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TOTAL MASSACRE DEATH FEST

Anche nel 2012 la Nihil sta continuando a proporre festival fenomenali, in cui si possono ammirare pesi massimi del metal estremo internazionale, sfiziose chicche underground e una vasta selezione delle tante, intriganti, realtà che spuntano come funghi su suolo italiano. Questa volta è il turno dei dioscuri del brutal death a stelle e strisce, i Suffocation, presentarsi al Carlito’s Way di Retorbido, diventata ultimamente una piccola mecca del metallo tricolore. I newyorkesi sono attorniati da un paio di nomi esteri di lungo corso, i grinders Cattle Decapitation e i deathsters vecchio stampo Blood Red Throne, e da una messe di act italici, tra i quali spiccano i Kaptivity del terremotante esordio “Walk Into The Pain” e gli Adimiron dell’elogiatissimo “K2”.

In prossimità della manifestazione, una sfiga subdola sembrava minacciare la buona riuscita della giornata; la defezione degli Hate, e soprattutto l’incertezza sulla presenza di Frank Mullen dietro il microfono dei Suffocation avevano destato un po’ di preoccupazione. Se poi aggiungiamo che anche il batterista storico dei nostri, Mike Smith, se n’era appena andato, si può capire che una parte del pubblico avesse cominciato a temere un evento in tono minore. Come andrete a leggere nelle righe che seguono, le cose sono andate in maniera leggermente diversa….

Giovanni Mascherpa


UNDER THE OCEAN

Agli Under The Ocean spettava l’infausto compito di provare a scaldare gli animi dei pochi presenti che intorno alle 17 si erano assiepati sotto il palco del Carlito’s Way. Missione fallita in maniera clamorosa, complice anche il fatto di proporre un death-core banale e scontato che non tralascia alcun clichè del genere e che sa di già sentito in maniera imbarazzante. Totalmente fuori contesto, imprecisi in fase esecutiva e tutt’altro che trascinanti, dubito che i parmensi abbiano lasciato ai pochi presenti qualche motivo per essere ricordati. Gruppo come ce ne sono a centinaia, con poco carisma e ancor meno sostanza.

Wladimir Marconi


GOD SAVE THE HELL

I God Save The Hell sono una band giovane. Molto. E la loro performance di stasera lo ha mostrato in maniera netta. I ragazzi di Milano hanno palesato tutta la loro inesperienza che si è fatta sentire non tanto sul piano esecutivo, quanto su quello scenico. L’unico che ha provato a coinvolgere un po’ il pubblico è stato il frontman, per il resto mi è parso di assistere al concerto di impaurite statue di gesso. Sicuramente l’emozione ha giocato un ruolo fondamentale, ma i God Save The Hell mi sono sembrati davvero inadatti ad un festival di questo livello. Il loro death metal variegato di sfumature thrash in alcuni momenti risulta anche piacevole e coinvolgente, ma di strada da percorrere ne hanno ancora parecchia. Qualcosa di positivo si è intravisto e spero che con l’esperienza riescano a migliorare. Di tempo, considerata la giovanissima età, ne hanno a iosa.

Wladimir Marconi


KAPTIVITY

Ero molto curioso di assistere alla prova della band di Parma, vista l’ottima impressione che mi ha fatto il loro album “Walk Into The Pain”, uscito sul finire dello scorso anno. Devo dire che i Kaptivity non mi hanno affatto deluso, anzi, la loro esibizione è andata oltre ogni mia più rosea aspettativa. Il loro death metal rozzo e massiccio guadagna molto in sede live, mostrando una band dal gran potenziale e che trasuda passione e dedizione da ogni singola nota. Prova tutta sudore e grinta, soprattutto da parte del frontman Franz, che tiene il palco in maniera esemplare e ha una voce che pare provenire da un altro mondo. Gruppo che a mio modestissimo parere avrebbe meritato ben altra posizione nel bill, ma non si può avere tutto. Quindi mi accontento di aver assistito all’ottima prova di una band alla quale auguro il meglio per il futuro, questi ragazzi se lo meritano.

Wladimir Marconi


SEPHIRAH

 E’ ora il turno dei bresciani Sephirah, autori di un death metal dalle sfumature black accompagnato dalle tastiere. La loro musica ha una forte componente atmosferica, spesso il gruppo si concentra sui mid tempos nei quali le suddette dovrebbero fare la parte del leone, ma che invece risultano alquanto innocue e a volte davvero inutili. Nonostante il frontman inciti a più riprese i metal kids presenti, ho l’impressione che la loro esibizione venga alquanto snobbata, o perlomeno seguita con poca attenzione. Peccato, perché dal canto loro i Sephirah ce la mettono davvero tutta, mettendo nella loro performance  tutto l’impegno e l’energia che hanno in corpo. Come per la band di apertura, il fatto di essere un po’ fuori contesto rispetto alla brutalità pura del resto del bill non ha certo giocato a loro favore, e devo ammettere altresì che in alcuni momenti li ho trovati abbastanza soporiferi, soprattutto nelle parti rallentate. Prova senza infamia né lode, anche se ho intravisto buone qualità e una buona capacità di tenere il palco.

Wladimir Marconi

ADIMIRON

Scaraventati in un contesto votato in toto o quasi al death metal, al posto dei defezionari Hate, gli Adimiron devono sudare sette camicie per accaparrarsi un po’ di attenzione. Il singer Andrea Spinelli si sgola come un dannato per smuovere la platea, effettivamente un po’ freddina per la band capitolina. I nostri non appaiono comunque intimiditi dall’ambiente poco ricettivo e attanagliano chi ha voglia di sentirli nel loro techno/thrash di ultima generazione, che attinge a piene mani dai Meshuggah meno deumanizzati e dai Nevermore della seconda metà di carriera. Tecnicamente ineccepibili, gli Adimiron spaccano di brutto nelle parentesi più esasperate, quando il mosaico di chitarroni trancianti e tocchi sincopati e poliritmici della batteria assume i connotati dell’abbraccio letale di un’anaconda, mentre il groovy style delle parti più accessibili, pur apprezzabile, sfiorisce nell’anonimato. Non convincono appieno nemmeno le parti vocali, che inseguono affannosamente le attorcigliate parti strumentali, incagliandosi troppo spesso in un semi-growl poco attraente e simile a troppi gruppi di ultima generazione. Lodevoli, anche se alla lunga un po’ forzati, i tentativi del cantante di accendere la miccia della follia a bordo palco, con i presenti chiaramente in attesa degli act più confacenti ai loro gusti, prossimi a calcare lo stage. Fortunatamente un minimo di calore alla fine i ragazzi lo suscitano, e se lo meritano pure, perché anche con qualche difettuccio qua e là il gruppo si dimostra un valido interprete delle forme sonore in voga al momento.

Giovanni Mascherpa

  

BLOOD RED THRONE

Volete una sintesi quanto più esplicativa possibile del concetto di old-school death metal? Andatevi a sentire i Blood Red Throne dal vivo e poi mi saprete dire. Da buon ignorante dell’operato dei norvegesi, di cui ricordavo giusto gli elogi spesi su Grind-Zone per il loro esordio “Monument Of Death”, mi aspettavo poco più di un gradevole intrattenimento da parte degli arcigni deathsters nordici. In questi casi godo come un porco ad essere smentito, difatti dopo pochi minuti ho cominciato a provare le stesse emozioni del mio primo concerto metal in assoluto, anno di grazia 2000. Allora si parlava di un eccezionale X-Mas Festival con headliner i Morbid Angel e di supporto gente come Dying Fetus, The Crown, Behemoth; ricordo la sensazione di pericolosità, di putrido e brutale che entrava sotto pelle, l’inesorabilità dei colpi inferti, la sconcertante vitalità dell’orrore quando è descritto da mani fatate e votate all’omicidio in note. Ho ritrovato quelle stesse sensazioni nella performance ammazza cristiani di questi ignoranti, minacciosi, massicci musicisti, baciati dal killing istinct del death ammorbante e concreto degli inizi, prima che diventasse minimamente rifinito, orecchiabile, facile. I Blood Red Throne sono diretti e ferali come la Falciatrice, sanno suonare alla grande ed incanalano la loro perizia esecutiva verso l’unico obiettivo serio di un combo del settore; picchiare duro finchè non si sentono le ossa spezzarsi. Yngve Bolt Christiansen apre ferite rimarginate da tempo con un growl espressivo come David Vincent e Glen Benton insegnano, cerca il contatto col pubblico, finisce anche per scendere dal palco e cantare in mezzo ai suoi fans, addirittura si getta nel pogo durante l’ultimo pezzo. Da culto gli sproloqui tra una canzone e l’altra, in totale stato alterato il singer si avventura in monologhi insensati, nei quali perde il filo e sembra non riuscire più a tornare al punto di partenza. La galleria di personaggi si compone inoltre di un bassista ragazzino (bravissimo) con maglietta scolorita di “Ritorno Al Futuro”, un batterista altrettanto giovane e micidiale, un chitarrista fanatico di Dimebag Darrell, che ricorda vestendo una maglietta dei Pantera e con pose e look degni dell’originale, oltre che per la gestualità da redneck. Chiude il cerchio il secondo, allucinato, chitarrista, che a parere di chi scrive non si è reso conto del tutto del luogo e delle circostanze dello show, ma che al lato pratico ha fatto anch’egli la sua impeccabile figura. Sfuriate annichilenti, rallentamenti melmosi, una grossezza del sound e un genuino lerciume da pelle d’oca hanno sfondato le vertebre e allargato il cuore di chi crede nel death metal oggi allo stesso modo di quando ha iniziato ad ascoltarlo; con gente del calibro dei Blood Red Throne sappiamo che certe sensazioni non moriranno mai. Che spettacolo!

Giovanni Mascherpa

CATTLE DECAPITATION

E se già il morale era alto, coi Cattle Decapitation è volato alle stelle. Le solite, errate, previsioni, senza avere sentito una singola plettrata del quartetto di San Diego, mi facevano presagire una onesta esibizione di picchiatori volenterosi ma dalle idee latitanti. L’asino casca subito, e invece di farsi male si rotola al suolo ebbro di piacere. I Cattle Decapitation, è ufficiale, non sono umani; altrimenti non si spiegherebbe questa ridda di riff visionari e fuori da ogni logica, svisceranti gli angoli più atroci del death e del grind, queste mille voci da incubo in uscita da quel condotto di atrocità psicopatiche che è la gola di Travis Ryan, capace di alternare urla isteriche, supergrowl, rantoli da moribondo, aspirati inverecondi. Viene sfoderata una serie di registri che la metà basterebbero a far grande un singer estremo, e di conseguenza la band che ha la fortuna di averlo al microfono. Ma i Cattle Decapitation non riducono la propria grandezza a un monumentale cantante; la sezione ritmica è stordente e illimitata nelle risorse tecniche/omicida e sfida se stessa in contorsioni oltre l’immaginabile, facendo trasalire più volte chi ascolta per le difficoltà delle partiture, in cui i nostri si divincolano come Predator tra le budella umane. L’odore della carne che stanno maciullando, quella carne da loro, vegani convinti, schifata all’ennesima potenza, li motiva a provare a raggiungere e scavallare sempre nuovi limiti di velocità, schizofrenia, maestria, centrando appieno il bersaglio. Gli sguardi, tra il pubblico, vanno dal costernato all’allibito, e vista la vicinanza con Voghera si potrebbe pensare, a ragione, che i quattro davanti a noi siano pazienti dell’ ex manicomio ben addestrati nelle arti musicali. Invettive contro i carnivori, una faccia trasfigurata da espressioni del volto poco rassicuranti e una vitalità fuori dal comune contraddistinguono il singer, mattatore indiscusso nel rapporto con l’audience, che rimane forse ancora più soggiogata dall’orrida pettinatura e dal viso mummificato, gelido, del mago delle sei corde Josh Elmore, il cui unico ciuffetto di capelli, sparuto in mezzo a una altrimenti completamente pelata crapa, è lo sberleffo del matto verso il mondo che lo circonda, così come i suoi riff galattici sono la dimostrazione lampante della sua non appartenenza ad alcuna razza terrestre. Se devo immaginare i connotati di uno psicopatico senza cuore, da oggi penserò immediatamente a lui.

Una roba fuori dal normale, i Cattle Decapitation con stasera si collocano tra i grandi del mio personale libro magico dell’estremo. Vegani, eppure famelici come la più affamata belva carnivora del globo.

Giovanni Mascherpa


SUFFOCATION

Il concerto dei Suffocation non nasceva certo sotto i migliori auspici. Il loro storico drummer se ne era appena andato sbattendo la porta e in più il leggendario frontman Frank Mullen  aveva dato forfait in alcune date antecedenti quella  di Retorbido, cosa che aveva insinuato in molti la paura che non sarebbe stato della partita nemmeno stasera. I timori trovano conferma quando verso le 23.30 sale sul palco la band e dietro al microfono prende posto Bill Robinson, frontman dei Decrepit Birth (già sostituto di Mullen nel corso del tour europeo), che avevo notato poco prima passeggiare tranquillamente nel locale durante l’esibizione delle altre band. Già sentivo le lamentele dei presenti, alcuni incazzati come iene per il fatto di trovarsi di fronte “alla cover band” dei Suffocation, imprecando al grido di “non è la stessa cosa” e amenità simili. Tutte cazzate. La band statunitense è stata protagonista di uno show incredibile, pazzesco, al limite dell’umano. Manca Smith dietro le pelli? E chissenefrega se a sostituirlo c’è un autentico mostro di bravura che risponde al nome di Dave Culross, che più che un uomo pare un alieno con otto braccia e sei gambe. Preciso, pulito e devastante, non ha fatto certo rimpiangere il suo collega, che sotto alcuni aspetti gli è palesemente inferiore. Vi chiederete a questo punto come se l’è cavata Robinson, giusto? In maniera egregia. Pur non avendo la versatilità vocale di Mullen, stava sul palco con una naturalezza incredibile, mostrando anche una dose di umiltà encomiabile, salutando e ringraziando a più riprese il collega che stava sostituendo, perfettamente  conscio del fatto che stare su quel palco fosse un onore per lui. La scaletta poi è stata da infarto. Il brano più recente proposto dai nostri è  stato “Abomination Reborn”, datato 2006. Per il resto una sequela di pezzi storici quali “Pierced From Within”, “Breeding The Spawn”, “Liege Of Inveracity” hanno letteralmente annichilito il pubblico che per la maggior parte era in totale adorazione e alla mercè del gruppo newyorkese. Concerto pazzesco, niente da dire. Certo, la presenza di Mullen sarebbe stata la ciliegina sulla torta, ma lamentarsi di una prestazione del genere sarebbe da persone poco obiettive oltre che prevenute. Per quanto mi riguarda non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie. Al termine del concerto ero incredulo ma più che soddisfatto, conscio del fatto di aver assistito allo show di una band che non solo è una della migliori in campo Death Metal. E’ una delle migliori in assoluto, al di là del genere. E stasera lo ha dimostrato alla grande. Punto.

Wladimir Marconi