questi giorni si affronta decisamente meglio, con scanzonatezza allegria e gioa di vivere.
Questa è la magia Living Colour.
Un doveroso grazie va alla Your Agency che ha portato in terra italica questo meraviglioso gruppo, putroppo spesso ignorato, per questo meraviglioso show; per chi se li è persi e sta rimuginando il Dio della musica è stato magnanimo, i quattro infatti saranno ancora in Italia il 28 di questo mese, precisamente a Piacenza.
Saltate scuola, prendetevi le ferie, se ve le negano mettetevi in malattia, fate di tutto ma quella sera dovete esserci!