

12.00 – 12.45, BLACK STAGE
Il sabato si apre più o meno come il giorno prima: alla camomilla. A dare il là a una giornata lunghissima e massacrante (si vedano entrambi gli aggettivi in una veste del tutto positiva) ci pensano gli Einherjer, act viking metal esperto, lontano dalle scene, a livello discografico, dal 2003, anno di Blot. Le bellicose intenzioni che un gruppo viking dovrebbe sempre avere quando suona rimangono gelosamente serbate nella mente dei musicisti, perché la performance odierna tutto è fuorchè un’intensa dichiarazione di guerra. Troppo innamorati di tempi cadenzati e reiterati a dismisura, i norvegesi trasudano sì una certa epicità, ma senza donarle quel calore che porterebbe la loro esibizione dal tranquillo tran-tran in cui si incanala fin dal principio, a un barbaro sacco di Wacken. Come i connazionali Vreid il giorno prima, quasi rifuggono l’immagine di band guerriera e irruenta, nel loro genere un must, accontentandosi di sciorinare il proprio repertorio in modo pulito, essenziale. Credendo e anelando in qualche colpo di coda, si finisce per restare lo stesso attaccati al palco per cercare qualcosa di buono, ma al di là di una piacevole atmosfera di fondo, intrisa degli umori e delle sensazioni di tempi lontani, faccio fatica a trovare reali motivi di interesse a questo concerto. Rimandati.

13.00 – 14.00, TRUE METAL STAGE
I Rage festeggiano i 25 di carriera, un lasso di tempo in cui hanno piazzato nientemeno che 16 album in studio, oltre a svariati ep, best-of e live album. Si poteva pensare a uno show speciale per Wacken, data la ricorrenza, invece tutto sommato essa passa un po’ in sordina e il terzetto teutonico si ritrova arretrato in scaletta rispetto al recente passato. L’ultima volta c’era l’orchestra, oggi solo i tre strumentisti, con qualche ospite a inserirsi nel contesto. La stessa tracklist finisce per ricalcare il solito elenco di canzoni sempre presenti nei concerti dei Rage, infatti dopo Carved In Stone, dall’ultimo disco, siamo già catapultati nella straclassica Higher Than The Sky. Arriva il primo ospite, e che ospite, poiché sul palco compare Hansi Kursch, asciugato nel fisico e col capello decisamente più corto del consueto. Il singer dei Bardi di Krefeld rimane a duettare con Peavy per tre pezzi, prima di lasciare il posto alla graziosa (e non poco…) Jan Majura, che già in passato ha collaborato col gruppo e che oggi regala un’ottima prestazione. Per lei due pezzi, Lord Of The Flies e From The Cradle To The Grave, tra i momenti topici dell’intero show. Dalla beltà alla brutalità, lo stacco non potrebbe essere maggiore con l’arrivo del padrone di casa Mike Schmier, impegnato su una musica ben più morbida di quella dei suoi Destruction, ma non per questo fuori luogo. Quello che non cambia è il livello della prestazione, sia strumentale che vocale; Peavy non sarà il miglior cantante sentito in questa rassegna festivaliera, ma sa ancora difendersi egregiamente, attorniato da uno Smolski mai in difficoltà e da un batterista preciso e affidabile come Andre Hilgers. Fa in tempo a dar man forte sullo stage Eric Fish dei Subway To Sally, prima che la band torni un terzetto per la conclusiva Soundchaser. I Rage hanno fatto i Rage anche stavolta.

14.15 – 15.15, BLACK STAGE
Lee Dorian è rimasto intrappolato negli anni ’70; il suo caracollare per il palco, lo sguardo vagamente perso chissà dove, ce lo fanno sembrare in preda a qualche trip di sostanze non meglio definite e pur non sfoggiando un abbigliamento particolarmente retrò, l’artista inglese dà l’idea di non essere del tutto in tono con l’ambiente intorno. La stessa musica dei Cathedral esula abbastanza dal contesto di Wacken, per quanto la band abbia già bazzicato da queste parti in passato e si conquisti sempre uno degli stage principali. Il concerto del quartetto albionico concede un affascinante spaccato del loro pensiero musicale, spaziando con buon gusto dai tempi ultra-slow delle loro composizioni più doom (emblematica la song che occupa la parte centrale del set, protrattasi per lunghissimi minuti in maniera sempre più lisergica e alienante) alle cavalcate puramente rock’n’roll. Difficile dire cosa i Cathedral riescano a far meglio, tanto sono disinvolti e convinti in entrambi i casi, nonostante il pubblico meno attento prediliga sicuramente pezzi più d’impatto come l’intramontabile We Ride e Witchfinder General. Fulcro dell’intera esibizione è il master mind Dorian, non per forza impeccabile nel cantato ma sempre ottimo frontman, per quanto abbia uno stage-acting inusuale e non dia l’idea di essere sempre presente a se stesso e all’audience. Gli altri musicisti lo seguono senza sbavature, basta e avanza per portare a termine un concerto buono, seppur non eccezionale.

15.30 – 16.30, TRUE METAL STAGE
I Testament prima degli Heaven Shall Burn? Ehhhh??? Ma dove siamo? Delle volte il mondo, oltre a girare al contrario, sembra fare dei tripli salti carpiati in tutte le direzioni, tanto certe cose sono balzane. Assurdità di orario a parte, Chuck Billy e compagni non vedono fortunatamente ridotto il proprio folto nugolo di affezionati e l’area antistante il True Metal Stage è piena come nelle migliori occasioni.
Da quando è tornato in formazione il folletto delle sei corde Alex Skolnick e si è registrato l’ingresso eccellente di un tal Paul Bostaph alla batteria, i thrasher della Bay-Area hanno decisamente cambiato marcia; pur avendo fatto vedere ottime cose anche nel periodo appena precedente il tour di reunion con la vecchia line-up, i Testament di oggi hanno quel che non so che capace di distinguere i semplici, eccellenti, picchiatori dai puri artisti della distruzione. Come al Gods del 2008, i ragazzi girano a mille, e al di là della pecca di girare sempre attorno alla stessa scaletta (e con tutto il ben di dio prodotto in vent’anni e oltre di vita, qualche cambiamento lo si potrebbe anche fare), c’è sempre da essere soddisfatti quando li si vede on-stage. L’apertura, l’abbiamo appena detto, è nel segno del classico che più classico non si può, con The Preacher a scatenare i primi vortici, innervati appena dopo da quell’altro bolide a nome The New Order. Se Chuck è il solito ciclone, il suo perfetto contraltare è il tocco elegante di Skolnick, perfettamente consapevole del proprio ruolo e prodigo di sorrisi e cordialità verso un pubblico in visibilio ad ogni assolo. Over The Wall e Practice What You Preach, suonate a stretto contatto tra loro, portano in ebollizione i fans, che non si placano neanche sul materiale dell’ultimo disco, rappresentato da More Than Meets The Eyes. Into The Pit è l’occasione per allargare a dismisura gli spazi e consentire un circle-pit inenarrabile, dove pensare di fermarcisi in mezzo è garanzia di un posto in ortopedia all’ospedale più vicino, idem dicasi per Disciples Of The Watch, imprescindibile, e ci vengono concessi anche due sontuosi estratti del capolavoro di fine scorso millennio The Gathering. 3 Days In Darkness lancia i metallers in un corrosivo coro, D.N.R. spinge all’apocalisse fin dal solenne intro ed esplode indemoniata lasciando dietro di sé un senso di annichilimento con pochi eguali.
Giusto alla fine, i Testament si ricordano di dare ancora un piccolo spazio alla loro ultima fatica e piazzano The Formation Of Damnation, final track atipica per una loro esibizione ma di nuovo molto apprezzata, come il resto del set. Inutile dire altro, le conclusioni su un concerto del genere si traggono da sole.

18.00 – 19.00, TRUE METAL STAGE
Gli act tedeschi hanno sempre un posto privilegiato quando c’è da metter giù la programmazione dei palchi, così non sorprende trovare tanto in alto il vecchio marpione Axel Rudi Pell; il “ragazzo” dal capello ultra-tinto si presenta in camicia bianca scollata e lo sguardo da seduttore, si mette in posa, fa lo sguardo da duro, getta in campo tutto il campionario del rocker sgamato. Trovandoci davanti alla band di un chitarrista solista, si potrebbe immaginare uno sbilanciamento verso i virtuosismi di Axel, invece tutto sommato sono le canzoni a dominare e gli altri componenti del gruppo non restano affatto in secondo piano. Al contrario, i compagni del biondo chitarrista si ritagliano il loro spazio e coinvolgono il più possibile i presenti, in particolare il dotato vocalist Johnny Gioeli, potente nel canto quanto esagitato nello stage-acting. Potenza assicurata, se ce ne fosse ancora bisogno, dal talento di Mike Terrana, e trame chitarristiche arricchite con maestria dal bravo tastierista Ferdy Doernberg, un altro che oggi mette a dura prova le sue vertebre.
L’hard rock elegante, vicino allo spirito dei Rainbow, della band di Axel Rudi Pell fa la sua figura e se ogni tanto manca un poco di dinamismo, le doti tecniche dei musicisti non lasciano scemare l’attenzione. Un concerto di contorno, non per questo poco interessante.

19.00 – 19.50, W.E.T STAGE
Relegati al W.E.T Stage, i Trouble, tra i più Grandi di tutti i tempi in campo doom, scontano la concomitanza con gli in Extremo e vedono davanti al palco un numero di spettatori certamente non adeguato alla loro storia, per quanto la band non abbia mai ricevuto, neanche negli anni di pubblicazione dei loro migliori dischi, acclamazioni oceaniche. Tornati in piena attività da pochi anni, gli americani portano sotto l’ampio tendone un numero di fans contenuto, ma molto convinto. L’occasione è ghiotta, i Trouble non passano dalle nostre parti tanto spesso e quello di Wacken è quel che si dice un concerto da culto.
Quando attaccano, si capisce subito che il gruppo è in palla e pronto a dare spettacolo; lo storico chitarrista Bruce Franklin si muove quasi in trance nella sua tenuta molto seventies, corredata da dei bei baffoni e da una bandana a cingere il capo che fa molto figlio dei fiori. L’altro addetto alle sei corde, Rick Wartell, lo supporta a dovere, ma a catalizzare i presenti è un signore magro e scattante come un diciottenne, con un’elegante camicia bianca addosso e in perenne movimento per il palco. Il soggetto in questione, singer della band, scoprirò essere successivamente Kory Clarke, leggendario vocalist dei Warrior Soul. La sua ugola urticante è benzina sul fuoco per una musica che di doom ha la corposità del riffing, ma non la lentezza; i Trouble versione 2009 stanno in bilico tra possente hard rock e metal sabbatiano, raramente si abbandonano a sonorità molto plumbee, nonostante Clarke ricordi con fierezza l’appartenenza del gruppo al filone doom. La performance odierna segnala uno stato di salute incredibilmente buono, sia per il piglio con cui il repertorio della band viene proposto, sia per la presenza sullo stage: il sacro fuoco brucia ancora, l’innesto di Clarke dà un taglio particolare al sound dei Trouble e permetterà magari di allargare il bacino di fans nell’immediato futuro. Per ora accontentiamoci di aver rivisto all’opera, alla grandissima, questi storici interpreti del doom.

20.30 – 21.30, TRUE METAL STAGE
Balzi in avanti da far invidia ai magici stivali dalle sette leghe hanno portato in pochi anni i Volbeat da curioso fenomeno di costume, prettamente underground, alla ribalta dei festival più importanti. Una consacrazione a band di peso che li premia con una posizione di rilievo anche nelle lande del nord Germania. Se dureranno ancora molti anni in un tale status di popolarità o vedranno scemare l’entusiasmo scatenato coi loro primi dischi, nessuno lo può dire, su può però affermare che i ragazzi danesi hanno altro spessore rispetto alle tante bischerate proposte dal metalcore, tanto per fare un esempio. La miscela metal/Elvis Presley, o in generale il rockabilly anni ’50, l’hanno inventata loro e giustamente adesso ci marciano sopra che è un piacere, sfoderando una carica metallica di tutto rispetto. Tanto gli Airbourne fanno scena e basta, quanto gli Volbeat ci sono per davvero; ne sono testimonianza i litri di sudore buttati fuori dal tatuatissimo cantante/chitarrista Michael Poulsen, uno che potrebbe sedurre attempate signore in balera, tanto calde e seducenti sono certe sue tonalità, e un attimo dopo scorticare qualche giovine dopo aver castigato una platea di assatanati headbangers. I Volbeat picchiano maledettamente forte, fanno saltare e cantare un’audience fattasi densissima, un muro umano dedito a sfogarsi senza sosta su pezzi facili ma con una loro consistenza. L’acciaio temprato dalle atmosfere fumose di cinquanta e oltre anni fa colpisce nel segno, con una performance tiratissima, chiusa da una caotica Raining Blood. Il gangster che campeggia sul gigantesco sfondo dello stage ammicca appena, lascia cadere l’ennesima sigaretta e se ne va. Soddisfatto.

21.45 – 23.00, BLACK STAGE
I Machine Head sono i re dei nostri tempi. Meglio, gli imperatori, sanguinari e magnanimi in egual misura. Sanguinari perché da loro la violenza arriva senza alcuna esitazione e in misura poderosa, con fiotti di suono livido e possente, tragico e massacrante; magnanimi, invece, poiché ai loro fans danno tutto, non si risparmiano e ogni loro esibizione porta addosso le stimmate dei campioni di razza. La loro resurrezione ha dell’incredibile e del sovrannaturale, a pensare a dove li avevano gettati The Burning Red e Superchager poi non si può credere che ora siano headliner ovunque e la gente s’ammazzi per stare il più vicino possibile quando suonano.
The Blackening è il classico moderno per eccellenza, il trade d’union tra la generazione dei thrasher cresciuti a Metallica e Slayer, dei deathsters che hanno venduto l’anima a Death e Morbid Angel e dei giovani fanatici del metalcore, che almeno coi Machine Head possono dire di ascoltare musica coi contro cazzi, piuttosto che le solite frattaglie di cui già fin troppo si è detto e preferisco non citare una volta di più. Gli arcigni americani sul palco sono solo in quattro, ma sembrano avere le parvenze di una montagna, tanto è massiccia la loro presenza on-stage e opulento, da veri padroni della scena, il loro modo di porsi. La calca è devastante, dove c’è spazio è perché si stanno scatenando combattimenti corpo a corpo della vastità e della forza di un uragano, in perfetto connubio con quello che esce dagli ampli. Ten Ton Hammer scuote nelle fondamenta e nelle viscere, ogni accelerazione, ogni affilata sciabolata di Flynn e Demmel rischia di compromettere i fragili equilibri di chi sta di fronte e far male anche in senso fisico. La partecipazione collettiva, ad altissima tensione giù su None My Own, Take My Scars, sul lento The Burning Red, diventa spropositata quando entrano in campo i pezzi di The Blackening; Halo, Beautiful Morning, l’attacco al fulmicotone di Aesthetics Of Hate, impattano sull’audience in modo inaudito e penso che Flynn abbia sentito, con sommo piacere, gli scricchiolii di ossa dei suoi adepti. Il navigato singer/chitarrista, più che mai padrone della scena e quasi al livello di santone tanta è l’adorazione che hanno per lui le schiere di ragazzi sgomitanti ai suoi piedi, interpreta al meglio il proprio ruolo, incitando la folla e ringhiando indemoniato per tutta l’esibizione e verso la fine dello show, in preda anch’egli alla montante adrenalina, non può che lasciarsi andare a una genuina esclamazione di meraviglia di fronte a tanto trasporto. “Posso dire una cosa sola, Wacken: UAOOHHH!!!”. Quando lo dice non sta fingendo, non è il Flynn spaccone e tracotante che gioca a fare il duro, è il musicista genuinamente colpito dagli effetti della propria musica, dall’emozione provocata, dallo shock che le sue canzoni sanno dare.
Il manifesto del Machine Head pensiero Davidian rompe le righe e fa segnare un’altra tacca nell’opera di conquista del mondo intrapresa negli ultimi tre anni dai thrasher a stelle e strisce. Monumentali.

23.15 – 01.00, TRUE METAL STAGE
E’ sempre una meraviglia. I Saxon degli ultimi anni, quelli che li hanno visti tornare in auge anche tra le nuove leve, sono una live band tra le più entusiasmanti e anche stavolta, di fronte alla platea più importante, in una posizione da headliner per la terza volta negli ultimi 6 anni, non deludono, e anzi rilanciano con prepotenza la sfida contro lo scorrere inesorabile del tempo, che dovrebbe fiaccare uomini da così tanti anni sulle scene, e invece ne amplifica il carisma e la classe. Se già un concerto del combo inglese è di quegli eventi da tramandare ai posteri, il trentennale dal primo disco fa sì che vada in scena una sontuosa celebrazione di quest’importante traguardo: la scaletta, scelta dai fan, prevede infatti un brano per ogni album, idea che permette di riassaporare pezzi raramente suonati live, accanto ai soliti cavalli di razza. Grazie ai live non restano fuori troppe canzoni dai dischi più “caldi”, in cambio riappaiono dall’oblio perle dimenticate, spezzoni di vita musicale che sarebbe stato un delitto non sentire più dal vivo.
Si sta stranamente larghi dalle parti del True Metal Stage quando scossa l’ora di Biff e compagni, non puntualissimi a dire il vero, lo show dei Machine Head ha “ucciso” buona parte degli astanti, il che non è un male, perché finalmente si riesce a vivere il concerto in condizioni umane e non pressati da una valanga di corpi. L’apertura è affidata a un brano dell’ultimo disco, con lo spessore di un classico degli eighties, Battalions Of Steel, che fa subito capire l’aria che tira stasera: suoni pressoché perfetti, adrenalina a fiumi, Biff incontenibile. Let Me Feel Your Power arriva appena dopo e non lascia dubbi sugli intenti odierni dei Saxon: travolgere ed esaltare tutti i convenuti, facendo festa e menando fendenti con un entusiasmo che solo pochi altri riescono a iniettare nella loro musica. Byford, astuto maestro di cerimonie, gioca come e più del solito col pubblico, guarda la scaletta, fa finta di essere perplesso, chiede al pubblico cosa vuole sentir prima, ridacchia felice, prima di lanciare i suoi solerti compari sulle note di canzoni che, attraversando uno spettro di tempo che va dagli anni ’70 agli anni 2000, restano tutte accomunate da una capacità di scrittura forse mai totalmente riconosciuta ai Saxon. Se Strong Arm Of The Law e Wheels Of Steel li hanno resi famosi (e l’emozione che travolge l’audience quando vengono suonate fa ben capire il perché), non è che Dogs Of War, Metalhead o Rock’N’Roll Gypsies siano da meno e mandano in visibilio tutti quanti, non fosse altro per la sorpresa di sentirle (per tanti è la prima volta), ma anche la qualità dell’esecuzione ha il suo bel peso nel creare un clima che definire magico è poco. Si consideri, tra l’altro, che i leoni inglesi, pur mettendoci un’energia e un agonismo sfrenato, non tergiversano in pause e arrivano così song a camionate, con una continuità d’azione da parte della band che lascia di stucco. Qua e là nel corso della serata, ordinate con mano da prestigiatore, giungono a fare bella mostra di sé Motorcycle Man, dinamite pura, Heavy Metal Thunder, di spaventosa potenza, Rock The Nations, Unleash The Beast, Solid Ball Of Rock. E ancora, tanto per non far accusare la carestia anche ai più insaziabili, altre cavalcate spezza collo quali l’epica Crusader, Forever Free e le imprescindibili 747 Strangers In The Night e Princess Of The Night.
A questo punto, sforato di gran lunga il minutaggio a disposizione, ad altri verrebbe staccata la corrente, a loro giustamente no, e nell’encore c’è spazio per un tris delizioso composto da Live To Ride, l’antica (arriva dal primo disco) Stallions Of The Highway e, ovviamente, Denim And Leather. Due ore che nessuno dei presenti scorderà tanto facilmente, anche negli anni a venire questo rimarrò uno dei ricordi più belli di chi il metal ce l’ha nel cuore e per esso vive e respira. Per quel chi mi riguarda, il concerto migliore di questa edizione.

01.00 – 01.50, BLACK STAGE
I Capitan Fracassa del metal sono tornati. Demenziali, eccessivi, sconsideratamente assurdi nelle fattezze, nei testi e nella musica, gli Gwar sono di nuovo tra noi dopo un lungo silenzio. Non si sa se per restare o per scomparire in tutta fretta, fatto sta che a festeggiare i 20 anni di Wacken ci sono anche loro e portano un’ora di puro intrattenimento a un pubblico decimato dalla fatica, e che ha appena subito il colpo di grazia dell’accoppiata Machine Head – Saxon.
Il combo americano stralcia ogni tipo di morigeratezza quanto a vestizione, i costumi di scena sono ancora una volta dei catafalchi arzigogolati ed esageratamente mostruosi, oltre i limiti del ridicolo, nelle forme; non oso immaginarne la pesantezza, anche se a vedere la mobilità di questi commedianti del metallo non sembrerebbero dare troppa pena quando c’è da mettere in scena le più assurde goliardate che vi possano venire in mente. Parlare di suoni, prestazioni dei singoli, se le canzoni funzionano o meno dal vivo è un esercizio quanto mai privo di significato con gli Gwar; le song, pur partendo da una parvenza di logica, tracimano presto in un sovrapporsi di riff e urlacci farneticanti, più che altro fanno da colonna sonora alle gag in cui sono impegnati tutti i componenti del gruppo. Il tema della serata è lo scontro tra gli alieni, la band, e alcuni celebri personaggi della Terra: esilarante la comparsata del pupazzo di Michael Jackson, massacrato in ogni modo e infine trafitto nel suo punto debole, ovvero il naso, che finisce per essere strappato in un’orgia di sangue finto. Come non dimenticare il momento più pacchiano dell’intero show, dove sono protagonisti i due sfidanti delle primarie americane, Hillary Clinton e Obama, usciti maciullati dall’incontro di wrestling con i mostruosi musicisti, fatto che determina l’invasione del pianeta ai danni dei medesimi. Avrete capito che, più che ad un concerto, si sia assistito a un marasma di scenette l’una più pazza dell’altra, tutte molto divertenti e accolte alla grande dai fans. Il buongusto paga sempre.

02.00 – 03.00, TRUE METAL STAGE
L’ultimo segno di questa lunga notte di appagante orgia metallara lo mettono ancora una volta loro, i Subway To Sally. Sono un altro di quei gruppi che a Wacken trovi almeno una volta ogni due anni e, non potendo vederli su suolo italico, sono una chicca destinata solo a chi va a vedersi festival in terra germanica. Anche se non si è amanti del folk, sono una band che vale la pena guardarsi almeno una volta nella vita, un po’ perché nel genere ci sanno fare, un po’ perché in Germania act come questi hanno un seguito fedelissimo e che non si perde una parola dei loro testi, con un risultato, in termini di partecipazione emotiva, da brividi. A tutto ciò si somma una grande attenzione per il lato spettacolare del concerto, che forse quest’anno viene leggermente sacrificato, ma che lascia intatta la qualità della performance, ugualmente interessante e avvincente per tutta la sua durata, e pazienza se i sing-a-long non si possono fare perché i Subway To Sally cantano in tedesco. La set-list ricalca a somme linee quel che ci si aspetta dal gruppo, d’altronde è difficile pensare a sconvolgimenti di scaletta proprio in un’occasione del genere, il gruppo viaggia sciolto e spedito, con coesione e amalgama perfetto, dando piena soddisfazione alla voglia di cantare testi in lingua madre dei tedeschi. Vale giusto la pena di segnalare la presenza di un paio di pezzi dall’ultimo disco, il cui rendimento è migliore in sede live che su dischetto ottico, per il resto è una grande festa di cornamuse, flauto, liuto e chi più ne ha più ne metta. Intense melodie medievali stemperano il freddo dell’ultima notte di festival, fine della festa e tutti a casa. La domenica si torna sulla terra.