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THE UNHOLY ALLIANCE III

L’Assassino viene d’autunno, quando le foglie cadono copiose, il freddo punge, l’oscurità adombra la gioia nei cuori, le spensieratezze latitano, sommerse da obblighi pedanti e improrogabili.

L’Assassino difficilmente marca visita; quasi ogni anno si manifesta a noi, incurante e sbeffeggiante verso le stagioni che passano, si alternano, provano a minarne la solidità. In cambio, queste si vedono appioppate una coltellata nelle reni, com’è giusto che sia. L’Assassino è uno e quadruplo, quattro facce, otto mani, miliardi di cellule da 25 anni e oltre tese a schiaffeggiare, massacrare, portare all’estremo le benedette/maledette sette note, e sempre con addosso quell’immagine malefica che ha attraversato le generazioni senza subire scalfitture.

Unholy Alliance atto terzo, gli Slayer doppiano l’imperiale esibizione del Gods Of Metal, e come al solito si portano dietro un carrozzone niente male, molto eclettico tra l’altro, formato da bands al momento all’apice della popolarità. Al di là dei gusti personali, e sorvolando sul prezzo di listino per un tale ben di Dio (a parte i tre giorni a discount, 23 euro + prevendita, c’era da dissanguarsi…), un bill con Slayer, Trivium, Mastodon, Amon Amarth va a soddisfare molti fini palati, e non può lasciar indifferenti.
Frivoli impedimenti del mondo reale impediscono di arrivare in tempo per gli Amon Amarth, di cui facciamo in tempo ad ammirare solo il brano di chiusura, un bel macigno di epos nordico col quale i corpulenti svedesi salutano tra scrosci d’applausi più che convinti.

Il Palasharp ha una temperatura freddina assai quando entriamo, per fortuna è già il momento dei Mastodon, oggi ridotti a trio a causa di un problema di salute occorso al chitarrista Bill Kelliher.
Bevete meno, ragazzi, bevete meno! Va bene fare i rocker sfrenati, però un minimo di moderazione diamocela ogni tanto, altrimenti tra qualche anno fate la fila per il trapianto di fegato, e non è un’ipotesi simpatica, anzi…Kelliher ha subito una pancreatine acuta nella parte inglese del tour, e così gli inquieti squinternati di Atlanta se la devono vedere col pubblico meneghino ridotti di un’unità.
Poco male, fin dall’attacco di Blood And Thunder si capisce che è serata buona e la mancanza di una chitarra, nonostante l’estrema complessità dei brani del gruppo, non compromette l’effetto complessivo. Incredibile il contrasto tra l’immagine clochardesca, sciatta, dei musicisti, e l’ardimentosa maestosità delle loro canzoni, tutte suonate senza sbavature e corredate delle mille frastagliature e coloriture mostrate su cd. Stasera, con poco tempo a disposizione, si aggredisce senza tanti preamboli e chiacchere da bar, e si rimpalla di continuo tra Leviathan e Blood Mountain, senza concedere gloria a Remission e Lifesblood. Suoni roboanti fanno da assist a performance sbalorditive di Seabeast, Sleeping Giant, della misteriosa Crystal Skull. Dailor è terremotante alle pelli, fa schizzare come una sfera impazzita le canzoni, manipolate e plasmate nel contorto riffing da un Hinds talvolta leggermente afono, ma mai fuori fase nel toccare la propria chitarra, i cui voli pindarici irretiscono facilmente le prime file. Il vortice senza speranza di Iron Tusk solleva gli oceani come su disco, The Wolf Is Loose colpisce dritto nell’addome, Megalodon spiazza nello stacco simil-country e violenta nelle susseguente ripartenza.
Circle Of Cysquatch si nutre di suggestioni robotiche in certi filtri usati per manipolare le corde vocali di Sanders, mentre l’ultima song rilegge un classico dei Melvins, The Bit, attraverso la lente di un riffing hard-rock modernizzato, distorto, appesantito e saturo dei colori più sgargianti e inusuali che possiate immaginare. Una chiusura inaspettata e di grande effetto.

Cosa ci facciano i Trivium sopra i Mastodon, è uno di quei punti di domanda stramaledetti che hanno, purtroppo, la loro risposta nell’inopinato successo riscosso da gruppi, come i giovani americani, dalla qualità media passabile e nulla più, ma sapientemente venduta fino a creare immotivata idolatria nelle fasce di pubblico meno esperte.
Sul palco, i quattro scatenati giovanotti, freschi autori di Shogun, se la sfangano con le pose alla Hetfield del cantante-chitarrista Matt Heafy, un buon tiro, smorfie da duro di chi ha studiato con cura maniacale le pose dei propri beniamini e un’ammiccante alternanza di schemi thrash d’annata e strizzate di palpebra al metalcore. I suoni li aiutano nel costruire un discreto wall of sound e, almeno superficialmente, lo show potrebbe pure funzionare; a prestare orecchio in maniera meno distaccata, ci si accorge che il fumo è maggiore dell’arrosto, e a lungo andare questo voler fare i cattivi, questo mostrare i muscoli e ammiccare di continuo al pubblico non è che li faccia risultare tanto simpatici.
Se la tirano, i Trivium, e neanche poco; le canzoni poi non sono nemmeno dei capolavori, sul cantato pulito e sul growl del secondo chitarrista accusano cali di tono evidenti, mascherati da una carica innegabile, ma non sufficiente a farceli apprezzare appieno. Non sarebbero in assoluto una band “sola”, però da una band che suona appena prima degli Stayer ci si attenderebbe qualcosa di più di una performance nella norma.

Here Comes The Pain…..Siamo agli attimi supremi che separano la normalità delle nostre esistenze dall’eccezionalità della Loro apparizione, quei minuti in cui ti porti sotto, cerchi di prepararti mentalmente a quello che sta per accadere, entri nel giusto clima agonistico. Non si sottovaluti la ricerca della carica agonistica, perché ad avere ad un approccio molle a un concerto come questo chissà dove si viene scaraventati. Stasera, se la Live non ha proferito mendace verbo, gli Slayer dovrebbero eseguire per intero il masterpiece forgiato nel sangue, il non plus ultra dell’estremo Reign In Blood. Ora, già un Loro concerto non è mai banale, se poi ci si mette una notizia del genere, è inutile dire quali fossero gli stati d’animo prima dell’esibizione dei losangeliani.
Come accaduto recentemente per gli In Flames, un lenzuolo bianco si frappone tra noi e il palco, sul quale le inconfondibili sagome dei nostri prediletti si disegnano attorno alle 21.15, mentre rieccheggia come intro non la consueta Darkness Of Christ, ma la vetusta Metal Storm (Face The Slayer). Giochi di luce col nome del gruppo e il pentacolo rovesciato vengono proiettati sul telo, quindi ecco il sipario cadere e l’aere saturarsi di tensione. I volumi sono scandalosamente bassi quando irrompe il riff di Flesh Storm, e qualche parola poco gentile vola verso i fonici, intanto che dal mixer alla prima fila non c’è persona fisica che non sia travolta dal turbinio attorno a sé. Volumi bassi sì, però fin da subito si vede quanta benzina abbiano in corpo Araya e soci, e le preoccupazioni sulla qualità dei suoni vanno a farsi benedire definitivamente al calar dell’ascia War Ensemble sulle nostre teste. Solita esecuzione mastodontica, Araya lascia cantare qualche verso al pubblico, dosa la voce sapendo bene a quale tour de force stia andando incontro; è l’unico segno di moderazione, perché a vedere l’headbanging violentissimo che fanno continuamente, i quattro musicisti paiono scatenatissimi, ed è incredibile che abbiano ancora la testa attaccata al collo dopo tutti questi anni di massacro cervicale.
Si prosegue, sapientemente, nel segno della guerra con Chemical Warfare e Ghosts Of War; dove finisce l’una, inizia l’altra, così da eliminare ogni minima possibilità di respirare e da stringerci sempre di più in una morsa letale. Odio chiama odio, Jihad a voi, cuori grondanti spietatezza; lo schermo coi led luminosi a fondo stage, a sostituzione degli enormi teloni di solito usati dalla band, passa immagini di bombe e distruzioni, Araya urla spiritato la follia del terrorista prima dell’atto inconsulto. Il percorso d’avvicinamento a Reign In Blood, l’avrete capito, prosegue glorioso: viene ripescata Live Undead, Seasons In The Abyss viene suonata dall’inizio alla fine, ed è spettacolo nello spettacolo vedere Hanneman e King cantare il testo con gli occhi iniettati di sangue fissi al pubblico. Dittohead è un antipasto delle folli velocità che sentiremo tra poco, Disciple e Cult riportano il focus del discorso su lyrics al vetriolo contro ogni tipo di religione. L’inedito Psychopathy Red tiene il passo di tanta magnificenza, e quando i primi dubbi sull’esecuzione integrale del capolavoro del ’86 iniziano ad affiorare (siamo già all’ora di concerto), arriva il segnale, la sirena antiaerea del massacro imminente. South Of Heaven non può che venire prima di una canzone, una soltanto: croci bianche ruotano sullo sfondo, un maligno giro di chitarra ci avvicina agli Inferi. Per ora siamo a Sud del Paradiso, le porte del mondo oscuro sono davanti a noi, non resta che varcarle.

The Supreme Ecstasy: REIGN IN BLOOD

L’Infame Macellaio, difatti, inizia i suoi esperimenti appena dopo; Araya si risparmia l’urlo d’avvio, poi parte a declamare indemoniato e ineffabile, e non ce n’è per nessuno. E’ come se partisse un altro show, ancora più insano, virulento, isterico, e probabilmente indescrivibile a chi non vi ha la fortuna di assistervi. Il livello dello scontro si alza ulteriormente, la band aumenta i giri del motore e aggredisce con rinnovata energia, per nulla stanca di quanto fatto fino a quel momento; la musica viaggia più veloce, più potente, martella ossessiva, si ha l’impressione di un collasso imminente, perché troppa è l’energia messa in campo, non la si può reggere. Se ci fosse ancora bisogno di capire cosa rappresenti, oggi come 22 anni fa, Reign In Blood, la risposta sta in questa corsa sfrenata verso l’apocalisse intrapresa on-stage dagli Slayer.
Non è solo Angel Of Death a far gelare il sangue, è tutto questo concatenarsi di pezzi velocissimi, senza respiro, senza tregua, dieci sfregi ai limiti delle capacità di sopportazione umana in termini di intensità, energia, potenza, virulenza. E’ tanta la crudeltà e la sfrenatezza che esce dal muro di Marshall che, a larghi tratti, pensi che tutto stia per esplodere, e un’atomica possa detonare e radere al suolo ogni cosa. In questa unica, pazzesca, miracolosa tirata, sarebbe bello sdoppiarsi e goderne gli effetti da una pluralità di punti di vista: ci sarebbe da star fermi, a guardare le quattro belve che pestano come ossesse sui loro strumenti, e allo stesso tempo gettarsi nel mosh perdendo ogni freno inibitore. Non si dovrebbe nemmeno rinunciare a sradicarsi il collo nell’headbanging e varrebbe anche la pena di restare afoni, dopo aver urlato come disperati tutta la depravazione dei testi. Ma un solo corpo noi abbiamo, e per cantare, pogare, vivere appieno l’evento immoliamo noi stessi, scorticandoci con godimento su Piece By Piece, Necrophobic, Altar Of Sacrifice, Jesus Saves. Ci si ferma un attimo, nella sospensione di pochi secondi di Criminally Insane, e poi via, piede a tavoletta, fino a quel ”What I Am, What I Want, I’m Only After Death”, allo stacco di batteria che ne consegue e chiude Postmortem, prima dell’ultima coltellata, la più mortifera.
Piove sangue nei nostri cuori e nelle nostre menti, prostrati e sovraeccitati dal sovraccarico elettrico-emotivo subito. Raining Blood mette la parola Fine, dopo oltre un’ora e mezza si torna alla normalità, le luci si accendono, la band saluta di cuore e scompare dalla nostra vista. Non c’è un solo visto insoddisfatto, solo un unico, malefico, ghigno di piacere a figurare sugli astanti che lentamente tornano a casa.