Il Palalido di Milano è assediato da centinaia di fans con largo anticipo rispetto all’apertura dei cancelli, a testimonianza della grande attesa per il ritorno in Italia della band di Kitee, a tre anni dallo scorso tour e due e mezzo dal clamoroso licenziamento della carismatica Tarja Turunen.
L’apertura del concerto è dedicata ai Pain, formazione svedese capitanata da Peter Tägtgren (Hypocrisy) e dedita a un metal dalle forti tinte industriali. Il pubblico del Palalido non è lì per loro ma mostra di apprezzare le canzoni della band, in formazione ridotta data l’assenza del tastierista e quindi costretta a puntare sull’impatto delle ritmiche. Una mezz’ora abbondante piacevole in cui spiccano la cover Beatlesiana Eleanor Rigby, il singolo Zombie Slam di chiara ispirazione Misfits e la conclusiva Shut Your Mouth dall’ipnotica melodia di tastiera.
Per la serie “le dolenti note” risulta evidente l’inadeguatezza dell’acustica del posto. Anche durante il concerto dei Nightwish la musica tenderà purtroppo al classico “pastone”, d’altra parte la concomitanza del concerto dei Cure ha impedito di riservare posti più adatti.
Dopo un cambio di palco di durata biblica (a questo punto l’audience, scaldata a dovere dai Pain, si è ampiamente raffreddata…) le luci si spengono, e mentre echeggiano le note dell’intro (questa volta tratto da The Passion of the Christ) la tensione è alle stelle: riuscirà la nuova cantante, la svedese Anette Olzon, a non far rimpiangere l’illustre predecessore? La risposta arriverà nel giro di poco.
Lo show si apre con Bye Bye Beautiful, tratta dal nuovo album Dark Passion Play, e da subito si capisce che l’attitudine dei Nightwish per i concerti non è stata minimamente scalfita dagli eventi passati: il bassista/cantante Marco Hietala da subito si dimostra in forma smagliante mentre la sezione melodica, il chitarrista Emppu Vuorinen e il tastierista/compositore Tuomas Holopainen, dimostra di saper coniugare benissimo precisione e tecnica d’esecuzione con una tenuta del palco con pochi eguali nel mondo del metal.
Un discorso a parte va fatto per Anette Olzon: al cambio di impostazione vocale già evidente sul disco corrisponde anche un netto cambio nel modo di gestire la performance. Mentre Tarja puntava su un’esibizione teatrale, quasi solenne, Anette sorprende il pubblico mostrandosi solare e sorridente, con movenze quasi pop (certi balletti quasi in stile Lamù…) e in generale con un’attitudine e un calore che raramente si trovano in musicisti scandinavi.
L’esibizione prosegue con Dark Chest Of Wonders, reinterpretata da Anette in modo da adattarla a una voce non impostata. A questo punto si può notare chiaramente che i pezzi dei dischi più datati, pur perdendo la caratteristica voce lirica, guadagnano molta energia e acquistano un taglio più rock.
Il brano seguente, Whoever Brings The Night, è l’unico scritto dal chitarrista Vuorinen (che, tra l’altro, in tutto il concerto macina chilometri di corsa come un mediano calcistico) dai tempi di Oceanborn, e se da studio mi aveva lasciato perplesso, dal vivo mi ha convinto in pieno: trascinante, diretto e soprattutto perfetto per l’interpretazione di Anette.
Dopo i primi tre brani è il momento del classico Ever Dream, brano in origine cantato alla perfezione da Tarja, e ben rifatto da Anette… va però detto che certe atmosfere che la canzone dava con la formazione originale sono ahimè andate perse.
A questo punto l’intro orchestrale di The Siren ci riporta una canzone che nelle date precedenti non era contemplata in scaletta. In questo caso i vocalizzi lirici vengono sostituiti da una melodia vocale arabeggiante che a mio parere rende il pezzo addirittura migliore della versione originale.
Immancabile poi l’esecuzione del singolo apripista del nuovo album Amaranth, accolta con grande entusiasmo dal pubblico e ben riproposta dalla band con Anette sugli scudi. La svedesina-ona sente il calore del pubblico e man mano che la scaletta procede si mostra più sciolta, d’altra parte immagino che la tensione fosse alta anche per lei.
Uno degli highlight del concerto è senz’altro The Islander, ballata acustica scritta e cantata dal bassista Hietala, per l’occasione anche lui alla chitarra, che regala momenti di grande musica e frutta una meritata ovazione per una band che ormai dimostra di potersi muovere con agio anche su terreni che poco hanno a che spartire con il metal.
Centro focale dell’ultimo disco e forse dell’intera carriera del mastermind Tuomas Holopainen, The Poet And The Pendulum viene riproposta integralmente per i suoi 14 minuti e si conferma affascinante come poco altro. Ottimo il bilanciamento dei volumi e delle basi orchestrali, il che contribuisce a rendere i crescendo sinfonici assolutamente indimenticabili.
Dopo un tour de force di tal fatta è il momento giusto per un pezzo più easy-listening, e intelligentemente i Nightwish propongono un tuffo nel passato con Sacrament Of Wilderness, dove una volta di più Anette dimostra di avere pieno controllo delle capacità espressive della band.
Dimostrata ormai oltre ogni dubbio la capacità dei finnici di riappropriarsi a pieno del proprio passato, è tempo di tornare a brani recenti. Sahara si apre con uno dei riff più trascinanti della storia dei Nightwish, per poi rallentare a un mid-tempo cadenzato e orientaleggiante sulla falsariga di The Siren.
L’undicesimo brano in scaletta è l’imprescindibile Nemo, e già la prima nota di pianoforte dell’intro scatena il putiferio nelle prime file. L’esecuzione viene accompagnata da un lancio di coriandoli bianchi a effetto neve (praticamente unico effetto presente, dato che le dimensioni ridotte del posto non hanno permesso l’utilizzo dei fuochi artificiali di cui la band ha sempre fatto largo uso).
A questo punto la band saluta il pubblico e sparisce, ovviamente per ritornare per i bis: riapre le danze Seven Days To The Wolves, uno dei momenti migliori del nuovo disco a mio parere, dove tuttavia la band inizia a dare sintomi di stanchezza nel duetto Marco-Anette (difficile capire chi sbagliasse dei due nel caso) ma l’energia della versione da studio resta espressa in pieno.
Poteva mancare Wishmaster? ovviamente no. L’atmosfera sul palco e tra il pubblico è quella della conclusione di un party e quindi tutti, band e ascoltatori, si sentono in dovere di dare tutte le energie rimaste. la mancanza della voce lirica qui si fa sentire, ma la verve di Anette sopperisce alle carenze vocali che vengono comunque coperte dal coro del pubblico.
Come ormai tradizione, la chiusura è affidata a Wish I Had An Angel che scatena per l’ultima volta la gente sotto il palco e prosciuga ogni energia rimasta in tutti i presenti.
Tirando le somme una scaletta un po’ corta, considerando l’arsenale a disposizione dei Nightwish un’ora e mezza di concerto è un po’ poco. La sensazione è che con Anette si sia persa la solennità su cui Tuomas & co. potevano contare, d’altra parte avere sul palco una cantante in grado di sorridere, scherzare con la band e parlare con il pubblico è un guadagno per nulla disprezzabile.
Di sicuro la performance è stata una prova del nove ampiamente riuscita. Ora resta la speranza di rivederli presto, per confermare ciò che di buono hanno guadagnato e magari vedere corrette le piccole mancanze.
Setlist:
Bye Bye Beautiful
Dark Chest of Wonders
Whoever Brings the Night
Ever Dream
The Siren
Amaranth
The Islander
The Poet and the Pendulum
Sacrament of Wilderness
Sahara
Nemo
Bis:
7 Days to the Wolves
Wishmaster
Wish I had an Angel