

11.00 – 11.45, BLACK STAGE
Si sperava in una bella botta di adrenalina da parte dei Vreid. Le cronache li davano tra i nomi da tenere d’occhio in ambito black, forti di album oltranzisti ma con un occhio di riguardo al pathos e a una marcata venatura black’n’roll, oltre a qualche scampolo di epicità. Dal vivo, non si può dire che il quartetto norvegese sia particolarmente impressionante, anzi, le attese della vigilia si stemperano in un’esibizione piuttosto scialba e priva di slancio emotivo.
I ragazzi del gruppo approdano sul Black Stage in divisa d’ordinanza, sfoggiando tutti la medesima maglia con logo e nome della band in bella evidenza; ordinati e compiti nel momento di calcare la scena, si spera che al tuonare delle prime note i musicisti si trasformino in belve assetate di sangue. Già dopo il primo pezzo, si capisce che qualcosa non quadra: poco brio, violenza educata e disciplinata con pochi guizzi di genuina rabbia, atmosfere epiche poco convincenti. Non ci sono particolari errori da parte dei musicisti o situazioni sfavorevoli a inficiare la resa del concerto, solo la band non pare in grado di dare di più.
La piattezza dei patterns di batteria soffoca sul nascere ogni velleità, si salvano alcuni fraseggi chitarristici un po’ più elaborati e qualche incursione nel cantato pulito, ma nei 40’ di esibizione non arriva nulla di trascendentale. I Vreid viaggiano in una dignitosa ordinarietà, a chi piace il metal estremo vagamente epico e non necessariamente ispiratissimo, saranno anche piaciuti, chi non li aveva mai uditi nominare non si sarà certo strappato i capelli dalla felicità nel sentirli.

11.45 – 12.45, TRUE METAL STAGE
Le leggende, talvolta, invecchiano. Gli UFO, pur essendo ancora in circolazione e suonando con cognizione di causa, sono di quelli che mostrano tutti i loro anni. Rispetto a gente come i Rush o gli Scorpions, Phil Mogg e compagni hanno davvero l’aria di arrivare da lontano, da un tempo che fu. A Wacken si prendono il pubblico della mattina, le luci della ribalta sono lontane, ma è rimasta la voglia di suonare e di far divertire chi ci si trova davanti ad assistere al proprio show.
L’ora a disposizione è affrontata col piglio giusto: né eccessivamente retrò, né forzatamente moderni, i vecchi rocker suonano energici, ma con misura, il loro ampio repertorio. Hanno un bassista abbastanza giovane, almeno rispetto agli altri componenti della band, il resto del gruppo mostra i segni del tempo e l’esperienza di chi cavalca la scena dalla notte dei tempi. Il tempo in compagnia degli UFO scorre piacevole, seppur senza guizzi di sorta, grazie soprattutto alla voce sicura di Mogg e alle sue mossette da vecchio seduttore, oltre che a qualche battuta da umorismo british, credo non pienamente apprezzate dal pubblico (men che meno da chi scrive…). Si segnala anche l’imbarazzante capigliatura dell’altra colonna portante del gruppo inglese, Pete Way, che avrebbe bisogno di un taglio e di un colorito più sobrio del proprio sfibrato cuio capelluto.
Non sono da annoverare tra le esibizioni topiche del festival di quest’anno, però vecchi rocker come gli UFO si vedono sempre volentieri.

13.00 – 14.00, BLACK STAGE
Dopo la scorpacciata delle ultime edizioni, che avevano avuto per fiore all’occhiello gli show di alcuni dei migliori act black metal della storia, il Wacken del ventennale riduce visibilmente lo spazio concesso agli adepti della nera fiamma. Niente notte da incubi viziosi come nel 2004 coi Satyricon o nel 2006 con gli Emperor; quest’anno la band più blasonata del genere sono gli Endstille, e non hanno esattamente una posizione da superstar all’interno dell’affollato programma orario.
I truci norvegesi non se ne dolgono affatto, anzi, e forti di un seguito fedele e decisamente interessato a tributare i giusti onori ai propri beniamini, scatenano la bagarre fin dalle prime note. Tanti, inopinatamente tanti, i ragazzi con la maglietta della band presenti sotto il palco durante l’esibizione; non si può dire siano rimasti delusi. Presentatosi con uno dei face-painting più sanguinari in circolazione, il quintetto spara subito ad altezza d’uomo con una ferocia inaudita. Veloci, bellicosi, brutali, gli Endstille sono degni eredi dei Marduk più estremi e riescono anche ad evitare la monotonia di canzoni perennemente a rotta di collo, inserendo quei pochi rallentamenti necessari a dare un minimo di respiro ai pezzi. Questo non intacca la crudezza e la forza della musica proposta, che desta sensazione e interesse anche in chi, degli Endstille, fino ad oggi non conosceva granché. Un’ora grondante sangue, in campo metal, fa sempre piacere e mette di buon umore: Endstille promossi sul campo per adeguato numero di vittime mietute.

14 – 14.25, W.E.T STAGE
Prima di andare nuovamente a scorrazzare per il Metal Market (non ho cuore di sorbirmi i Gamma Ray, men che meno il fastidioso rumoreggiare dei Walls Of Jericho), val la pena dare uno sguardo al W.E.T Stage per andare a caccia di nuovi talenti, usciti dai Metal Battle nazionali. Queste band occupano ormai circa la metà della set-list del palco minore di Wacken e hanno modo di vivere un’esperienza unica, che da nessun’altra parte sarebbe concessa ad act non ancora arrivati al primo disco. A quest’ora si esibiscono gli Scarred, lussemburghesi, i quali sono lo specchio fedele di come si muove una buona fetta dell’underground internazionale. Questi ragazzi mettono assieme thrash puro, thrash/death di scuola scandinava, il metalcore più groovy e incazzato, alla stessa maniera di una miriade di altri loro coetanei sparsi ai quattro angoli del globo. Come tanti di loro, i motivi di interesse nascono e finiscono col poderoso impatto dei riff ribassati posti a perno dei brani: quando si gratta sotto la superficie, affiora tutta ala pochezza dei contenuti, data dal non avere una precisa idea di dove andare a parare con la propria musica. I volenterosi lussemburghesi, accozzando insieme con poca inventiva stacchi e ripartenze col solo scopo di far muovere la testa al pubblico, dal vivo possono anche passarla liscia, forti di una tenuta del palcoscenico nient’affatto disprezzabile, ma per loro non vedo un futuro poi tanto radioso.
Non sono né carne né pesce gli Scarred, la loro aggressività e voglia di sbattersi sarà piaciuta ai metallers più giovani, ma andando avanti di questo passo non credo andranno troppo lontano.

16.45 – 17.45, TRUE METAL STAGE
Poteva diventare una fragorosa disfatta, si è tramutata in una schiacciante prova di forza. Il concerto di Wacken ha rischiato di diventare, per la truppa di Seattle, una di quelle affannate e fiacche esibizioni a cui ci eravamo dovuti abituare per un certo periodo, quando Warrel Dane non era in grado di controllare il vizio del bere. Rimessosi a regime il talentuoso singer, a causa dei primi seri problemi di salute, pareva che i rischi di defaillance si fossero notevolmente ridotti.
Invece, l’attacco di This Sacrament, a seguito dell’intro flamencato Precognition, lascia presagire un quadro di inenarrabili sofferenze. La formazione a quattro (il ruolo di secondo chitarrista è sempre stato la maledizione dei Nevermore) si scopre inadeguata a reggere le complesse architetture dei pezzi, la mancanza di un musicista pesa impietosa, i suoni sono malamente calibrati e la voce di Warrel, tanto per andare a nozze con la traballante situazione venutasi a creare, non esce.
Un pezzo d’apertura azzeccatissimo viene così irrimediabilmente svilito e l’entità del danno aumenta con The River Dragon Has Come, vissuta dal pubblico come una sconcertante agonia. Poi, quando ormai si teme il peggio, arriva il ribaltone. Dane intona a cappella l’intro di Dead Heart In A Dead World: la voce c’è, non si ode incertezza nell’intonazione, la poesia delle parole scandite è intatta. Vuoi vedere che… Quella che va in scena di qui in avanti è l’esibizione dei Nevermore quale dovrebbe sempre essere, senza intoppi, senza casini coi volumi, con Warrel a pieni polmoni e sicuro di sé. Il cacciabombardiere prende il volo, arma i cannoni, fa fuoco all’impazzata: Dead Heart In A Dead World fa il suo dovere e l’empireo del refrain è riprodotto alla grande. Le scudisciate proseguono con poca, se non alcuna, pietà sulle note di Enemies Of Reality; sprezzante la band incalza i suoi sostenitori, Loomis e compagni hanno finalmente in mano le redini dello show e ora non ce n’è più per nessuno. L’unico attimo di respiro lo dà The Heart Collector, una pace effimera rotta dalla mitragliata senza eguali di Narcosynthesis, preludio a un’esecuzione da bava alla bocca di This Godless Endeavor, 10’ di primizie, tecnicismi, riff a rotta di collo, epicità e techno-thrash moderno all’apice della sua forma artistica.
I numeri da circo non sono ancora finiti, l’ottovolante Nevermore accelera e si contorce sempre più febbrilmente, per la goduria dei presenti. Inside Four Walls, al solito uno schiacciasassi di disarmante potenza, va in tandem con le psicosi avvelenate di I, Voyager. Per la chiusura, il vocalist dalle profonde occhiaie chiede il medesimo macello di 3 anni prima, quando un immane crowd-surfing aveva messo a dura prova l’impeccabile security di Wacken. La song è la stessa di allora, Born, la chirurgica foga con cui è suonata idem, la risposta dell’audience fin troppo ricettiva ai messaggi provenienti dallo stage. Corpi su corpi su corpi volano dappertutto sul nugolo di cavallette travestite da esseri umani assiepate nell’area antistante il True Metal Stage: un casino inverecondo se sei lì in mezzo, dal palco dev’essere uno spasso. Altra esecuzione da manuale e calorosi saluti da un gruppo che, quando entra a regime, anche dal vivo non teme confronti con nessuno.

18.00 – 19.00, BLACK STAGE
Bene, consapevole di rischiare di essere messo al muro per un’improvvida fucilazione, vado a dare una somma descrizione dell’esibizione della band più pompata in campo hard rock negli ultimi anni, gli Airbourne. Ce li hanno fatti passare fin da subito per i nuovi Ac/Dc, una definizione meritata più per l’ansia di voler trovare un erede a tutti i costi allo storico act australiano, che per reali meriti artistici. Una cosa su cui però devo dar ragione ai loro tanti estimatori, è la notevole capacità di entrare in sintonia con le folle, per via di un paraculismo di primissima categoria. I rocker australiani sanno qual è la considerazione che il pubblico ha di loro, e su questo giocano molto; i ragazzi si atteggiano a novelli fenomeni del rock’n’roll, fanno scena a più non posso e questo, si sa, basta e avanza per portare l’audience dalla propria parte, mentre a me danno sui nervi dopo dieci minuti. La musica è tanto immediata quanto innocua, con brani tutti uguali o giù di lì, e dopo neanche un terzo del set gli Airbourne sono già impegnati ad allungare i finali, col cantante/chitarrista Joel O’Keefe che sale sulla struttura del palco e a considerevole altezza continua a suonare il suo strumento, rischiando in più di un’occasione un volo pressoché fatale. Sotto impazziscono, ma se per fare queste scenette si devono allungare a dismisura i pezzi, beh, c’è da chiedersi se ne valga davvero la pena. Un’ora è lunga da far passare con un gruppo che, stringi stringi, è poco più di una cover band degli Ac/Dc, ma il resto del pubblico non sembra preoccuparsene e si coglie una densità umana, e un’esagitazione collettiva, più copiosa di quanto visto appena prima con i fuoriclasse Nevermore. Misteri della vita. Per quel che mi riguarda, uno dei concerti più deludenti del Wacken 2009.

20.05 – 20.45, W.E.T STAGE
Ci vuole più thrash, mannaggia, ci vuole più thrash! Troppo poco rappresentato, quest’anno, lo stile musicale che ha segnato l’ingresso nella fase moderna del metal. Un gran peccato, perchè tra i tanti vecchi leoni ancora in pista e le nuove leve magari non così dotate come chi ha dato il là alla scena, ma volitive ed esagitate come si deve, si poteva osare un po’ di più e infoltire il bill con uno dei tanti nomi a disposizione. Pazienza, accontentiamoci dei pochi thrashers presenti e vediamo cos’hanno da proporci.
Dei Whiplash abbiamo già ammirato una performance di fuoco all’Hellbrigade Festival a Codevilla, in un Thunder Road al collasso per il caldo afoso di quel giorno. Il terzetto americano, una delle tante meravigliose belve da competizione partorite dagli eighties, interpreta un modo di fare thrash decisamente straight in your face, e sul palco non si tira di certo indietro nello sfoggiare questa sua attitudine. Il parterre si affolla di giubbotti jeans smanicati ricoperti di borchie e toppe di ogni genere, spesso accompagnate da un bel paio di jeans ultra-aderenti. L’occhialuto chitarrista/cantante Tony Portaro ci mette due secondi a far perdere la testa a questa masnada di scapocciatori, complici gli spazi ampi (la folla preferisce i Bullet For My Valentine, bah…) si va di circle-pit in circle-pit per tre quarti d’ora con poca soluzione di continuità. I tre Whiplash, dal canto loro, non sono da meno: la frenesia e la foga la fanno da padrone, e tra volumi a palla, riff modello rasoio a otto lame e pezzi più assimilabili al concetto di arma di distruzione di massa che a quello di semplici canzoni, il delitto è perfetto.
Il terzetto del New Jersey ci regala una lunga apnea thrash, incentrata sulle cartucce più letali a disposizione, mentre non c’è spazio alcuno per cose più eclettiche e fuori dal seminato. Giusto così, i fans volevano vedere sprizzare il sangue e rompersi le ossa. E questo hanno avuto.

21.45 – 23.00, TRUE METAL STAGE
E’ impossibile non cadere nello scontato quando si parla dei Motorhead dal vivo. Cosa vuoi aggiungere ancora, per descrivere e definire i saggi di roboante superiorità che forniscono da sempre nel contesto live, esibizioni che mai sono state intaccate da qualsivoglia sintomo di fiacchezza, di rilassatezza, mancanza di stimoli? Il congegno funziona sempre perfettamente e la line-up a tre Kilmister-Campbell-Dee non accenna a fermarsi, nemmeno lontanamente i nostri si crogiolano nel loro status divino, e tutte le volte che salgono su un palco trasformano in piombo l’aria che li circonda.
E’ così anche stavolta, in un festival in cui sono tra le band più presenti in assoluto, un luogo perfetto per chi del rock’n’roll a volumi smodati ha da sempre fatto la sua bandiera. I volumi sono impostati sui soliti livelli impossibili, il muro di Marshall di fronte a noi, si sa, non perdona e quando Lemmy compare, presenta il gruppo con i dovuti convenevoli e attacca Iron Fist, il clima nelle vicinanze è facilmente immaginabile. La nitidezza dei suoni è un propellente aggiuntivo che permette di godere, nel pieno del loro sudicio sfarzo, le sempiterne Stay Clean, Rock Out, Metropolis, verniciate di fresco dall’ugola raspante di Lemmy, dalle botte senza misericordia di Dee e dai riff grassi di Campbell. La scaletta è abbastanza varia a questo giro, un po’ di turnover non fa male neanche ai capisaldi imprescindibili delle esibizioni del terzetto, e fanno bella mostra di sé canzoni come Another Perfect Day, Over The Top, la giovincella In The Name Of Tragedy, una delle più belle composizioni partorite da Kilmister negli ultimi dischi, durante la quale Dee si esibisce nel suo funambolico assolo. L’ora e un quarto di concerto, a parte questa parentesi, è tiratissima, difficile sentir interloquire i musicisti più di tanto; questo non dà tregua all’audience, che si comporta come si conviene e al pari di chi sta sul palco non delude le aspettative.
E’ oltremodo scoppiettante l’ultima porzione di concerto : prima dell’uscita di scena, i Motorhead sparano il duo Going To Brazil – Killed By Death, al loro rientro è invece la volta di Ace Of Spades e Overkill. A questo punto la bolgia può quietarsi, riprendere fiato e spostarsi di qualche metro per rientrare nel vivo delle operazioni. E’ scoccata l’ora degli In Flames.

23.15 – 00.30, BLACK STAGE
Il circo fatato degli In Flames torna sul luogo del delitto preferito. Laddove si era consumata la loro definitiva consacrazione tra i gruppi guida del pensare e dell’agire metallaro moderno nel 2003, una performance bissata alla grandissima quattro anni dopo, gli svedesi tornano dopo un altro periodo assai florido sia dal lato artistico che di quello di consensi da parte della masse. A testimoniare che il periodo d’oro della band è ancora lungi dal terminare, basterebbe vedere quante migliaia di persone aspettano le loro gesta già durante i Motorhead e quante ne accorrono a fiotti appena il massacro degli inglesi si è placato. L’attesa è vibrante e l’energia può fluire libera quando i led si accendono e i cinque di Goteborg fanno finalmente il loro ingresso sulla scena. Il primo approccio è all’insegna del metal diretto e facile di Sense Of Purpose, chiamato in causa con Delight And Angers, subito doppiata da un cavallo di razza appartenente a ben altra era, ossia The Hive, epoca Whoracle. Dopo di che, gli In Flames rientrano definitivamente nel repertorio recente, per la sempre beneamata Trigger. Purtroppo i suoni non sono all’altezza, sembra che abbiano spento metà dell’impianto audio, tanto la musica arriva ovattata e a tratti poco riconoscibile. E’ questo un difetto che smorza in parte l’impatto scenico, solitamente devastante, così che in certi momenti bisogna prestare attentamente orecchio per discernere bene quello che sta suonando la band. Nonostante tale inconveniente, rimasto irrisolto per tutto lo show, l’atmosfera non si raffredda e raggiunge le dovute vette di delirio. Contribuiscono a dare un po’ di sale all’evento alcune trovate singolari messe in campo dagli ineffabili svedesi: la prima è quella di suonare dal vivo per la prima, e forse ultima volta, dice Anders Friden, Dead End, per la quale sale sul palco la bella cantante svedese Lisa Miskovsky. La seconda, vede gli In Flames in un’inedita veste acustica nell’interpretazione di Alias, scelta spiazzante ma direi riuscita, mentre la terza è quella del circle-pit durante l’esecuzione di The Chosen Pessimist. Friden chiede e ottiene un casino degno dei pezzi più violenti del suo gruppo e si compiace di come, anche in un brano così lento e tranquillo, si possa portare il pubblico a tali vette di degenero.
Completano il quadro un lotto di canzoni sempre all’altezza, con particolare riguardo per Reroute to Remain, da sempre grande fucina di hit, il saltellare collettivo per Only For The Weak, la levata di cellulari per Come Clarity. Degna conclusione del concerto è la collaudata accoppiata a base di Take This Life e My Sweet Shadow, un suggello a ceralacca rovente, in un mare di fiammate così prorompenti da illuminare il cielo a giorno.

00.45 – 01.45, W.E.T. STAGE
Un poco spossati dalla mastodontica tonnara appena affrontata con gli In Flames, in lotta con un freddo a quest’ora (è quasi l’una) piuttosto pungente, andiamo a rintanarci al W.E.T. Stage, un po’ avaro di chicche rispetto agli altri anni, ma sempre foriero di belle iniziative e di concerti un po’ particolari. I Sarke sono quel che si dice un gruppo old-school: lo sono nell’aspetto rustico, nella totale mancanza di orpelli scenici, nella musica abbastanza minimale, rivolta a rispolverare un tipo di metal estremo molto essenziale. Spazio allora a tempi medi rocciosi e vagamente rolleggianti e ad un misto di death e black alla vecchia maniera, quando erano proprio agli albori del loro percorso evolutivo.
A far godere gli astanti e a dare maggior pepe allo show, la presenza dietro il microfono di un certo Nocturno Culto, il che non sposta di un millimetro il giudizio su un gruppo discreto e poco più. Non essendo dei fuoriclasse e non potendo contare su chissà quali doti strumentali, i Sarke la mettono giù di mestiere; alla lunga l’eccessiva ripetitività delle song fa calare un po’ l’attenzione, ma non si arriva ad attimi di stanca troppo eclatanti. Per l’ultima song, arriva la sorpresona: sale sul palco a dar man forte Tom Gabriel Fisher, il leggendario master mind dei Celtic Frost, per il quale viene rispolverata la primordiale Dethroned Emperor, risalente al primo ep degli svizzeri, Morbid Tales. Basta e avanza per scaldare il tendone, invero non troppo pieno e a suggellare il gradito ritorno live di un personaggio, il leader dei Darkthrone, non proprio avvezzo a questi contesti.

02.15 – 03.00, W.E.T STAGE
Qua andiamo nello straculto, puro, delizioso, straculto. Una band vetero-thrash cilena, con all’attivo release che definire oscure è andare lontani dalla realtà, è una chicca imperdibile. I Pentagram sono come te li aspetti: brutti, sporchi, cattivi, ringhianti. Salgono sul palco e ricordano ai presenti di non essere i Pentagram che tutti conoscono, cioè lo storico act doom metal/hard rock anni ’70, ma un’entità ben più sordida e assassina. Commuovente è quel che dicono appena dopo: “We play proto-death metal from fucking eighties!”. Chi non cadrebbe ai loro piedi adorante dopo una dichiarazione del genere? Infatti andiamo in men che non si dica al macello, perché i Pentagram faranno la musica più semplice del mondo, ma quando si affrontano queste sonorità con tanta convinzione e brutalità si sta sempre dalla parte giusta. Non mancano dediche a chi non c’è più e in passato ha dato man forte alla (limitata) gloria della band, nonché un sentito richiamo alle gesta della polizia cilena, omaggiata di una vagonata d’odio che dice molto dell’opinione dei musicisti sudamericani riguardo le forze dell’ordine. In mezzo a queste perle di saggezza, tanta sana violenza senza freni, nella miglior tradizione del primo metal estremo di metà anni ’80. Ben più che piacevoli e molto più efficaci delle mezze tacche del metalcore, fanno risaltare in maniera implacabile quanto fosse mirabile quel periodo storico, perché se anche un act di seconda fascia come questo riesce tutt’oggi ad esprimere tutta questa genuina energia, c’è molto da meditare…