I Vader festeggiano i 25 anni di attività con un altro, estenuante, tour europeo, dove vanno a toccare quasi ogni paese del Vecchio Continente nell’arco di due mesi assolutamente al cardiopalma, per tutti i musicisti coinvolti.
L’Italia ospita questo carrozzone del metal estremo per due date, la prima delle quali vede il gruppo polacco e i suoi compagni di viaggio impegnati sulle assi del MusicDrome.
Poco prima del deflagrar delle prime munizioni, pochi e quasi assopiti metallers popolano il locale, a minacciare una serata per pochi intimi: con un parterre ancora così poco affollato, arrivano, in perfetto orario, a menar le danze gli Inactive Messiah, che avrebbero, nelle intenzioni, l’ardire di proporre un death contaminato di samples e atmosfere aliene.
L’inizio è assai macchinoso, suoni impastati e sordi appiattiscono la resa di ogni partitura strumentale, ma a dir la verità papale papale è difficile ravvisare chissà che inventiva nella musica degli ellenici. Ogni pezzo sembra snodarsi su mid-tempos anonimi e ripetitivi, qualche inserto tastieristico, per altro campionato, prova a smuovere le acque ma la risultante dello sbattimento che i cinque ragazzi sullo stage si danno è solo una discreta noia. Il poco pubblico prova a dare qualche incitamento, i suoni migliorano un pochettino e si va per lo meno in crescendo, ma in sostanza davvero poco rimane di questa esibizione negli occhi e nelle orecchie di chi vi ha assistito.
I toni cambiano, e non di poco, quando pochi minuti dopo compaiono i Devian, novella creatura di Legion, lo storico singer dei Marduk fuoriuscito dalla sua band madre da un paio di releases a questa parte. Gente in delirio alla sola vista della sua presenza, il vocalist ricambia con trucido ardore e le fiamme della passione metallica ardono finalmente vigorose. Con i suoi nuovi compagni d’arme Legion ha deciso di tornare un po’ indietro nel tempo, andando a riprendere tutto quanto faceva grossolanamente estremo e cattivo ad inizio anni ’80, una commistione di black-thrash rozzo e scatenato, melodie da NWOBHM suonate con un taglio più evil e tanta voglia di far casino. Strumentalmente quello che si chiede in casi del genere è compattezza e furore agonistico, e nessuno da questo punto di vista può dirsi deluso: la band marcia veloce e senza freni e la rozzezza di fondo si integra bene alle iniezioni armoniche che le chitarre ogni tanto danno, meglio ancora va dal punto di vista vocale e della tenuta del palco complessiva. Legion non si limita allo screaming black, ma va piuttosto a toccare tonalità da thrash estremo, scartavetrando ogni nota con piglio da rocker maledetto più che da blacksters demoniaco: inoltre non sta fermo un attimo e anche gli altri musicisti sottolineano la dinamicità della musica muovendosi in modo tarantolato per tutta l’esibizione. Condisce il tutto la solita deficiente voglia di bestemmia di una parte del pubblico, gaudente nel fare la figura da satanasso dei poveri con uno squallido turpiloquio, che trova pronta risposta anche dal palco, tra l’altro. I Devian passano al setaccio il loro esordio, Ninewinged Serpent, senza aggiungere alcun estratto dei passati trascorsi black del proprio singer, scelta saggia data la diversità della musica proposta dai due gruppi.
L’affluenza sta cominciando ad essere degna, niente di trascendentale ma ci si comincia a sentire un po’ meno soli quando, ieratici e brutali allo stesso tempo, i Septic Flesh fanno il loro ingresso on-stage. Se gli Inactive Messiah vedevano le loro tentazioni avanguardistiche affogare in un certo pressapochismo esecutivo, qua la fusione tra i dettami imposti dal death più feroce, di scuola brutal americana soprattutto, e parti di tastiera dalle sonorità solenni e cerimoniali vanno ad avvilupparsi in un quadro apocalittico, di raggelante spietatezza e forza d’urto.
Non c’è un tastierista in formazione, il gruppo greco deve affidarsi a dei campionamenti, ma lo show non ne soffre: il bassista cantante Spiros Antoniou trascina dietro di sé un ensemble di killers dalla chirurgica precisione, con accelerate grind molto mobili a unire tra di loro soffocanti mid-tempo dove il singer sembra davvero invocare divinità ancestrali, affinchè scatenino le proprie forze maligne sul nostro povero suolo terrestre. Sarà il concept sottostante la musica, sarà l’approccio variegato e sfaccettato al death metal, comunque concepito nella sua forma più assassina, ma i Nile rieccheggiano come principale termine di paragone di questi Septic Flesh; non si temano tentativi di plagio però, da tanti anni costoro sono sulle scene a portare avanti un certo discorso musicale e mantengono un’identità ben distinta. In questo caso, infatti, maggior spazio viene dato alla componente rituale-esoterica, che rispetto agli americani è più centrale nell’economia generale del sound. Non che nel colpire duro si tirino indietro, tutt’altro, ma ci sono più momenti meditativi e più varietà tra i diversi pezzi. Il pubblico plaude convinto, da tanta veemenza non può che generarsi approvazione plebiscitaria da parte di chi mastica l’estremo, la brutalità abbinata a fantasia ed ecletticità non può che fare centro.
I Vader sono un monumento alla costanza e alla dedizione nel metallo, come formichine hanno costruito un loro fedele following e macinando chilometri in ogni dove hanno allargato a dismisura il numero delle persone venute in contatto con la loro musica. Hanno avuto i loro alti e bassi, hanno subito la dolorosa perdita di Doc, storico batterista del gruppo venuto a mancare per i soliti dannati problemi di droga, ma hanno continuato fieramente a fare quello che gli riesce meglio: suonare death metal. Alla luce della flagellazione auricolare infertaci stasera, non si può che augurarsi che certe bands campino cent’anni: un’ora di lezione la potremmo definire, una lezione pratica su come si possano fare cose semplici eppure fantastiche con brani brevi, concisi, sempre e saldamente nei binari del death più ossianico e rigoroso che si possa sentire in giro. Non si sconfina nel brutal, tanto meno nel melodico di scuola svedese, a tratti, questo sì, gli Slayer, padri putativi del 200% del metal estremo, compaiono con orgoglio. Ma è solo un segnale di quanta qualità abbiano le composizioni dei polacchi, che del gruppo di Araya sembrano un’incarnazione death: la stessa precisione, la stessa maniacale ricerca della velocità assassina, la stessa sensazione di overdose di intensità, quell’adrenalina che ti esplode sotto cute ad ogni riff. E poi quel sgraziato e stridente solismo, orchestrato con grande maestria da Peter, piccolo di statura ma grande nel dispensar note di dolore dal suo strumento. Il suo contraltare ritmico non sbaglia una mossa, l’imponente drummer sembra far esplodere i tamburi, il basso lo supporta senza pecche. I larghi spazi delle prime file esaltano i mosher più incalliti, pochi ma schizzati elementi bastano a creare baraonda per tutta l’esibizione, con un trio di sudamericani cicciosetti a farsi notare su tutti. Il resto dei presenti è tutto fuorchè composto, la creatura di Peter libera ogni istinto e lascia interdetti per la compattezza e la potenza messe in campo. Un rapido bis, sulle note di Raining Blood di quella nota entità sovrumana di Los Angeles e i beneamati polacchi ci lasciano, per un’altra tappa del loro viaggio a zonzo per il globo. Polish Death ‘til death!