Loading

WACKEN OPEN AIR – Day I

imm

Wacken è sempre un evento speciale, ben più che un semplice festival metal; è l’Heavy Metal Heaven per antonomasia. Oddio, il Paradiso comincia a farsi fin troppo affollato, nelle ultime edizioni si è arrivati a una densità umana non sempre facile da sopportare, ma questo disagio è stato, come sempre, ripagato dall’atmosfera magica che solo su questi prati rigonfi di materiale organico d’origine bovina si può trovare. D’altronde solo qualcosa di magico potrebbe costringere 70000 e più persone ad arrabattarsi per giorni in mezzo al fango, al casino sovrumano, mangiando come capita, dormendo quel che si riesce, in balia di temperature in continuo saliscendi. Le bizzarre escursioni termiche di queste latitudini (basta una nuvola davanti al sole e si passa dal caldo al fresco tendente al freddo) contribuiscono a creare nell’individuo ciondolante in mezzo ai prati una sensazione, arrivati a un certo punto della giornata, di essere vicino al cedimento strutturale. Capita circa nel pieno del pomeriggio, quando ci si rende conto che la giornata è ancora lunga, la folla andrà a crescere di numero fin quasi a impedire gli spostamenti, le membra iniziano a gemere per le troppe ora ininterrotte in piedi. E’ un punto di non ritorno, che il metallaro infine fieramente scavalca con la disinvoltura di uno stambecco sui pendii alpini: l’essere si carica, reagisce alla fatica, acquista vigore, si galvanizza, trionfa. E gode di cotanto ben di dio.
Il bill di quest’anno, a una rigorosa analisi pre-festivaliera, si prestava ad alcune perplessità e a una funesta dietrologia, fugate solo in parte dall’abbondanza dell’offerta e dalla presenza di indiscutibile capisaldi della scena attuale. Wacken, è ormai innegabile, guarda negli ultimi tempi in modo fin troppo smaccato alle mode imperanti: sono sempre meno le scelte coraggiose ed eclettiche, votate alle nicchie meno pregiate in termini commerciali o alle band più oscure e sottovalutate, ci si sta dimenticando dell’underground, a favore degli inossidabili grandi nomi e delle nuove leve del metalcore e affini. Ecco, se può sempre far piacere vedersi le facce da leggenda di Ronnie James Dio, Tony Iommi, Biff Byford, paccottiglia comeBullet For My Valentine, Walls Of Jericho, Callejon, o gli stessi sopravvalutatissimi Airbourne (una bieca operazione commerciale e poco più il loro successo), potrebbero restare tranquillamente a casa.
Se è vero che, in questo senso, urge fare un passo indietro e recuperare lo spirito del passato, le prestazioni stellari ci sono state anche quest’anno e solo il più inguaribile dei piagnoni può essere tornato scontento dal Wacken 2009.

P.S. Una menzione d’onore alle belle porcelline in minigonna ultra corta, con tanga in bella vista, che si sono prestate al crowd-surfing, sorprendendosi poi che di fronte a tanto ben di dio i ragazzi toccassero assatanati in ogni dove. Se vi vestite di niente, se vi fate sollevare sopra la folla, non scandalizzatevi se vi trovate un vespaio di mani a palparvi famelico, eh…

imm

17.00 – 18.00, PARTY STAGE

Mai abbastanza lodati e considerati, erroneamente confinati, da tempo, tra i gruppi di nicchia, i D.A.D sono quanto di meglio ci possa essere per smuovere il pubblico; siamo solo agli inizi, ma una party band del calibro dei danesi scatena subito i bassi istinti. Se il grosso se ne sta dalle parti del Black Stage, anche nelle vicinanze del Party di gente ce n’è abbastanza. Tanti nordici, bandiere danesi e svedesi in bella mostra e sul palco un act maestro nel coniugare grandi qualità musicali e ironia.
I ragazzacci disneyani ricreano perfettamente l’atmosfera leggera e sarcastica dei loro dischi, con il singer Jesper Binzer a zampettare a passo di papera per lo stage e il colorito bassista Stig Pedersen, inguainato in una mise da pornostar, impegnato a dilettarsi con una serie di bassi (a sole due corde) uno più assurdo dell’altro. L’apice lo tocca quello a forma di missile, ma non ce n’è uno che sia vagamente canonico nella forma. Al di là del folclore, la performance musicale rimane di assoluto pregio. I D.A.D mettono in campo il giusto mix di gag, follia e song ultra-catchy, toccando vertici di coinvolgimento solitamente impensabili per un opening act e arroventando al massimo la propria audience sulle note della storica Jihad. Non è male nemmeno il materiale recente, su tutte Monster Philosophy (anche se mi devono spiegare cosa voglia dire una filosofia da mostro…) e finale pirotecnico per mano di Sleeping My Day Away, col suo inconfondibile giro di basso. E siamo solo all’inizio…

imm

20.15 – 22.15, BLACK STAGE

Il vascello dei pirati ammaina le vele: la ciurma è stanca, non ci sono più nuovi tesori a far gola, o forse si intende solo godere i frutti di quello che già è stato conquistato. Quali che siano le motivazioni dietro lo split, i Running Wild decidono di porre fine alla loro carriera con uno show in grande stile e non c’è occasione migliore del parterre di Wacken, praticamente il giardino di casa per uno dei gruppi più importanti dell’epopea metallica germanica. Già da qualche anno la band di Rock’n’Rolf aveva smesso di infiammare le folle, gli ultimi album non avevano aggiunto granchè alla loro storia, anzi, si sentiva in essi una mancanza di convinzioni e di verve molto preoccupante, con Rolf deus-ex-machina incontrastato e il nucleo storico dei Running Wild disperso ormai chissà dove.
Quindi, inutile aspettarsi miracoli da un combo che di fatto non esiste più da anni, meglio cercare di godersi, con un po’ di nostalgia, l’ultima recita dei Nostri con molta magnanimità per errori e imperfezioni e con il giusto disincanto. Le prime note, oltre a mostrare il vecchio comandante un po’ imbolsito e alquanto inguardabile per lo sgargiante capello rosso, non scatenano grandi entusiasmi: Bad To The Bone e Riding The Storm sono quasi irriconoscibili, tanto i suoni sono impastati, l’esecuzione approssimativa, la voce stonata e affaticata. Due ore rischiano di diventare fin troppo lunghe… Fortunatamente, i Running Wild invece di inabissarsi sciolgono la tensione e pur senza toccare attimi di pathos degni del glorioso passato, si arriva a livelli più che dignitosi. Prisoners Of Our Time, Soulless e soprattutto The Battle Of Waterloo ci fanno ricordare cos’hanno rappresentato i Pirati di Germania per il metal europeo, Tortuga Bay emoziona come la versione originale su Death Or Glory, un’emozione che accompagna un po’ tutte le canzoni proposte stasera, perché sappiamo che sarà molto probabilmente l’ultima volta che le sentiremo dal vivo. Under Jolly Roger, inno immarcescibile, è il naturale candidato a porre fine alla pugna, in un trionfo di fuochi d’artificio che salutano la nave dei Pirati, non più bella, veloce e vincente come ai vecchi tempi, ma dotata di un certo qual fascino anche nel suo ultimo viaggio.

imm

22.45 – 00.00, TRUE METAL STAGE

Niente di meglio dei Black Sabbath per celebrare degnamente la Night To Remember che tradizionalmente apre il festival. Sì, okay, Heaven And Hell, però la sostanza è che stiamo parlando dei Black Sabbath: carichi, potenti, doom come non erano da tempo immemore. E’ tornata l’oscurità, in una forma nobile, aristocratica, come solo questi distinti signori possono permettersi di ricreare: un’elegante cancellata campeggia ai fianchi della batteria, le luci si tingono di tonalità bluastre, i musicisti salgono sul palco di nero vestiti e con passo felpato, riducendo al massimo il loro impatto scenografico. A quello ci pensa lo schermo di led sullo sfondo e la figura vitale ed energica di Ronnie James Dio. Sentirgli cantare Mob Rules con tanta precisione, a piene corde vocali, senza tentennamenti, fa credere che il famoso patto col diavolo, per lui, si sia davvero concretizzato. Non sappiamo con quali controindicazioni, però il contratto col purpureo Signore degli Inferi da qualche parte il vocalist americano a casa deve averlo, ci si può scommettere. Lo stesso si può dire per il più che compassato Tony Iommi, perennemente assorto sul suo strumento, da cui tira fuori i soliti, magici, riff, dando la sensazione che solo lui riesca a maneggiarne la forza incontrastata, a farli risuonare come dovrebbero, a donargli l’effetto originario.
Children Of The Sea, questa sera, viene suonata più lenta ed heavy della versione originale, rimarcando quell’attitudine doom che gli Heaven And Hell vogliono gridare al mondo. L’esecuzione è magnifica, doppiata subito dopo da una gemma più oscura, ma non meno pregiata, I, da Dehumanizer. La grandissima voce di Dio va preservata, così il concerto prevede anche lunghi momenti strumentali, vicini allo spirito di libertà e improvvisazione pura degli anni ’70. I classici, comunque, non vengono centellinati, la ripartizione tra i quattro album con questa line-up è calibrata per far apprezzare sia i Sabbath più epici che quelli più rallentati. Per questi ultimi, spicca su tutte Bible Black, che pare incredibile sia stata scritta da personaggi che di norma, arrivati a questo punto della carriera, si crogiolano su sonorità ben più soft. Arrivano anche Time Machine, Falling Off The Edge Of The World, una versione da sogno di Die Young, prima di un finale tanto lungo quanto magico.
Heaven And Hell è prolungata all’inverosimile: riarrangiata in modo leggermente diverso nella prima parte e assoggettata a una lunga jam nel mezzo, dove Iommi spadroneggia, esplode infine nella cavalcata conclusiva in tutta la sua magnificenza. Prima della buonanotte, ci viene concessa, un’ultima delizia, Neon Knights: se si chiudessero gli occhi sarebbe impossibile dire se stessimo udendo il pezzo nel 1980 o nel 2009. Concerto stupefacente, c’è da sperare che l’allenza Dio – Iommi duri ancora per qualche tempo, per prolungare il più possibile emozioni come queste.