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WACKEN OPEN AIR 2010 – primo giorno

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E’ stato un grande Wacken. Ce lo aspettavamo, e il festival più gigantesco d’Europa non ha deluso. Sarà diventato una macchina commerciale inarrestabile, che ti vende di tutto e di più col marchio della manifestazione, avrà accolto tra le sue braccia amorevoli gruppi che col metal c’entrano fino a un certo punto, si sarà anche affrancato dall’underground per puntare sui grandi headliner che accontentano un po’ tutti. Eppure la magia rimane, passano gli anni e la voglia di ritornare non ti abbandona mai, finita un’edizione pensi già alla successiva, in quei tre folli giorni vissuti a rotta di collo tra un palco e l’altro per vederti più roba possibile assapori emozioni e sensazioni che ti porti dietro tutto l’anno, il ritorno alla routine di tutti i giorni è più leggero quando ad accompagnarti c’è il ricordo di Wacken.
Passando alle note pratiche, si può dire che l’organizzazione non solo riesce a tenere a bada l’enorme mole di persone presente (negli ultimi anni contabilizzata sulle 75.000 unità), ma si nota addirittura un costante miglioramento nei servizi, che arrivano a soddisfare qualsiasi esigenza un metallaro possa avere nel corso della manifestazione: piccoli supermarket sparsi per il campeggio, bagni discretamente puliti e funzionanti, bancomat, non manca praticamente niente. Tralasciando i dettagli sul perché e il per come da queste parti le cose le sanno fare meglio che da noi, procediamo a un breve bestiario della fauna del festival. Della variopinta popolazione accorsa quest’anno, abbiamo estrapolato per voi una galleria di personaggi che ci hanno toccato il cuore e che andiamo ad elencare in ordine sparso per far comprendere a chi non è potuto esserci quanto la bizzaria del genere umano ami concentrarsi in questi luoghi e dare il meglio di sé.

GLI ANDATI

In questa categoria rientrano quelli un po’ alle cozze, non perfettamente in sé, in precarie condizioni fisiche e mentali, un po’ per l’eccessiva assunzione di alcolici, un po’ per limiti mentali propri. Quale che sia la motivazione, si parla di gente dall’andatura caracollante, occhio vacuo, confusa nel pensare e nell’agire. Il primo di questa categoria, in ordine rigorosamente cronologico, è il ragazzo francese che ci approccia durante il montaggio della tenda il giovedì: dopo avere attaccato bottone con dei vicini di tenda, si presenta ai nostri occhi e inizia a chiederci informazioni varie ed eventuali su chi siamo e cosa siamo venuti a fare. Asseriva di non aver dormito nelle ultime 24 ore e il risolino un po’ ebete stampato in volto, unito al passo incerto col quale si muoveva tra le tende, ci faceva propendere per una certa veridicità delle sue affermazioni. Lo lasciamo intanto che si incammina verso un altro accampamento, in stato confusionale. Ancora più oltre nel processo di deterioramento dell’io a favore della completa perdizione è il ragazzo con tappettino da bagno rosa legato al collo avvistato durante il concerto degli Evile. Iniziato lo show in condizioni penose, che lo obbligavano ad appoggiarsi al prossimo per stare in piedi, la sua situazione è precipitata a tal punto nel giro di pochi minuti che alcune anime pietose (o forse solo desiderose di toglierselo dalle palle) l’hanno sollevato di peso e spostato fuori dal tendone del W.E.T. Stage. Infine, merita una citazione il vichingo steso a terra, incapace di reagire a qualsiasi sollecitazione esterna, beccato dalle parti del passaggio alla zona backstage. Vestito come all’epoca delle prime invasioni dei barbari nordici, con tanto di treccine, dava l’idea che, pur essendo un indomito guerriero, stavolta stanchezza e alcool l’avessero trafitto. Vi giuro che era talmente immobile da parer morto.

I PAZZI

Due soltanto, ma prelibati. Il primo, abbastanza innocuo, è un uomo pelato con occhiali da primo della classe che è andato in giro tutto il festival con una chitarra gonfiabile a tracolla. Per tutte le esibizioni in cui l’abbiamo visto ha continuato a far finta di suonare il finto strumento, con una concentrazione da lasciare esterrefatti. Lui ci credeva che quello strumento fosse vero.
Il secondo, più animalesco, si è esibito in una serie di testate al terreno durante i Lock Up, dopo le quali si è accasciato esanime sul terreno. Da lì non si è mosso. Non so dirvi che fine abbia fatto…

GLI AGGRAZIATI

Sezione dedicata a chi si è distinto per una scelta di abiti abbastanza originale e, si spera, non in grado di fare tendenza. Il primo essere vivente di questa categoria è una ragazza dall’impegnativo vestito rosso a pois bianchi, una sorta di Pimpa al contrario, che cercava di farsi spazio tra la folla prima del concerto di Alice Cooper. Il primo pensiero quando l’ho vista è stato:”Ma dove te ne vai conciata così?”. A quanto pare lei si sentiva a suo agio. Più estremi, e notevolmente sexy per un Cristiano Malgioglio, due ragazzotti che scorrazzavano in tanga nello spazio antistante l’entrata in pieno, assolato, pomeriggio del venerdì. Anche per loro una nomination per l’abbigliamento più di buon gusto del festival. I migliori, però, sono i due tizi che hanno avuto il fegato di presentarsi in zona concerti vestiti uno da gorilla, l’altro da coniglio rosa. Entrambi, intrepidamente, si sono lanciati in arditi crowd-surfing, permettendo al pubblico di toccare il loro pregiato pellame.

LE LURIDE

Ora, questa potrà sembrare una definizione maschilista e parecchio becera. Sono vere tutte e due le obiezioni, anche se le signorine (o signore, chi lo può sapere) citate non sono certamente tra le più fini viste in giro. La prima della classe, da standing ovation in aula magna, è una tipa che si è fatta alzare durante Alice Cooper, vestita solo di una micro minigonna e di un minuscolo slip che, in un amen, si è rivelato agli occhi di chi la stava facendo passare nelle file più avanzate. Forse colta da un istinto di pudore, la sprovveduta cercava di rimettersi a posto la biancheria, mentre da sotto sguardi sbavanti cercavano di passare oltre codesta barriera. Se ci si mette a fare crowd-surfing arrangiati in un certo modo, poi non ci si lamenti…
Da cartellino rosso, invece, colei che con una buzza di tutto rispetto e senza alcun pedigree ha mostrato l’armamentario senatoriale durante i Motley Crue. Con tutta la fregna passata tra le mani a Tommy Lee e compagnia nella loro carriera, posso immaginare il disgusto a una vista tanto scadente. Di ben altro lignaggio la porcella (solo in tal modo la posso definire) con ridottissimo completo di pelle segnalatasi durante l’esibizione degli Orphaned Land. Il dettaglio che ce la fa tanto cara, oltre all’aria non proprio casta e pura e al valido aspetto esteriore, è la riga di sporco all’altezza del deretano, ravvisabile mentre la nostra eroina se ne stava in groppa a un amico. Delizioso dettaglio.

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True Metal Stage, 18 – 19.30

La prima giornata effettiva di festival (c’era stata un’appendice il mercoledì coi gruppi del concorso Metal Battle) vede andare in scena un filotto di leggende viventi. In meno di sei ore si susseguono gli show di Alice Cooper, Motley Crue e Iron Maiden. Una scorpacciata gigante che inizia con l’attacco di School’s Out allo scoccare delle sei pomeridiane.
Si parte male, perché la batteria copre tutto e il resto rimane praticamente inudibile per tutto il pezzo. Va tutto in ordine per l’inizio della seconda canzone e da qui in poi lo scenario si fa magnifico. Alice è decisamente in palla e sfodera tutto il suo essere istrione, interpretando magnificamente i personaggi del collaudato circo dell’assurdo che porta in giro da una vita. Il navigato rocker è uno e mille nello spazio di pochi minuti; già nei primi pezzi alcuni loschi figuri incappucciati lo imprigionano in una camicia di forza, da efferato criminale, mentre lui continua a cantare come se nulla fosse, un attimo dopo arriva Poison e, dopo una risposta calorosissima del pubblico per tutto il brano, viene colpito da un enorme siringone portato on-stage da una premurosa infermiera. Ancora più spettacolare il momento del ghigliottinamento di Alice, avvenuto in seguito al tentativo di agguato a una bionda inerme (che dovrebbe essere la figlia, se non erro). Il nostro subisce il taglio della testa e indi la sventola sprezzante a tutti i presenti.
Alice non si accontenta e va oltre: la dolce All The Women Bleed è intonata tenendo una bambola di pezza amorevolmente adagiata sulle ginocchia, scena in contrasto con l’uccisione della fanciulla (sempre la solita biondina) che gli causa un’altra pena capitale, stavolta l’impiccagione. Lo show va avanti a ritmi incalzanti, alcuni brani vengono proposti in medley, in un susseguirsi di pezzi quasi senza pause e il singer intento a dare in pasto all’audience uno spaccato esauriente della sua articolata discografia. Si passa dai (tanti) pezzi degli anni ’70 a quelli modernisti degli anni 2000 (vedasi Wicked Young Man da Brutal Planet) e lo sfoggio di abiti e situazioni, per fortuna, non cessa mai e vediamo rappresentati scenari grotteschi e pacchiani uno dietro l’altro. Per Vengeance Is Mine Alice arriva on-stage su un’alta scala sormontata da un palco, come un capopopolo rivoluzionario, in Elected si veste di tuba e abito argentato e si candida alle presidenziali, su Billion Dollar Babies elargisce con generosità finti dollaroni americani. La fantasia infinita e la forma vocale smagliante del musicista di Detroit possono essere fermate solo dal tempo, per cui dopo l’ora e mezza prevista si va a chiudere con un’altra School’s Out, stavolta immune da qualsivoglia problema. Chiusura festante, mentre dal palco palloni colorati vengono lanciati senza sosta sul pubblico, in un tripudio di suoni e colori che lo zio Cooper mostra di saper ancora donare con ineffabile facilità.

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Black Stage, 20 – 21.15

Il vizio come stella polare della propria esistenza, il rock quale mezzo di espressione della voglia di eccessi e depravazione. I padroni dell’hair metal si vanno a incastonare tra Alice Cooper e Iron Maiden, con la speranza che la voce di Vince Neil, una grande incognita dal vivo, non tradisca. Un’immagine apocalittica a fondo palco e la curiosa batteria di Tommy Lee, con cassa e tamburo gigante a ravvivare un drum-kit altrimenti piuttosto minimale, sono i due elementi che catalizzano gli sguardi negli istanti che precedono l’entrata in scena dei quattro rockers losangelini. Arrivano puntuali, niente manie da rockstar e si mettono sotto di buona lena, con qualche donnina a fare la sua apparizione ogni tanto e un moderato uso di fuochi e petardi. Effettivamente, Neil fa cantare molto il pubblico e i compari di band nei cori, riservandosi le parti vocali in misura tale da non andar mai eccessivamente in affanno. Il singer ha l’aspetto del vecchio porcellone, i chiletti di troppo lo rendono laido oltre ogni dire, al contrario Tommy Lee appare tiratissimo e scattante, mentre Mick Mars inquieta nella sua quasi totale immobilità e Nikki Sixx è un marcione tirato a lucido e scintillante.
Emanando più vizio di una casa d’appuntamenti e al netto dei limiti di Neil, la performance di stasera si rivela decisamente positiva, non fosse altro che per la mancanza di pause e di inutili appendici. L’attenzione è tutta sulla musica e la tensione non accenna a calare se arrivano in rapida sequenza Shout At The Devil, Ten Seconds To Love, la primordiale Live Wire. Il più discreto a livello scenografico, Mars, è quello più in mostra dal lato artistico, inanellando una serie di grandi assoli che marchiano indelebilmente le song, decisamente corazzate da una sezione ritmica che è la storia dell’hair metal. Tra i brani più recenti, Saints Of Los Angeles è quella che più attizza l’audience, comunque sempre carica a mille durante il concerto. Primal Scream, Motherfucker Of The Year e Dr. Feelgood sono solo alcune delle perle serviteci, prima del congedo affidato a Girls Girl Girl, in una pioggia di coriandoli che riassume la natura festaiola dello show dei Crue.

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True Metal Stage, 21.30 – 23.30

Secondo appuntamento in carriera per i Maiden a Wacken. Nel 2008 gli inglesi avevano concentrato i loro sforzi sul periodo Piece Of MindSomewhere In Time, questa sera si vanno a toccare i punti salienti degli ultimi tre dischi, da Brave New World a A Matter Of Life And Death. Il palco, a seguito di una meticolosa preparazione, assume le forme di un’astronave intergalattica, pare quella di Star Trek e ricorda i migliori allestimenti usati dai Maiden nei loro interminabili tour.
Sono le 21.30 precise quando irrompono le note di The Wicker Man e la tonnara formatasi sotto palco è finalmente libera di esplodere. Dickinson salta dappertutto come sempre, ma dovendo scaldare la voce ha qualche problema a tenere bene tutto il primo brano. Non c’è da preoccuparsi, però, perché Bruce è caricato a molla e già con la seguente Ghost Of Navigator si mostra intenso e potente come il pezzo richiede. Dal vivo, l’epico estratto di Brave New World acquisisce tutt’altro spessore e ha un fascino che su disco non sfiora nemmeno. Si passa quindi a una delle poche concessioni ai classici imprescindibili nelle scalette maideniane, Wrathchild, poi per lunghi tratti il concerto entra in una dimensione rarefatta e piena di pathos, di attese e di contenute esplosioni, che magari non incontrerà i favori di quella parte di fan che vuole solo cose dirette e veloci, ma ammalia tutti quelli che dalle loro band preferite desiderano essere stupiti e sentire live anche le canzoni meno acclamate. Al di là dell’anticipazione di The Final Frontier, rappresentata dalla rockeggiante El Dorado, lo show vive delle lunghe intro e dell’enfasi di Dance Of Death, These Colours Don’t Run, The Reincarnation Of Benjamin Breeg. Tra le più apprezzate Blood Brothers, song elaborata che per certi versi si stacca anche dalla produzione Maiden degli ultimi anni e dal vivo viene cantata con straordinaria partecipazione.
Entriamo nella fase finale con un altro pezzo di lunga durata, Brave New World, per poi concentrarsi su song più prevedibili, ma che emozionano come se fosse la prima volta che si ascoltano. Allora via a Fear Of The Dark e Iron Maiden seguite, dopo l’obbligatoria pausa, da The Number Of The Beast, Hallowed Be Thy Name e Running Free. Sulla prima fa la sua comparsa un enorme diavolaccio, secondo mostro a gettar scompiglio sullo stage, dopo l’alieno che aveva giganteggiato durante Iron Maiden, e fa specie pensare che l’intro recitato, a distanza di quasi trent’anni, abbia ancora la forza di evocare il maligno con tanta efficacia. Abbiamo ancora una Hallowed Be Thy Name, da brividi, quando invece Running Free non è altro che l’allegro sing-along che mette la parola fine a un’altra mirabile apparizione degli inglesi.
Passano gli anni, ma gli Iron Maiden non smettono di stupire e di regalare forti emozioni. Dickinson è stato strepitoso come al solito, dosando sapientemente le pause per recuperare fiato e usando queste ultime per arruffianarsi i fans in vista dell’uscita del nuovo disco. Gli altri sono stati impeccabili, ma non c’è di che rimanere sorpresi: a prescindere dalla qualità del nuovo materiale, rimangono dei mostri sacri inamovibili.