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WACKEN OPEN AIR 2010 – terzo giorno

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Black Stage, 14.30 – 15.30

Piombano i vichingi a creare scompiglio nel caldo pomeriggio di Wacken. E’ il momento di apprezzare una death metal band dalla forte coerenza e dalla fede incrollabile in quello che propone, gli Unleashed. Il quartetto di Johnny Hedlund si presenta a questo appuntamento forte di un ottimo album, As Yggdrasil Trembles, e sul Black Stage dà prova di avere tutt’ora la tempra dei death metallers più intransigenti.
Il motorheadiano sfondo di Hammer Battalion campeggia sullo sfondo, minaccioso e assetato di sangue: i quattro fanno la loro comparsa in maniera compassata, il sempre più voluminoso Hedlund saluta alzando al cielo la birra che ha in mano e si accomoda dietro al microfono col suo basso a tracolla. Fine dei convenevoli e inizio di una sana lezione di death svedese. La compattezza è un attributo che non manca di certo agli svedesi, che danno sfoggio di doti di assaltatori immutate rispetto alle prove in studio e forse anche un pelo più ferine quando si sfogano live. La voce di Hedlund sfuma spesso e volentieri in urlo di guerra piuttosto che nel growl, tenendo comunque botta con onore, mentre a far la parte del leone ci pensa il chitarrista Fredrik Folkare, autore di alcuni degli assoli più belli uditi in tutto il festival. Il suo stile debordante esula dal rustico metallo nordico del combo, nonostante ciò si integra alla perfezione con le strutture portanti dei brani e dà loro un tocco scintillante. I brillanti interventi dell’axeman sono un valore aggiunto sia per i pezzi più remoti, che per quelli dell’ultimo periodo. Molti i ripescaggi dalla prima fase di vita della band, tra i quali segnaliamo Shadows In The Deep e una Into Glory Ride dedicata a Dio e a Peter Steele, per la prima e unica volta ricordato durante Wacken, ed è una gran nota di merito per gli Unleashed. Volendo anche mettersi nella parte degli educatori, i nostri ci insegnano come è meglio comportarsi nei confronti dell’infanzia; ecco allora Your Children Will Burn, che fa il paio a un’altra gemma di impegno sociale, con doveroso richiamo ai Cannibal Corpse, Legalize Rape. E poi dicono che nel death metal si parla solo di clichè da film dell’orrore!
Ruffianamente, gli Unleashed sparano anche un brano dal titolo in tedesco, Wir Kapitulieren Niemals, dall’ultimo full-lenght, e due inni bellici, Hammer Battalion e la scontata, ma tremendamente accattivante e cantata all’unisono dagli astanti, Death Metal Victory. Emblema di uno stile di vita in auge per l’eternità.

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True Metal Stage, 15.45 – 16.45

Profumo di polvere da sparo nell’aria. I proiettili che volano sono quelli degli Overkill, lasciati sibilare privi di silenziatore da una delle band più esplosive in circolazione. L’act di Bobby “Blitz” Ellsworth non ha mai mollato, figurarsi ora che il thrash è di nuovo di moda. L’orario, metà pomeriggio, in questi casi non conta e il colpo d’occhio dal True Metal Stage non credo fosse poi tanto male per i newyorkesi. Bobby è tiratissimo e scattante come sempre e la sua ugola acuta e stridula si abbatte dirompente su Wacken, subissato di colpi thrash violentissimi e veloci, sorretti in primis dalle mai scontate linee di basso di D.D. Verni.
La band è in formissima, sta vivendo una fase artistica molto brillante e si vede, gli Overkill live sono lo specchio fedele di una formazione allo zenit, incurante dello scorrere del tempo. La set-list odierna è costituita da solidi pilastri piantati nella produzione degli anni ’80, per quanto il gruppo abbia prodotto una corposa discografica anche negli anni successivi, nei concerti si affida al materiale più datato e più noto. Per cui, dopo una splendida Ironbound dall’ultima release, si passa direttamente alle tracce di Taking Over, rappresentato dalla corale In Union We Stand e da Wrecking Crew, e di Feel The Fire, ricordato ai presenti con Rotten To The Core e Hammerhead. Fa strano vedere ogni tanto Ellsworth rifugiarsi dietro gli ampli, vederlo piegato in due nelle retrovie e quindi scattare al microfono, come se stesse stringendo i denti per andare avanti nonostante qualche tipo di malessere lo attanagli. Se così è, il singer maschera bene, perché quando si ripresenta in postazione brandisce l’asta con la consueta energia e urla indiavolato senza accusare alcun calo di voce. Il circle-pit nel mezzo si trasforma in un larghissimo girone di invasati, per la gioia di tutti gli scavezzacollo presenti e in divieto alle norme di quest’anno, che in teoria proibirebbero circle-pit, mosh-pit e wall of death.
La tiratissima ora in compagnia degli Overkill si va a concludere con il mirabile nichilismo di Elimination, la ribellione sboccata di Fuck You e la song che tutto ciò ha scatenato, Overkill dei Motorhead, in versione lievemente accorciata rispetto a quella della band di Lemmy. Chapeau tutta la vita di fronte a perfomance del genere.

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Black Stage, 17.00 – 18.00

Sono una all-star band del grind, hanno visto passare sotto le proprie fila molti dei nomi di punta di questo genere e hanno già assaggiato il palco di Wacken qualche anno addietro. Stiamo parlando dei Lock Up di Tompa Lindberg, Shane Embury e Nick Barker, in passato frequentati anche da Peter Tagtren e dal compianto Jesse Pintado. Più che la grandezza dei dischi qua attirano i nomi prestigiosi dei musicisti, che insieme vanno a costituire una macchina da distruzione oltremodo intransigente.
Per essere su di un palco principale, i quattro raccolgono una miseria di spettatori. L’estremismo senza via d’uscita del combo non va di sicuro incontro ai gusti delle masse, difatti cambia anche la composizione dell’audience, che si riempie di sudamericani in una proporzione clamorosa rispetto al resto dei presenti. Quella che a Wacken è di consueto un’agguerrita minoranza in questo caso diventa la forza predominante, che anima il mosh-pit a spazi larghi creatosi dopo pochi pezzi.
Il minimalismo trionfa e gongola e a officiarlo sono alcuni tra i suoi vescovi più autorevoli: Tompa è il cantante estremo più caratterizzante della storia, la sua impronta sui brani non si discute, e la stessa cosa si può dire per Embury. Se la chitarra ha il compito di assecondare e segare tutte le note che incontra, il drumming di Barker è ben più che una serie di botte ben assestate al drum-kit. Sfidato da Lindberg a tenere velocità da tachicardia spinta, il massiccio drummer risponde senza fiatare e piantando rullate pianta chiodi sempre più esagerate di canzone in canzone. Parbleau, canzoni, sono frammenti impazziti, brevi e infuocati, che abbeverano di isteria aficionados competenti e fedeli.
Lindberg, serafico, presenta i brani con humour inglese, annunciando “questo è un pezzo veloce”, “un’altra canzone veloce, in effetti ne abbiamo molte nel nostro repertorio”, come se ogni tanto i Lock Up suonassero doom… Nella lunga scaletta di oggi (fate due conti, un’ora a disposizione con tracce da tre minuti a dir tanto) arriva per Lindberg il momento delle dediche, fatto ricorrente nel Wacken 2010, e per questi grinders il ricordo non poteva che andare al bassista Jesse Pintado, morto nel 2006 per i problemi di salute occorsi per i troppi vizi che lo attanagliavano. Ben due memoriali per lui, accolti con buona dose di fanatismo dai fans. L’esibizione si chiude in leggero anticipo, ancora un po’ avevano finito i brani della discografia…

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True Metal Stage, 18.15 – 19.15

Per gli W.A.S.P. l’esibizione di oggi è carica di incognite, legate alle condizioni vocali e di umore del leader maximo Blackie Lawless, ultimamente abbastanza fuori fase in alcune dichiarazioni. La sua apparizione in maglia da hockey, senza lo storico microfono a forma di motocicletta, non è foriera di buoni presagi: gonfio come un pallone, il cantante/chitarrista dei Pervertiti Sessuali non fa una gran impressione, la sua voce denota le stesse difficoltà palesate nelle esibizioni degli ultimi anni. Saggiamente, però, queste non assumono proporzioni catastrofiche perché Blackie, capito il declino delle sue corde vocali, ha deciso di farsi aiutare maggiormente da Mike Duda e Doug Blair nelle parti cantate: entrambi vi partecipano non solo nei cori, ma anche in quei frangenti dove prima era il solo Lawless a occuparsi della voce. Così, grazie anche a pubblico decisamente attivo, il concerto decolla immediatamente, fin dal medley iniziale On Your KneesThe Real Me. L.O.V.E. Machine non può mancare in uno show dei nostri, Blackie guarda soddisfatto i giovanotti che lo accompagnano sul palco e quelli che lo guardano da sotto, emanando grande carisma anche ora che è un po’ più limitato nelle trovate sceniche e non riesce a intonare i pezzi come un tempo. L’unico estratto di giornata dall’ultimo disco è Babylon’s Burning, ben accolta dai fans, che vanno ben oltre il semplice apprezzamento quando risuonano le note inconfondibili di Wild Child. Nelle prime file, ma anche più indietro, l’atmosfera è elettrica e tutto va a gonfie vele, in scioltezza e prepotenza. Dopo un altro medley affidato alla rodata coppia HellionI Don’t Need No Doctor, ecco uno degli apici non solo di questa esibizione, ma dell’intero festival. Intro di motosega (solo registrato, purtroppo) e via alla galoppata di Chainsaw Charlie (Murders In The Rue Morgue). Da calda che era, l’aria si fa rovente, le temperature salgono ancora quando ci si rende conto che la canzone non fa parte di un altro medley, ma viene suonata nella sua interezza. Ad ogni ripartenza di batteria è un’ovazione, che accompagna il gruppo in quasi dieci minuti di rock maestoso e drammatico. Non è finita qui, perché poi è il turno di The Idol, anch’essa rappresentata in tutto il suo splendore dall’inizio alla fine. Grande prova di Blackie in questo caso, prima dell’obbligatoria chiusura di I Wanna Be Somebody, prolungata ben più della sua naturale durata per far cantare fino allo sfinimento tutto il pubblico. Per gli W.A.S.P. stavolta è andato tutto bene.

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Wackinger Stage, 20.00 – 21.00

Il gigantismo wackeniano ha fatto sì che, sin dall’anno scorso, oltre all’area concerti propriamente detta ci fosse anche un’ulteriore quinto palco, situato nel villaggio medievale, o Wackinger Village per dirla col suo nome proprio, sul quale far esibire gruppi con aspetti folcloristici molto marcati nel loro sound. Così capita che mentre sul Black Stage è in onda l’estirpazione di viscere dei Cannibal Corpse, un nutrito stuolo di persone si raduni attorno al piccolo Wackinger Stage per l’icona delle Far Oer, i Tyr. Nel 2007 il W.E.T. stava collassando sotto i colpi dei quattro epic metallers delle sperdute isolette tra Islanda e Regno Unito, oggi il quadro è sostanzialmente immutato, solo che siamo all’aperto e i rischi di congestionamento sono minori. Bardati come guerrieri di epoche remote, i quattro gettano l’audience in atmosfere sospese e lontane, attraverso song elaborate e progressive quando affrontano il primo materiale prodotto, e canzoni dirette, power oriented, nel caso dei brani più recenti. L’opener By The Light Of The Northern Star è effettivamente molto più lineare di una Ramund Hin Unge, ma non c’è timore che renda di meno, si sta solo parlando di due aspetti differenti del sound del quartetto. La prova vocale rasenta la perfezione, pur dovendo interagire più volte tra di loro i due chitarristi e il bassista non hanno mai problemi a intersecare le proprie voci in un unico coro, pulito e morbido. Tocchi folk e tempi dispari, epos e lingue ataviche, i Tyr srotolano pezzi affascinanti, progressivi come è dura sentire in ambito epic. Siano in inglese, faroese o chissà quale altro idioma, il pubblico si butta a cantare i refrain, meglio ancora se sono di facile presa come è il caso di Hail To The Hammer e del motivo folk irlandese Wild Rover. La risposta dell’audience è fragorosa per tutta l’esibizione e consegna alla band una grande prova di affetto, ancor più considerevole dato chi stava suonando in contemporanea.
Meritano una citazione, tra i tanti che hanno tentato il crowd surfing, il tipo con la bandiera della Roma (Totti ringrazia) e colui che, vestito col kilt, ha regalato la terribile visione dei propri genitali al vento, causa la propria noncuranza e sprezzo per gli indumenti intimi. Spero che gli sventurati che l’hanno sollevato si siano potuti lavare le mani con una buona dose di acqua benedetta.

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Black Stage, 22.00 – 23.00

E’ ora che il Black Stage si tinga realmente di nero. Il Black Metal con la doverosa maiuscola iniziale cala su Wacken per una delle esibizioni più attese di questa edizione. Il gruppo che più di ogni altro rappresenta il gelo nordico si ripresenta al festival tedesco dopo la trionfale performance del 2007, da cui è stato tratto un dvd in uscita proprio in concomitanza del Wacken 2010. In questi tre anni ci sono stati pochi concerti per il combo di Abbath e il centellinare le uscite ha portato a un’attesa spasmodica per questo ritorno sulle scene. Non è ancora stato annunciato nessun nuovo album per i norvegesi, il concerto va quindi a ripercorrere le tappe chiave della carriera dei nostri senza aggiungere nessun nuovo brano a quelli già noti.
L’avvento on-stage del terzetto è carico di pathos, le luci fredde che inondano il palco sono un perfetto accompagnamento per l’entrata di Abbath, Horgh e Apollyon. Il primo a farsi vedere è il batterista, che si annuncia con un paio di rullate, apripista all’apparizione degli altri due. Nel 2007 erano spavaldamente comparsi a petto nudo, oggi i tre si presentano molto old-school con giubbini di pelle e borchie a profusione. L’attacco è ferale e stende uno strato di brina sui pascoli di Wacken: l’aderenza al concept nordico nella musica di Abbath e soci è pienamente rispettata, grazie a suoni azzeccatissimi e una perfetta simbiosi del terzetto sotto il profilo esecutivo. L’inconfondibile essenzialità delle partiture chitarristiche echeggia dominante, basso e batteria ne sono vassalli e acuiscono la magia nera dell’esibizione. Tanti gruppi black dal vivo sfociano nel caos, gli Immortal invece mantengono sotto controllo l’incedere all’impazzata degli strumenti e denotano addirittura un livello tecnico superiore a quello dei dischi. La nitidezza del sound permette di apprezzare in rapita estasi gli sfregi di nera epicità a nome Sons Of The Northern Darkness, Damned In Black e tutto il campionario di black song, dapprima più rozze, poi sempre più definite nei contorni, composte negli anni dall’act scandinavo.
La tenuta del palcoscenico mette in rilievo una capacità di rapportarsi al pubblico ben superiore alla media dei gruppi black. Pur mantenendo fede a un approccio “evil” e fondato sull’intimidazione (e ci mancherebbe che accadesse il contrario!), Abbath sa entrare in sintonia con chi guarda senza venir meno alla barriera che il black metaller costruisce tra sé e il mondo esterno. Da buoni entertainer, gli Immortal fanno buon uso dei fuochi pirotecnici a disposizione, su tutte la suggestiva pioggia di scintille che inizia a un certo punto a piovere dalla cima del palco. Manca il numero del mangiafuoco, ma è solo una postilla di un concerto assolutamente perfetto.

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True Metal Stage, 23.15 – 00.15

Al Gods Of Metal relegati sul secondo palco in condizioni improponibili. A Wacken in orario da headliner su uno dei due main stage. Fate vobis. Congetture polemiche a parte, i Soulfly si intromettono tra le due esibizioni più sentite della giornata, quelle di Immortal e Fear Factory, condensando in un’ora di show tutto il meglio della propria carriera, ripercorrendo passo passo la set-list del Gods, con un effetto complessivo ben più appariscente, date le mutate condizioni ambientali.
Il successo commerciale arride tutt’ora alla band di Max, che si presenta con il nuovo bassista, anche nei Cavalera Conspiracy, Johnny Chow, e iniziano in maniera classica con Blood Fire War Hate. Imbolsito nell’aspetto, non nella vigoria, Max arringa la folla, reattiva fin dalle prime note e tarata sul ritmico saltellare all’unisono che tanto piace al leader della band. La partenza a razzo del gruppo si concretizza nelle concitate esecuzioni di Prophecy e Back To The Primitive, con Wacken a rispondere colpo su colpo alle urla di Cavalera. Il primo passaggio dalle parti di Omen si ha con Kingdom, una botta niente male di thrash-core viscerale e nichilista, che piace all’audience, ma mai quanto la riesumazione di Refuse/Resist. Stasera si va ancora più indietro nel tempo, Chaos A.D. è l’altro ieri al confronto di Troops Of Doom. Un senso di arcano ci sfiora mentre i Soulfly vanno a riprendere un pezzo che, da semplice condensato di violenza di quattro ragazzotti carioca, è diventato uno dei più famosi manifesti di estremismo della storia del metal. Chiude i conti con Omen la grintosa Rise Of The Fallen, i quattro danno sfoggio del loro lato etnico con qualche minuto di virili rullate sui tamburi, una consuetudine sempre rispettata ad ogni concerto, infine sfogano di nuovo gli istinti animali in Roots Bloody Roots e l’altrettanto anthemica Eye For An Eye. I Soufly non tradiscono.

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Black Stage, 00.30 – 01.30

L’enormità di una band a volte risiede nell’enormità dei suoi componenti. Dino Cazares, Byron Stroud e Gene Hoglan, messi uno di fianco all’altro, hanno più o meno le dimensioni di una portaerei, giusto più tondeggiante e meno spigolosa. Lo spessore artistico di questi tre, col valore aggiunto non trascurabile di Burton C. Bell, fa sì che oggi i Fear Factory abbiano una delle formazioni più talentuose del metal moderno. La fusione di metà della line-up storica della Fabbrica Della Paura con la sezione ritmica degli Strapping Young Lad ha portato alla creazione di un congegno perfetto che in tanti, arrivati agli sgoccioli di Wacken, bramano di vedere all’opera. Ora, se pensate che per riprodurre il feeling cibernetico dei migliori album dei nostri servano synth e aggeggi industriali un po’ strani, vi sbagliate di grosso. Bastano gli strumenti tradizionali a far esplodere tutta la disumanizzazione insita nella proposta del gruppo, e il fragore dell’impatto frontale generato dalla prima song si unisce a un senso di alienazione dal calore umano che solo i già nominati Strapping Young Lad e Meshuggah hanno facoltà di generare dal vivo.
Si comincia con un Bell imperfetto sulle tonalità pulite ma già ben assestato su quelle aggressive e con una potenza di fuoco impressionante proveniente dalle casse. Lo stile di Cazares nel dipingere un futuro grigio e dominato dalle macchine si intreccia ai ritmi da drum-machine di Gene Hoglan, una manna per chiunque l’abbia in formazione, irreale nel ricreare senza ausilio di beat aggiuntivi i patterns claustrofobici delle versioni in studio. Come ci si poteva immaginare, è un tripudio di mosh, circle-pit e wall of death a fare da contorno all’esibizione dei quattro. Il singer ritrova dopo qualche pezzo anche le algide vocals pulite e si mette così alla medesima altezza degli altri, dispensando furia e visionarietà, come un profeta del nostro fosco futuro. Si spazia molto in profondità nei lavori passati e presenti della band, affrontando i tormentoni di ieri (Edgecrusher), i pezzi forti di oggi (Powershifter), le chicche dei primordi (Martyr, il primo brano di Soul Of A New Machine, ma soprattutto Echoes Of Innocence, dal primo demo del gruppo!). Come accaduto durante l’intero tour di quest’anno, alla pietra miliare Demanufacture è affidato il compito di trainare il concerto sulla dirittura d’arrivo. Le ultime quattro canzoni arrivano tutte dal capolavoro del ’95: in serie, rapinano delle ultime stille di energia i convenuti Demanufacture, Self Bias Resistor, Zero Signal e Replica. Da paura.

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True Metal Stage, 01.35 – 02.50

E’ l’uomo chiamato Germania a fare da gentile maggiordomo e ad accompagnarci nell’ultimo immaginario viaggio di questo Wacken. Dopo una giornata di sole spacca sassi arriva la pioggia, l’unica sfiga capitata al buon Udo per questa sua apparizione casalinga. L’uomo di Wuppertal incarna come nessun altro il concetto di metal teutonico e aderisce perfettamente al concept wackeniano col suo metallo tradizionale, in pratica immutato negli anni sia sotto l’egida degli Accept, che sotto quella del suo ensemble solista. In confronto al Gods, il compatto vocalist germanico canta meglio, la potenza della sua ugola oggi è maggiore, per la gioia di una platea ridotta nei numeri rispetto ai concerti precedenti, ma molto vivace. Nell’ora a disposizione Udo passa in rassegna principalmente la fase ultima della propria carriera solista, con song quadrate e di facile presa, il suo piatto forte: Bullet And The Bone, Thunderball, Man And Machine, il nostro eroe in tenuta militare non si risparmia e si mostra in gran forma, come del resto le sue degne spalle agli strumenti. Il più in palla sembra essere Igor Gianola, che duella alla grande con Stefan Kaufmann, con Udo da sempre, già negli anni degli Accept. Il lavoro delle due sei corde è di primissimo livello e dà colore a brani altrimenti decisamente monolitici. Gli highlight non possono però che essere rappresentati dalle song acceptiane. Princess Of The Dawn è una graditissima sorpresa e non perde il suo tocco classicheggiante neanche stasera, Midnight Mover fa muovere tutti col suo inconfondibile tocco rock’n’roll, Metal Heart è l’inno che non può mai mancare nei concerti di Udo e viene introdotta dal solo Gianola on-stage, che le dà il via davanti agli occhi rapiti del pubblico.
Nei bis arriva una terremotante Two Faced Woman, appena prima dell’obbligatoria Balls To The Wall. Quest’ultima viene fatta cantare un numero infinito di volte, si vede che il singer non se ne andrebbe più dal palco e gongola nel vedere la gente sgolarsi sui suoi pezzi. Anche le cose belle, però, arrivano alla fine, a dieci alle tre la band saluta, partono le note di It’s After Dark nella versione dei Subway To Sally, rimandata dai maxischermi insieme ai titoli di coda per la ventunesima edizione di Wacken. Gioia e malinconia si mescolano nella fredda notte tedesca, un altro pezzettino di cuore rimane in queste lande tanto silenziose per 51 settimane, e tanto felicemente rumorose e festanti per una sola, la più importante, all’anno.