Giunge finalmente anche nello Stivale, per un’unica e irripetibile serata, la riproposizione integrale in concerto dei due Operation Mindcrime, la cui prima parte è una delle pietre miliari della musica moderna, mentre la seconda resta un validissimo seguito, non ancora ben conosciuto al di fuori dei fans della band tra l’altro, che prosegue il cammino narrativo del predecessore e negli ultimi anni ha rilanciato alla grande il nome del gruppo, quando sembrava vicino ad incamminarsi sul viale del tramonto.
Caso vuole che l’evento capiti di sabato sera, in contemporanea della seconda data milanese del sempre più bolso Vasco Rossi, la cui performance nel sacro tempio di San Siro aggrava irrimediabilmente la viabilità milanese; molti arrivano all’ultimo all’Alcatraz a causa degli ingorghi da ora di punta che i fans del finto rocker emiliano provocano. Se tanta, ma proprio tanta, è la pezzenteria che si riversa nello stadio Meazza, abbastanza nutrita è anche l’elite che affolla il locale milanese, che pulsa di emozione nell’attesa della comparsa on-stage della band di Geoff Tate.
Lo show che ci attende prevede, oltre all’intera esecuzione delle due opere, anche la presenza di attori ad interpretare gli episodi salienti della storia, oltre che un maxischermo posto sopra lo stage che va ad illustrare altri momenti topici del concept. Pamela Moore interpreta Sister Mary, come già accade su cd e Nikki, il protagonista principale, ha le vesti di Geoff Tate. Sono passate da pochi minuti le 20, quando sullo schermo davanti a noi compare un cartone animato, che rappresenta il momento del risveglio di Nikki in ospedale e la presa di coscienza di quel che gli è successo. “I remember now….”
Anarchy X, i musicisti attaccano le note di quest’intro piena di tensione e ansia per quel che verrà dopo, Rockenfield fa tuonare i tamburi mentre le due chitarre disegnano l’inconfondibile armonia che introduce a Revolution Is Calling. Manca solo un uomo sul palco ed ecco allora comparire il singer, con chiodo, occhiali scuri e il microfono che gli scende dall’orecchio, per rendergli più confortevoli i movimenti mentre canta. Se la qualità del suono e il bilanciamento tra i vari strumenti è subito su livelli ottimali, lo stesso non si può dire della voce di Tate, che stenta ad uscire e non riesce a ricreare le alte tonalità del disco; il singer ci mette tanto mestiere, ma il confronto con la versione in studio non si pone neanche e anche le parti meno tirate mettono in chiara difficoltà il frontman del gruppo di Seattle. Da sottolineare che egli sale sul palco mostrando un cartello che invita all’abbandono dell’Iraq da parte delle truppe americane, il livore verso l’amministrazione Bush va un po’ a ricollegarsi alle immagini che scorrono sulla schermata, che mostrano un susseguirsi di politici dai sorrisoni ruffiani, tra i quali fa bella mostra di sé anche Bush padre.
La title-track vede comparire sul palco i primi orpelli scenici, una poltrona ed un tavolo vengono piazzati in fondo allo stage, dove si va a sedere una controfigura del protagonista. Le note alte continuano a tradire Tate, si diffonde una certa perplessità tra il pubblico, perché se già nei primi minuti la voce è insicura, chissà cosa potrà accadere dopo….
Eppure, dopo una Speak ancora in difesa, ma sempre magica, Spreading The Disease, con la prorompente apparizione di Sister Mary-Pamela Moore, fa segnare il primo netto miglioramento nella riuscita delle vocals, con la bionda cantante a duettare con trasporto col lead vocalist. I due si muovono in modo teatrale, rendendo il tutto più simile al musical che ad un semplice concerto, The Mission fa segnare un altro punto a favore di Tate, che appare finalmente sicuro anche nelle parti più impegnative; Doctor X ci guarda sardonico e compiaciuto dallo schermo intanto, mentre Nikki finisce sempre più giù nel suo gorgo di dolore e disperazione.
Suite Sister Mary è l’apice, l’epicentro di tutta la storia, la band tratteggia alla perfezione la cornice sonora, mentre Pamela e Geoff si scambiano sguardi di passione, lui che la dovrebbe uccidere e non vuole, lei disperata e senza più fede, vinta nell’animo dalla malvagità umana; Nikki si vuole ribellare, vuole uscire dal gioco di morte in cui è caduto, l’energia e la drammaticità del pezzo ci travolgono, siamo al climax della vicenda. Dalla canzone più lunga e complessa, a quella più fast and furious, The Needle Lies, in cui Tate va molto vicino ai vertici del disco, dimostrando di essere ormai decollato sui livelli che gli competono. Poi le note lasciano spazio ad una telefonata, è Doctor X che chiama la suora, che viene costretta a suicidarsi; toccante la scena di Nikki che ritorna da lei, la vede sdraiata ormai cadavere e dà fuoco a tutto, accecato da un dolore disperato e inconsolabile. Dalla disperazione alla pazzia, il passo è breve, Breaking The Silence e I Don’t Believe In Love descrivono l’ultima fase del disfacimento morale del protagonista, che non si riprende dalla morte di Mary e finisce imprigionato in una camicia di forza. Stretto in questa maniera, Tate incanta la massa con una versione stratosferica di Eyes Of The Stranger, ardua da riproporre col torace stretto in una morsa invincibile, eppure le oggettive difficoltà di avere indosso una camicia di forza non frenano affatto il singer.
Fine della prima parte e stacco di 25 minuti buoni, per far decantare le vibrazioni sin qui godute sia al pubblico che alla band, poi è l’ora di un’altra plumbea intro e Operation Mindcrime II ha inizio. I’m American inietta energie fresche nell’audience, Geoff Tate sembra più fresco di prima e soprattutto ha a che fare con pezzi meno tirati e più in linea con le possibilità vocali attuali. Il Nikki di adesso, nel suo impeccabile completo nero, è un essere deciso a riappropriarsi della propria vita e a compiere la sua vendetta. Sul piano musicale, la successiva One Foot In Hell comincia a portarci su movimenti abbastanza sofisticati, dove le chitarre ruggiscono meno che nel primo episodio ma disegnano melodie ricercate e ammalianti, che la coppia Stone – Wilson rendono splendenti, con un’esecuzione precisa e molto sentita. La cornice scenografica è ancora più ricca, su Hostage il tribunale inchioda Nikki alla propria colpevolezza, senza che le sue ragioni vengano ascoltate, per l’omicidio di Sorella Mary, la giuria implacabile ha per lui una sola parola: “Guilty! Guilty!”.
E’ un Nikki solo ma ancora determinato quello che parla in The Hands, pervasa da una grande malinconia, ma con uno spiraglio di luce, rappresentato dal desiderio del protagonista di castigare il Doctor X una volta per tutte. I due chitarristi sono spesso chiamati in causa nelle seconde voci, e non deludono affatto nel supportare il lead vocalist, padrone della scena come non mai. Speed Of Light ha un incedere ancora una volta finemente oscuro, ma sfocia in una Signs Say Go ritmata e scintillante, dove l’ossessivo chorus vede più che mai protagonisti le voci degli altri strumentisti, che si intrecciano in crescendo dove il caos controllato la fa da padrone.
Orchestrazioni molto presenti nell’altro highlight assoluto rappresentato da Re-Arrange You, dove il solismo delle due asce esplode fragoroso e il gioco di vocalizzi riempie ogni vuoto. The Chase è il pezzo dello special guest Ronnie James Dio, per ovvie ragioni la parte cantata è preregistrata, anche Tate scompare dallo stage; l’attenzione va sullo schermo che proietta un video dove il volto di Dio, impersonante Doctor X, si intreccia con Nikki che corre a perdifiato sulla sua moto. Altra traccia dalla grande suggestione, non ci sono pause che possano disperdere il tourbillon di sensazioni che domina ormai tutti i presenti; A Murderer? è il primo di una serie di brani dal contenuto drammatico straripante, Nikki si chiede se può essere stato davvero lui a compiere il delitto di cui è stato imputato, l’immagine di Sister Mary lo tormenta e lo soffoca. Lei è di nuovo con lui, nella sua mente vive ancora. Circles è un breve intermezzo che introduce alla cinquina conclusiva, quella del rimpianto e del rimorso per quel che poteva essere e non è stato. Pamela Moore contribuisce in modo decisivo a colorire queste ultime canzoni, è il fantasma di Sister Mary che rientra in scena. Tornano ad udirsi quei cori ecclesiastici che già comparivano in Suite Sister Mary, nello sfumare di If I Could Change It All, poi An Intentional Confrontation vede un altro duetto grandioso tra la bionda vocalist e Tate, di breve durata ma dal feeling indelebile.
Fear City Slides e All The Promises pongono il sigillo ad una performance magnifica, soprattutto la seconda mostra tutta la tristezza dell’amore non goduto e miseramente sprecato dai due protagonisti, che si guardano negli occhi per l’ultima volta, prima che sia messa la parola fine alla rappresentazione. Così si esaurisce il concept, ma non il concerto: dopo qualche minuto di attesa, smessi gli orpelli scenici e riappropriatosi il singer del microfono “regolare”, tre estratti da Empire appagano le ultime richieste del pubblico, ancora reattivo e partecipe. Il coro di Jet City Woman fa tremare l’Alcatraz, doppiato dalle altrettanto catchy Empire e Silent Lucidity. Qui si chiude sul serio, dopo tre ore la grande Musica lascia Milano nel caciaronesco rumore del sabato sera; per chi era presente all’evento, invece, il godimento estremo della serata non potrà che rieccheggiare per molto tempo ancora nella mente, così da porre un’immacolata barriera corallina tra sé e la volgarità del mondo che lo circonda.
Grandi Queensryche, mille di questi anni a voi e milioni di questi concerti per noi, del sublime non si è mai sazi e sempre di tal musica vorremmo goder ogni giorno di più…