
True Metal Stage, 11.45 – 12.45
Che il romanticismo sia con voi, e con il vostro spirito. La mattinata di Wacken vede spesso muoversi calibri medio-grandi, così a un quarto a mezzodì è già il turno degli Amorphis. I finnici, con l’ingresso del singer Tomi Joutsen, hanno trovato una buona stabilità e gli ultimi dischi hanno portato discreti consensi, pur andando in una direzione lievemente differente da quella dei primi lavori.
Il fulcro della band è quel gran rastone di Joutsen, frontman dalle fattezze atipiche per un combo nordico e catalizzatore di tutti gli sguardi quando la band si porta on-stage. Baciati da un sound perfetto e potente, i cinque iniziano subito a macinare il loro death melodico e progressivo, ricco di chiaroscuri e difficilmente lineare. Gli strumentisti si tengono abbastanza controllati, appaiono molto rilassati e interagiscono bene a livello musicale, lasciando campo libero per quel che riguarda l’intrattenimento al singer. Anch’egli non è che si lasci andare chissà quanto, ma gli si richiede più che altro di entrare in simbiosi con la propria musica e di farsi trasportare da essa e in questo compito il ragazzo riesce benissimo. I suoi vocalizzi caldi, profondi, rapiscono l’audience, in gran parte composta da fans di lunga data che cantano a menadito i pezzi. Prevalgono i brani di impostazione recente, con i toni estremi abbastanza smussati e un cuore metal ancora molto forte, seppur tanto romantico. Gli Amorphis però non dimenticano il passato e piazzano qualche stoccata del periodo più death-oriented. I growl escono prorompenti dal microfono a forma di phon (richiamerà i vecchi vocoder, ma l’impressione è quella) e anche i più esigenti, quelli che vogliono sempre materiale vecchio, possono dirsi accontentati. Per gli Amorphis è una conferma del buono stato di salute recente.

Black Stage, 13.00 – 14.00
Gli arabeschi degli Orphaned Land irrompono su Wacken, forti di un altro disco ricco e mutiforme, The Never Ending Of ORwarriOR, che ha ampliato ulteriormente il numero dei fans del combo israelinano, una scommessa stravinta dalla Century Media già col precedente Mabool, l’album della consacrazione per i nostri. Punto interrogativo della loro performance è la possibilità che possano riprodurre le sonorità fitte di arrangiamenti e di cambi di atmosfera dei dischi, senza il supporto di ospiti e strumentazioni non metal utilizzate in studio. I dubbi vengono fugati immediatamente con i primi minuti di Birth Of The Three, un’esplosione di metal progressivo, etnico e onirico, proposta oggi con un uso minimo e ridotto all’osso di overdubs. I cinque musicisti privilegiano un approccio molto metal rispetto alle mille contaminazioni dell’album, ed è talmente forte lo scheletro metallico dei pezzi che la mancanza di elementi esterni non si fa minimamente avvertire. Il modo di rapportarsi al pubblico di questi ragazzi è splendido, fatto di sorrisi ed estrema solarità, una manifestazione di gioia per la propria musica che va a riflettersi positivamente su tutto quello che suonano. Il singer Kobi Fahri si presenta on-stage in tunica bianca, barba e capello lungo, così somigliante a Gesù Cristo da spingerlo a scherzarci su e a smentire, una volta per tutte, di non essere lui il Messia, ovviamente con tono bonario, per quanto qualcuno, avvolto nei fumi dell’alcool, avrebbe anche potuto crederci sul serio.
Facezie a parte, l’esibizione di Wacken è di quelle da ricordare: la complessità e la finezza degli album sono rispettare anche in sede live, la tentazione di snellire le composizioni non sfiora minimamente il gruppo, che d’altronde va via che è una meraviglia, grazie a prove dei singoli ineccepibili. Sugli scudi la chitarra solista di Yossi Sa’aron, un uragano di feeling, e il vocalist, istintivo quel che basta nel growl e magico in voce pulita, quando canta con trasporto e sicurezza lyrics in arabo, israeliano e inglese. La scaletta verte prevalentemente sugli ultimi due dischi, quelli che li hanno lanciati al grande pubblico, e sia The Never Ending Of ORwarriOR che Mabool sono rappresentati con quattro-cinque pezzi ciascuno. Qualche brano vede la comparsata di una danzatrice del ventre, non proprio invitante per l’occhio ma utile a ricreare l’ambientazione ottimale, mentre in Halo Dies si ha l’unica ospitata per un duetto in growl tra Fahri e un altro singer di cui, purtroppo, mi è sfuggito il nome. Dopo tante canzoni articolate, con incastri di riff e tinte sonore pressoché infiniti, gli Orphaned Land ci lasciano con la diretta Norra El Norra, sulla quale Wacken salta festosa fino ai saluti conclusivi. Gli israeliani sono oramai una realtà imprescindibile del panorama metallico odierno, il concerto di oggi lo urla a squarciagola.

Party Stage, 15.30 – 16.30
E’ il Voivod, bellezza. Quell’unico essere misterioso vagante nello spazio silenzioso, solo e afflitto, ha illuminato il metal con dissonanze scriteriate, schitarrate impazzite, deliri psichedelici, canzoni memorabili. Non è mai passato all’incasso, ha vissuto da troppo bravo per troppo pochi, ma ha resistito. Fieramente. Dignitosamente.
Da qualche anno manca Piggy, il membro fondamentale con il suo stile chitarristico inclassificabile e non copiabile, la storia del gruppo sembrava finita, e invece, con l’entrata in formazione del bravo Daniel Mongrain, con esperienze in bei nomi del techno-death canadese, il viaggio continua. Wacken ne è una tappa fondamentale, e anche se sul Party Stage, in orario pomeridiano, i Voivod certificano la loro presenza in maniera forte, urlando al mondo “We Carry On”. L’entrata in scena è abbastanza sommessa, non c’è uno sfondo, la batteria di Away è ridotta all’osso, come se avessero dovuta portarla in un furgone e non ci stesse tutta. I quattro arrivano, Snake guarda la folla (numerosa) con sguardo pacioso, tutti sorridono con un fare più vicino a una festa tra amici che al più grande festival metal d’Europa. D’altronde sono i Voivod, che ci volete fare, ed essendo tali piazzano una stangata old-school subito in apertura, ed è proprio il loro inno omonimo, da War And Pain. Boato, più si suona roba vecchia più il metallaro medio dà fuori, e a rincarare la dose ci pensano poco dopo con un brano da Rrrroarrr, il loro disco più ignorante. Il piglio è quello giusto, la voce di Snake è tremebonda quel tanto che basta e non passa la soglia del passo incerto e zoppicante, il rientrante Blacky sta alla grande e il buon Away percuote con patterns fluidi e storti quei tre tamburi che ha davanti. Esce distinto il cuore rock’n’roll sporco e sudicio della band, rivolto di canzone in canzone al thrash primitivo, al rock urlato dell’ultimo periodo, alla follia della seconda metà anni ’80. Tribal Convictions ed Experiment (annunciata da Snake come “una song così tecnica che vi lascerà ubriachi tutto il giorno) volteggiano nell’iperspazio, passando da momenti quasi normali ad altri di puro delirio, mentre Nuclear War e Global Warning, unico estratto dall’ultimo Infini, guardano ai bassi istinti dei metallers davanti al palco. Mongrain è un validissimo sostituto di Piggy e non sfigura nel confronto, lasciando pressoché intatti i raffinati tocchi di plettro del compianto musicista francofono.
La pietra miliare Nothingface viene omaggiata nel suo pezzo più diretto, The Unknown Knows, e nella cover dei Pink Floyd Astronomy Domine, sommersa dagli applausi fin dalla dedica allo sfortunato chitarrista, posta al termine di un’esibizione di altissima intensità emozionale. Avanti ragazzi, il mondo ha ancora bisogno di voi, qualcuno da lassù vi sospingerà lontano per molti anni ancora.

W.E.T. Stage, 18.25 – 18.55
Gli Evile rispondono a quel filone thrash fedele alle origini, e suonato da giovanissimi, che sta entusiasmando frotte di sbarbati in tutto il mondo, ragazzi che ovviamente non potevano esserci quando la Bay Area ha cominciato a esplodere di creatività, la Ruhr a rigurgitare violenza in musica, oltre che acciaio e carbone, e tutti gli altri paesi occidentali a ruota tiravano fuori genietti del nascente movimento thrash. La personalità non è il punto di forza di questi act, lo è piuttosto la convinzione estrema con cui affrontano i palchi importanti e riescono a portare dalla loro anche i più sospettosi (alzo la mano). Così, quando i quattro arrivano on-stage, puoi sentirli ringhiare da quanto sono incattiviti e desiderosi di scaldare le chiappe in quella mezz’oretta a loro disposizione. L’aria è calda, il terreno ridotto a sterrato, appena partono i mosh pit e i circle pit l’ambiente si fa irrespirabile, tanta è la polvere che si solleva e infiamma occhi, gole e narici. Qualcuno prova a proteggersi con fazzoletti sulla faccia, altri indietreggiano, le figure dei musicisti si vedono appena nella nuvolaglia che si solleva dal suolo. In mezzo a questo caos, gli inglesi inanellano una serie di song abbondantemente debitrici di Slayer ed Exodus, con qualche percettibile rimando death. Ci sono molti mid-tempo nella loro proposta, frustata ulteriormente dalle vocals al vetriolo di Matt Drake, frontman dalla buona presenza scenica e impegnato anche alla chitarra. L’headbanging incessante e gli incitamenti profusi riempiono di animalismo le prime file, motivandole a soffocarsi beate nel putiferio confuso dalle parti dello stage. In questa edizione del festival abbiamo visto tante band più talentuose di loro, ma la tenuta del palcoscenico e la mancanza di cadute di tono ce li fanno lo stesso tenere in considerazione e apprezzare più di quanto potrebbero fare, probabilmente, i loro dischi. Scalpo conquistato anche per i giovani thrashers d’oltremanica.

W.E.T. Stage, 19.20 – 19.55
I Lizzy Borden non godono, purtroppo, di una collocazione all’altezza. Avrebbero meritato almeno il Party, ed ad un’ora ben più tarda, sul Wet sono sacrificati e hanno a disposizione trentacinque miseri minuti. Gli americani amano contornare i loro concerti con trovate sceniche di vario tipo, un po’ come Alice Cooper, e un minutaggio più consistente avrebbe ulteriormente giovato a questa loro propensione.
Un minimo di scenografia è presente, infatti vi sono due pannelli col nome del gruppo posizionati ai lati del palco, allo scoccare dell’ora di inizio show una voce fuori campo annuncia, con tono da imbonitore americano, l’entrata in scena della band. Si presentano tutti, meno che Lizzy, e quando lo fa, un fremito corre lungo la schiena di tutti quanti. Vestito da morte, a volto coperto, a braccetto di due lascive ballerine, il singer arriva e scuote il pubblico con l’attacco vocale alto e pulitissimo di Tomorrow Never Comes. La fedeltà all’incisione in studio è totale, lascia allibiti e scatena un putiferio. I cinque sprizzano energia e le due ballerine rendono il tutto molto boccaccesco, considerato che entrambe non hanno esattamente l’aria delle brave ragazze.
Lizzy regala cambi d’abito a profusione, esce e rientra con indosso maschere e mantelli d’ogni sorta. Per l’esecuzione di Me Against The World, da Visual Lies, arriva on-stage con una mazza da baseball, fatta pericolosamente roteare sulla testa degli altri musicisti, che si abbassano a tempo per evitare le mazzate dell’indiavolato singer. Prima di There Will Be Blood Tonight, mette in scena una truculenta scena di vampirismo, aggredendo la ballerina bionda, che viene lasciata tette al vento, e poi azzannandola di gusto. Fiotti di sangue vanno un po’ dappertutto, dopo di che, senza manco pulirsi la bocca, ma mostrandola tutta imbrattata al pubblico, il singer si dona alle prime file e inizia a cantare. Lo show gira molto velocemente per comprimere in pochi minuti quello che di solito viene fatto con tempistiche da headliner e in men che non si dica arriva il super anthem American Metal. Lizzy lo canta con la bandiera americana indosso e le due girl che gli sculettano vicino facendo ancora più le maiale di prima: momento topico quando la biondina va sotto le stelle e strisce e fa finta di armeggiare con l’arnese del cantante. Mirabile.
Siamo ormai quasi alla fine, sotto un Wet Stage in estasi totale: arriva un’altra song americanissima, We Got The Power, dal patinato Master Of Disguise, e infine la cover dei Rainbow, Long Live Rock’n’Roll, dedicata di cuore al buon Ronnie James Dio, citato più e più volte in questi tre giorni. La cura Lizzy Borden è un ottimo tonico anche quando si applica a pezzi altrui e l’apoteosi conclusiva mette di diritto questa esibizione tra le migliori di tutto il festival. La vecchia ascia è ancora affilata.

Black Stage, 20.30 – 21.30
Gli Arch Enemy sono un ensemble da giovanissimi. La formazione dei fratelli Amott, da quanto ha nella line-up la bella Angela Gossow (e fermiamoci qua…) ha portato il proprio sound in una direzione che, pur non avendo tradito il death e non essendo caduta nella rete della commercialità, ha spostato i tratti distintivi della band dal death melodico ricercato e progressivo delle prime opere, a una miscela di estremismo e metal classico molto diretta e con parecchi brani anthemici e di facile fruizione. Ecco allora che dalle parti del Black Stage la calca è di quelle grosse e vede la meglio gioventù darsi battaglia nella zona antistante il palco. Ricordo un’esibizione del combo al Wacken 2004, quella volta non mi avevano impressionato come resa live, stavolta le cose vanno diversamente: la Gossow canta con raggelante brutalità e non si concede tentennamenti, arringando la folla sbavando rabbia e tamarraggine da tutti i pori, della parte strumentale si occupa in primis Michael Amott, che riesce sempre a far valere quel suo chitarrismo carcassiano/maideniano, capace di collocarlo parecchi gradini sopra la massa dei chitarristi di abile polpastrello. Dal repertorio del periodo con John Liiva alla voce arriva giusto una traccia del primo disco, la parte preponderante della tracklist odierna verte invece sui brani più catchy degli ultimi lavori, così da far alzare un unico grido dai fans durante i chorus. Quelli a risposta più esaltata sono We Will Rise e Nemesis, con un refrain da muscolo gonfio e faccia truce che manco gli Hatebreed. Fa personalmente piacere risentire Ravenous, song di Wages Of Sin, bell’esempio di potenziale singolo death metal, speziato da melodie maideniane. Show chiassoso e ben suonato, gli Arch Enemy oggi non demeritano.

True Metal Stage, 21.45 – 23.00
I Grave Digger varano l’operazione rilancio. Per dare uno scossone alla propria carriera e riaccendere su di essa i riflettori di stampa specializzata e fans meno attenti, i power metallers teutonici mettono di nuovo mano alle gesta di William Wallace e di tutti coloro che lottarono per l’indipendenza della Scozia contro la tirannia inglese alla fine del 1200. A Wacken, tradizionale terra di conquista del combo, la squadra di becchini di Chris Boltendahl, va in scena Tunes Of War nella sua interezza, uno show unico che viene vissuto con trepidazione già nei minuti appena precedenti il concerto.
Uno stuolo di suonatori di cornamusa fa la sua comparsa per proporre l’intro The Brave, dopo di che il gruppo al gran completo si posiziona sul palco, accompagnato ai cori dai Van Canto. Boltendahl, in gonnellino scozzese, non sta più nella pelle e annuncia l’inizio delle ostilità quando irrompono le prime note di Scotland United.
L’esibizione è a dir poco spumeggiante: un evento così speciale ringiovanisce di vent’anni una band e la voce al vetriolo del cantante tuona meglio del solito, mentre alla chitarra il protagonista indiscusso è il nuovo entrato Axel “Ironfinger” Ritt, puntuale e preciso negli assoli come nelle ritmiche. Per i possenti cori che caratterizzano tutte le song del capolavoro del ’96 ci pensano i coristi sul palco, ma soprattutto i fans che stanno sotto, per un effetto complessivo da brividi. I musicisti sono tutti scatenati e vivono questa serata come fosse l’ultima della loro carriera, dando l’anima su ogni nota e instaurando un feeling pazzesco con l’audience. Una serata del genere prevede anche la partecipazione di qualche ospite: in The Ballad Of Mary (Queen Of Scots) duetta con Chris l’immancabile Doro Pesch, che tra un’ospitata e l’altra in questo Wacken sale sul palco ben quattro volte (oltre ai Grave Digger, si fa vedere per il Metal Hammer Award, per gli Skyline e assieme agli Edguy). La suggestione per l’unica ballata dell’album è tanta, ma l’apice si tocca con Rebellion (The Clans Are Marching), cantata insieme ad Hansi Kursch. Il leggendario chorus scuote le tonsilla fin alle massime doti di resistenza di ognuno, tra evocative cornamuse e orgoglio trasudante da ogni verso del pezzo.
C’è ancora il tempo per Culloden Muir poi, saltata l’outro, arrivano tre straclassici della band: The Battle Of Bannockburn, Excalibur e l’ovvia conclusione sulle ali di Heavy Metal Breakdown. Concerti del genere rilanciano l’immagine di un act più di qualsiasi altra cosa.

Black Stage, 23.15 – 00.30
Folla stipata modello scatola di sardine, occhi iniettati di sangue, facce tese da psicopatico pronto ad uccidere. E’ l’effetto Slayer. Puoi averli visti 200 volte, ma l’emozione di ritrovarseli davanti è sempre quella e la si contiene a stento. Gli ultimi mesi sono stati travagliati per i quattro assassini, la schiena di Araya ha fatto slittare in avanti molte date previste per l’inverno scorso all’inizio di quest’estate e anche per i festival incrociare le dita è stato un atto di lungimiranza e non di mera superstizione. Indi per cui, passata anche l’indigestione di Kerry King qualche giorno prima, con conseguente ricovero ospedaliero e data annullata, gli Slayer giungono all’appuntamento tedesco senza ulteriori casini.
Il buon Tom non può darsi all’headbanging, pena il devasto totale delle vertebre, la voce invece sta benissimo e attacca come si conviene l’opener World Tainted Blood, appena dopo la quale viene piazzata Hate Worldwide. Quando parte War Ensemble, la speranza è che possano suonare tutto Seasons In The Abyss, come accaduto di recente nelle date italiane all’Alcatraz di Milano. Non va così, ma dal disco del ’90 giungono comunque cinque pezzi, che fanno la parte del leone nella scaletta di stasera. Il gruppo, apparso in forma smagliante in ogni elemento, inanella una Expendable Youth di solito poco presente nei live e quindi terrorizza la platea con l’annuncio di Dead Skin Mask da parte di Araya, avvenuto scandendo con ghigno ferale il refrain. L’ultimo brano che arriva da stasera da World Painted Blood è Human Strain, segue una serie di colpi da ko, di straordinaria veemenza anche per chi è avvezzo alle bordate dei nostri. In ordine sparso, a separarle solo flebili secondi vissuti col fiato sospeso, abbiamo una Hell Awaits di macabra intensità e sull’orlo del collasso, la solita inarrestabile Chemical Warfare, la pioggia di sangue di Raining Blood. Le chicche prelibate sono però l’esecuzione integrale di Seasons In The Abyss, con tanto di algido arpeggio iniziale e quella di Aggressive Perfector, riportata in vita dopo un’eternità.
A completare l’opera ci pensano Spirit In Black e Mandatory Suicide, eseguite senza sbavature di sorta, prima del prevedibile epitaffio, arrivato senza preventiva uscita di scena, costituito da South Of Heaven e Angel Of Death. Ebbene, a parte l’urlo iniziale di questo pezzo, che tra l’altro già da qualche tempo non si azzarda ad affrontare, Araya non ha perso una parola, segnalando una forma vocale tra le migliori udite nei tanti concerti degli Slayer vissuti nell’ultimo decennio. E pensare che qualcuno li dà per bolliti da una vita… Ahhh beh…

True Metal Stage, 00.45 – 01.45
E’ quasi l’una, il ciclone Slayer ha travolto tutti e buona parte di coloro che hanno visto i californiani all’opera si disperde fuori dall’area concerti. Si perdono una chicca. Sta per arrivare il carico di simpatia e di metallone vecchia, vecchissima scuola, degli Anvil. Visti al Gods Of Metal, hanno dato l’impressione di essere in discrete condizioni ma senza guizzi, una band da guardare con curiosità e divertimento ma che non lascia un segno profondo a chi già non li conosce. Ora lo possiamo dire: era solo una questione di condizione ambientale. Dal torrido pomeriggio di Collegno, su un palchetto da festa di paese e con gli spettatori stretti su un’aia da pollame, al True Metal Stage di Wacken in orario notturno, il passo è quello del Gatto con gli Stivali, e per chi è rimasto arriva un concerto di spessore.
La scaletta è pressoché quella del Gods, con un paio di inserti dovuti al quarto d’ora in più a disposizione, la prestazione assume invece tutt’altro peso specifico. Il saluto di Lips arriva con un urlaccio tra le corde della chitarra, e i pick-up rimandano la sua voce distorta in un crepitio metallico. Molti i mid-tempo ritmati nella proposta del trio del paese dalla foglia d’acero, ecco quindi Forged In Fire, dall’omonimo terzo disco, Toe Jam, e un estratto dall’ultima fatica, This Is Thirteen. Tra i brani old-school, sono sempre da sentire Mothra e School Love, addirittura dall’esordio Hard’n’Heavy. Lips, personaggio tra i più scherzosi su di un palcoscenico, tira fuori il consueto numero del vibratore usato come plettro. Potrete rivederlo pure cento volte, ma rimarrà comunque spassoso come la priva volta, basti guardare le smorfie di quella sagoma di Lips. Trova spazio per un breve assolo il batterista Robb Reiner “Robbo”, l’elemento più tecnico della formazione, prima che sull’incudine batta l’ultimo colpo di martello, ovvero Metal On Metal. Questa la conoscono proprio tutti, gli Anvil si beccano i cori di un’audience prostrata ma ancora capace di tirar fuori la voce e salutano com’erano entrati, in un oceano di sorrisi.

Party Stage, 02.00 – 03.00
Era da un po’ che non si vedeva in giro la creatura di Alex Krull, ultimamente più intento a dare una mano alle attività musicali della moglie Liv Kristine che a metter mano alla sua creatura prediletta. Lo stage è approntato in maniera adeguata: nome del gruppo composto con grossi fari rossi, da drive-in anni ’80, e gabbie in metallo ai quattro angoli del palco, tipo quelle usate dalle spogliarelliste nei locali di loro competenza. Rispetto ad altri anni alla stessa ora, il freddo è insopportabile, complice un’umidità fastidiosa che non lascia scampo. Il concerto comincia con chitarre troppo basse e la voce quasi inudibile, problemi ovviati solo in parte nel corso dell’esibizione. Alex decide di aggredire con un brano molto death, scevro delle sonorità elettroniche pompate, molto dance anni ’80, che ne avevano contraddistinto le ultime prove. L’impressione che intenda concentrarsi sul materiale più datato svanisce presto, e progressivamente la band sposta il tiro su sonorità sì estreme, ma decisamente contaminate da bassi tamarri da dancefloor. La miscela esce leggermente infiacchita dalle casse, a causa di suoni non abbastanza aggressivi, tutto sommato però il fascino di questo strano sincretismo tra death ed elettronica bombastica non dispiace. Krull lascia ogni tanto spazio a qualche vocalizzo baritonale, per quanto prevalga nella maggior parte delle linee vocali il growl, e per i brani meno irruenti compare on-stage anche Liv Kristine, impeccabile come sempre con la sua voce lirica. Le gabbie di metallo finiscono, effettivamente, per ospitare provocanti signorine in abiti succinti, un dettaglio di contorno apprezzato e, al di là dell’interesse figaiolo dei maschietti, perfettamente a tema con la proposta degli Atrocity. Le contaminazioni con il pop di marca eighties sfociano in Shout, cover dei Tears For Fears, risuonata in modo molto aderente all’originale. Un plauso alle ingabbiate per aver resistito intrepidamente al freddo notturno, nonostante fossero vestite con poco più di un paio di presine da cucina di pelle.