Loading

SAINT VITUS-SWALLOW THE SUN-SOLSTAFIR

La quintessenza del doom ha due nomi: Black Sabbath e Saint Vitus. I primi hanno attraversato una miriade di sonorità e formazioni diverse nella loro storia, e in molti dischi si sono assai allontanati dal doom, i secondi sono rimasti fermamente ancorati ai principi del genere per tutta la carriera. Hanno avuto anche loro qualche avvicendamento nella line-up, ci sono stati anni di inattività e lunghi silenzi, ma dal 2009 la formazione si è ricomposta con tutti i membri originari al loro posto, ricominciando a rappresentare i peggiori sabba immaginabili in giro per il globo. Dal quartetto originario si è purtroppo dovuto allontanare, già diversi mesi orsono, il drummer Acosta, spentosi un paio di settimane prima della data italiana, che rappresenta la seconda calata del gruppo nel nostro paese dopo la rentree sulle scene dell’anno passato.
Ad accompagnare nelle sortite europee i losangelini c’è un manipolo di ensemble abbastanza variegato, comprendente due entità più tradizionaliste come gli islandesi Sòlstafir e gli svedesi The Graviators e due nomi caldi del gothic/doom odierno, i cileni Mar De Grises e i finnici Swallow The Sun. Luogo del delitto, il Circolo Onirica di Parma, capannone riadattato a sala da concerti con un discreto gusto estetico, con il palco ad altezza consona e sufficiente spazio per gli spettatori davanti al medesimo. Attorno alle 20.40, sbrigate le formalità per l’ingresso nel locale, consistenti nell’acquisto della tessera C.S.I. (Centro Sportivo Italiano), che mi devono spiegare quale attinenza possa avere con un circolo A.R.C.I. (trattasi difatti di un’organizzazione di stampo cattolico…), si accingono a inaugurare la serata col loro tracimante carico di tristezza i Mar De Grises.

imm

In un attimo, tutto tace. Ebbene, ha inizio il concerto e c’è quasi più silenzio che se ci fosse il palco vuoto. Praticamente immobili e assorti sui rispettivi strumenti, i cinque cileni non sono esattamente un esempio di band dinamica. Le tastiere, suonate dal singer Juan Escobar fanno da perno e contrappunto alle trame del gruppo, che avvia la propria esibizione all’insegna delle note lunghe, riecheggianti per lunghissimi, interminabili secondi nella semivuota venue parmense. Il gruppo non vede e non sente nessuno, trasferisce l’introspezione dei pezzi nel suo modo di stare in pubblico e si abbandona a una lenta agonia, rasentando l’immobilismo e lasciando a pochi tocchi di piano il compito di tener desta l’attenzione. La prima parte dell’esibizione è di difficile digeribilità per i non aficionados, concentrati nelle prime due file e intenti a supportare con la massima dedizione l’operato dei propri beniamini. I Mar De Grises sono talmente soffusi da poter essere scambiati per una versione in slow motion dei My Dying Bride più sofferti, il che rasenta i limiti di sopportazione anche del doomster più accanito. Fortunatamente le lunghe song proposte si fanno più incazzate con l’andar dei minuti, e quello che fino a poco prima era un debole lamento diventa un growl bello corposo, il rintocco della batteria si fa grancassa, le chitarre vanno a ingrossarsi e a porre i primi graffi sulle impalcature fin troppo rifinite delle canzoni. Le acque si smuovono e il mix di disperazione, indomita frustrazione, umori neri come la pece avvince, le inflessioni death che prepotentemente divorano il gothic risvegliano dal torpore latente e consegnano alla memoria una performance in ultima analisi convincente, anche se non sempre di facilissima assimilazione.

imm

Già dal punto di vista visuale, capiamo che i lidi sonori affrontati dagli islandesi sono ben differenti da chi ha calcato prima lo stage. Coloro che si mettono ad armeggiare con la strumentazione negli ultimi minuti prima dello show potrebbero essere scambiati per degli ebrei ortodossi appena usciti dalla sinagoga, o per dei cowboy dei tempi della frontiera in procinto di entrare al saloon per una meritata sosta nel viaggio verso ovest. Uno dei tizi ha un cappello da mandriano che non toglierà per tutto il concerto, un altro ha due lunghe treccione che escono da una bombetta molto british, il singer potrebbe essere il protagonista della saga della Torre Nera di Stephen King, solitario esploratore di un mondo abbandonato. Il batterista è quasi invisibile, troppo indietro perché lo si possa visionare con la dovuta attenzione. Quando partono a suonare, senza troppe cerimonie e mostrando scarsa attenzione per gli astanti, nel frattempo aumentati di parecchi unità, la sabbia del deserto avvolge nel suo torrido mantello i presenti. Un basso fortemente rugginoso sfrega su dei riff arrotati e saturi di feedback, che pulsano di vitalità e si librano prorompenti, sciolti da schemi prefissati. I nostri suonano con naturalezza e disinvoltura, fusi in unico corpo sonoro e in una, apparente, jam-session dai contorni sempre abbastanza nitidi da far sì che i brani non si perdano in schitarrate sconclusionate. Si apprezzano allora le vocals straziate e dannate di Aðalbjörn Tryggvason fendere l’aria durante inopinate esplosioni alla Neurosis, e ne se apprezzano le calde sfumature negli andamenti lisergici un tempo cari ai Kyuss. Ancora, arrivano dirette cavalcate di semplice rock’n’roll, affiancate un istante dopo da lunghi interludi che non è reato ricondurre agli Isis. Il tutto suonato con tonnellate di feeling e una potenza deflagrante, che sposta dalla loro un’audience nei primi minuti freddina, ma infine decisamente coinvolta. Questi meritano.

imm

Cambio di palco e immediato ritorno al gothic/doom dei tempi moderni. Tocca agli Swallow The Sun, altro combo che manda in brodo di giuggiole le giovanissime. Lo stereotipo del nordico algido, allampanato e melanconico resiste e se ci aggiungete un minimo di senno nel suonare uno strumento qualsiasi, il gioco è fatto. Facezie a parte, non c’è dubbio che dai primi passi compiuti a inizio millennio la popolarità dei ragazzi ha tracimato i confini nazionali e si è diffusa un po’ ovunque. Le prime file difatti si infoltiscono e aumenta la partecipazione popolare, i conoscitori delle loro canzoni sono tanti tra i convenuti e si crea un clima che va al di là della mera curiosità, sentimento comune che aveva accompagnato l’esibizione dei Sòlstafir. I ragazzi della band sono come te li aspetteresti data provenienza e tipo di musica: apparenza algida, molto presi dall’headbanging e dal mood dei pezzi, poco inclini a un rapporto col pubblico diretto e caloroso ma sufficientemente in movimento da non mettere troppo distacco tra sé e l’audience. Rispetto ai Mar De Grises, i finnici sono meno depressi e pesanti, giostrano i ritmi in modo da non calarsi troppo nella parte del gruppo intristito e senza speranza, affiancando alle parti più d’atmosfera sprazzi violentemente metallici. La relativa semplicità delle melodie e il cantato in screaming del singer, con obbligatorie aperture in clean vocals suadenti, da una parte permettono di seguire lo sviluppo delle song con relativa facilità, dall’altra fanno scadere nella prevedibilità buona parte del materiale proposto. Lo sbattimento e la presenza scenica sono più che sufficienti, la resa delle song invece denota un songwriting fin troppo ragionato e teso a far coesistere diversi elementi in modo artificiosamente equilibrato, in cui vengono meno la spontaneità e l’istinto.
Alla lunga gli Swallow The Sun sono troppo quadrati e, a prestar bene orecchio, sai già dove andranno a parare con la nota successiva a quella appena sentita. Un discreto ensemble, come ce ne sono tanti e che probabilmente gode di una critica più favorevole delle reali doti artistiche.

imm

Per capire che razza di personaggi siano i Saint Vitus basterebbero i due cartelli, scritti col pennarello, posti ai banchi del merchandising: in entrambi la band chiede gentilmente se qualcuno ha dell’”erba” da dargli, si sono trovati a secco delle loro scorte e si affidano alla bontà del prossimo per venire meno a questa mancanza. Lascio a chi legge trarre le dovute conclusioni.
Dallo stage, nei minuti antecedenti l’esibizione, proviene un’aria particolare, quella tensione positiva che accompagna i grandi avvenimenti, le serate dal gusto diverso e più sfizioso. Loschi figuri si aggirano qua e là a mettere a posto la strumentazione, finchè non compare Dave Chandler in tutto il suo schiacciante carisma. Figura pittoresca, lo storico chitarrista dei Saint Vitus, che sfoggia una lunga (e folta) chioma grigia e baffoni altrettanto importanti. Si occupa direttamente del soundcheck, i presenti lo acclamano e lui li incita a urlare il nome del defunto Marcelo Acosta, con una voce nasale da America profonda, scaldando la platea ancora prima che le prime note risuonino all’Onirica. Appare anche Wino e la sensazione di stare per assistere a qualcosa di sensazionale si rafforza: l’occhio tradisce lo stato lievemente alterato del singer, le pupille fiammeggiano di una luce strana, determinazione e lucida follia si mischiano nel suo sguardo. Qualche cenno di approvazione per dire che sì, è tutto ok, si può cominciare, e le porte degli Inferi, quelli pittoreschi descritti da Dante, si spalancano dinanzi a noi.
Al primo riff suonato da Chandler, tutti rimangono basiti: una distorsione piena di dannazione esplode dalla sei corde del vecchio bucaniere di L.A., un pugno alla bocca dello stomaco stende vecchi e nuovi fan, tanto è esagerata, cattiva, malata e bellissima. Un suono che ci si può arrivare in studio dopo ore di alchimie in consolle, viene riprodotto con assoluta naturalezza dal vivo, già nei primi secondi del primo brano. E quando entra in campo la voce di Wino, i demoni saltano e ballano dappertutto, cospargendo di polvere magica tutt’attorno: le vocals di Wino ti strisciano dentro, non ti aggrediscono, sono una tetra cantilena che ammanta l’aria di vizio e perdizione. Il nuovo drummer Henry Vasquez sa il fatto suo e scatena un discreto pandemonio dalla sua postazione, assestando continui scossoni alle nere partiture di chitarra con un uso incessante dei piatti e piccoli filler messi qua e là a movimentare le canzoni anche quando si viaggia nei territori plumbei e senza luce del doom più ortodosso. Chandler, oltre a scavare catacombe coi riff, inanella assoli incandescenti, taglienti e prolungati fino al massimo stridore possibile delle corde, accompagnando ognuno di essi con smorfie eloquentissime su quanto sia completamente rapito dalla propria musica. Wino, perennemente aggrappato al microfono, è altrettanto coinvolto e fuso in un’unica entità con la propria arte. Impassibile al suo posto, il bassista Mark Adams non fa mancare il suo supporto ma si guarda bene dal mostrare qualsiasi emozione.
Il doom, coi Saint Vitus, non vede più distinzioni tra pezzi veloci e ultra-slow: che si mettano a marciare spediti sulle ali dell’hard rock o temporeggino in meandri caliginosi, i nostri suonano maledetti e pericolosi. E’ veramente il diavolo che ce li ha condotti e ha permesso loro di manifestarsi in veste suadente alle nostre orecchie, così da poterci condurre più facilmente al centro della terra a sopportare le pene più atroci.
Le pause sono solo attimi per far decantare e assaporare meglio quel che stiamo vivendo, Wino e Chandler non fanno mancare divertenti sproloqui rivolti al pubblico e mostrano di intendersela una meraviglia tra di loro. L’eccitazione, a bordo palco, è palpabile e cresce vertiginosamente durante il concerto, fino al tuffo di Chandler dallo stage sul calare dell’esibizione. Il chitarrista rimane per alcuni minuti attorniato dai fans, che lo strattonano e se lo contendono, mentre lui continua a suonare e, dopo qualche faticoso tentativo, riguadagna il palco per chiudere il concerto, alla fine di 75 minuti che faremo fatica a dimenticare, per intensità e senso di meraviglia provato.

Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, la serata non finisce qui, o meglio, per noi, giunti all’una e mezza di notte e con la prospettiva di dover affrontare molta strada per far ritorno al letto domestico, è tempo di levare le tende, ma in programma c’è dell’altro. I The Graviators, che in teoria dovevano essere l’act di apertura, finiscono per dover suonare dopo i Saint Vitus, non si sa bene per quale motivo, ma soprattutto, per quei pochi capaci di resistere all’Onirica fino a notte inoltrata, c’è una primizia assoluta: set acustico di Wino, che presenta la sua fatica solista Adrift. Dimorassimo a pochi km di distanza dal locale, ci sarebbe da restare inchiodati a bordo palco fino all’esalare dell’ultima nota, purtroppo non è così e possiamo essere lo stesso soddisfatti, per quanto un pizzico di invidia per quei pochi rimasti fino all’ultimo rimanga….