Quest’anno il Carlito’s Way di Retorbido è un polo di attrazione importante per l’attività concertistica metal, grazie alla Nihil Productions il calendario primaverile è fitto di eventi come non accadeva da secoli da queste parti. I Whiplash sono passati in zona solo due anni fa, nel tour di reunion che li aveva visti infiammare il Thunder Road nel suo penultimo giorno di apertura, in compagnia di un altro storico ensemble appena tornato in attività, gli Artillery. A seguito di due anni di attività incessante in giro per il globo, il terzetto di Tony Portaro torna a farci visita per un’occasione speciale, quella della riproposizione in forma integrale del debut Power And Pain, a oltre 25 anni dalla sua uscita. Insieme a loro, un manipolo di validi gruppi italiani, orientati tutti quanti al thrash e dalla spiccata propensione a dare il meglio nel contesto live.

Persi Hellstorm e H.O.S., la nostra serata comincia con gli Endovein, appena saliti sul palco quando entriamo nel locale. Ora, ne avevo un ricordo tutt’altro che scintillante, li avevo visti un anno e mezzo prima di supporto agli Isacaarum al Marmaja e mi avevano lasciato alquanto perplesso: nell’occasione erano apparsi piuttosto pressappochisti, inclini a fare i simpatici e a perder tempo invece che a suonare, la sensazione che davano era quella di una band ancora alle prime armi e poco capace di gestirsi on-stage. Nel 2010 è uscito il loro primo album, Waiting For Disaster, che avendo ricevuto discrete recensioni mi aveva portato a pensare come eccessive le mie reprimende per l’act torinese.
Effettivamente, il gruppo che mi ritrovo davanti è di tutt’altra pasta rispetto a quello visto la volta precedente. Prima di tutto, gli Endovein sono tra le poche band dell’ultima ondata ad avere un cantante nel vero senso del termine: le parti vocali sono spesso preda di urla monocordi tra le giovani thrash band, il singer dei piemontesi, invece, riesce a colorire i pezzi con una timbrica squillante e mutevole che sa di vecchi Anthrax, Mordred, Powermad, utilizza linee vocali aggressive e insieme spensierate, che portano freschezza ai brani e regalano quegli scatti d’umore che vocals più rudi impedirebbero. La relativa semplicità delle canzoni è arricchita da brevi stacchi saltellanti e cambi di ritmo fluidi e inneggianti al mosh, che nelle prime file apprezzano convinti. I ragazzi mostrano compattezza e danno prova di grande sicurezza nell’approccio col pubblico; oltretutto hanno mantenuto la capacità di prendersi poco sul serio e di sdrammatizzare ogni situazione, qualità che quando non tracima nel cazzeggio prolungato è un’ottima arma per non far calare l’attenzione. La vena thrash-core che permea la musica del quintetto esce prepotente nell’esperimento in italiano Sono Stufo!, breve digressione punkeggiante che dà gli scossoni più forti ai giovani fans attaccati allo stage, ma anche il resto del materiale non accusa scadimenti e porta all’headbanging anche la parte di audience più compassata. In mezz’ora gli Endovein si dimostrano un ensemble valido e con una più che discreta sicurezza nei propri mezzi, a forza di concerti non potranno che migliorare ulteriormente.

Dopo un disco del calibro di Mass Slavery, la voglia di tastare con mano le doti live del terzetto veneto era davvero tanta. La pubblicazione dell’anno passato, che racchiude il nuovo ep e il primo album Human Error… Global Terror, passato in pratica sotto silenzio all’epoca della sua prima uscita, è di quelle che fanno la differenza e segnala indiscutibilmente la presenza di vero talento e non la semplice intenzione di pestare decisi sui propri strumenti. In questo periodo i nostri stanno testando la nuova line-up, che ha recentemente perso il bassista Simone, a favore della new entry Pedro, e a vedere quanto espresso stasera, si può dire che la formazione, così composta, sia già perfettamente oliata nei meccanismi. Pozza alla chitarra è il Mille Petrozza italiano, ricorda il singer dei Kreator in tutto e per tutto, dalla posa ingobbita dietro il microfono, allo sguardo freddo e cattivo, fino al dettaglio più importante, ovvero gli ispidi vocalizzi al napalm, rantoli di veleno ammorbanti e fieramente old-school. I tre sono abbastanza felpati nelle movenze e regalano nulla a livello visivo, mentre dal lato strumentale sono ineccepibili e spietati come su disco. La feralità del loro materiale è trasferita fedelmente nel contesto live e assurge a raffinata killing art grazie all’immane drumming di Manu, che fa tremare il set di batteria già nel soundcheck e durante il concerto assesta bordate da assoluto fuoriclasse dei tamburi. Non è tanto la spericolatezza dei passaggi ritmici a colpire, è proprio il tocco sullo strumento che ha un sapore tutto suo, è un tuono che frastorna, una mitragliatrice mai scarica di colpi, in parole povere uno spettacolo nello spettacolo. Il trio aggredisce con veemenza, ritagliandosi pochi istanti per rifiatare e ancor meno parole verso l’audience, ripagata da una prova chirurgica e all’altezza di quanto di buono Mass Slavery aveva fatto udire. Una piacevole conferma.

Se negli ultimi tempi Ui Mik aveva dato ampio spazio all’hard rock dialettale dei Longobardeth, ora ha deciso di riportare sotto i riflettori la rozza creatura dei Vexed, band che dell’unione incestuosa tra black e thrash minimale ha fatto la propria bandiera fin da tempi non sospetti, quando suonare thrash era una sfida per pochi che ci credevano ancora e non un trend imperante come oggigiorno. Rispetto a chi li ha preceduti i milanesi hanno qualche freccia al proprio arco in meno in termini di talento, mentre non manca assolutamente la carica e l’impegno indefesso. Lineari e dritti al punto, i brani dei Vexed non sono per palati fini ma hanno il pregio di coinvolgere senza tanti giri di note. I ragazzi sul palco sono sciolti e picchiano come fabbri, denotando una presenza scenica più corposa delle band precedenti, frutto di una esperienza live più che decennale. Ui Mik richiama a gran voce i presenti a una maggiore vicinanza allo stage e a creare una bolgia degna di nota. Il singer viene ascoltato solo in parte, d’altronde non ci sono nemmeno i numeri per creare chissà quale massacro. Piuttosto, si sente che rispetto a qualche anno addietro la voce del vocalist fatica a ricreare uno screaming veramente letale, le linee vocali escono arrochite e vagamente estreme, ma non graffiano come dovrebbero. Poco male, i Vexed anche oggi intrattengono efficacemente l’audience in attesa del piatto forte della manifestazione, ormai prossimo a essere sbranato.

Dopo il rientro in pompa magna del 2009, le cose non sono andate proprio via lisce per i Whiplash. Il combo di Tony Portaro ha dato alle stampe il nuovo Unborn Again, accolto in modo altalenante da critica e pubblico, per poi perdere i pezzi e costringendo il leader del gruppo a ripartire da capo con una line-up nuova di zecca. Per ingranare immediatamente e rimettere in carreggiata la band, Portaro ha giocato una carta tanto scontata quanto vincente: risuonare live tutto Power And Pain, il lontano esordio del terzetto. La riproposizione integrale di uno dei capolavori passati è qualcosa che ha colto in tentazione molte band nell’ultimo decennio (citiamo tra gli altri Slayer ai Queensryche), si tratta di una operazione nostalgia sempre molto gradita e condita da responsi del pubblico tra il caloroso e l’impazzito.
Non volendo però cedere a un eccessivo revival, i Whiplash spiazzano i presenti con una performance dai due volti: da una parte, il thrash old-school del primo disco, iniettato a intermittenza durante lo show, dall’altro la vena sperimentale di metà carriera, quella che aveva portato gli americani a incursioni nello stoner, nel southern, persino a qualche intromissione blues nel loro sound. Per chi, nel giugno del 2009, aveva assistito al Thunder Road a un’ora di scorribande mozzafiato nel thrash più genuino e verace degli eighties, non pare vero di trovarsi davanti lo stesso gruppo. Un paio di schiaffi in faccia all’inizio, giusto per non destabilizzare troppo i giovanotti delle prime file, quindi il sempre più cowboy Portaro ci guida in torride schitarrate, pastose e cariche di feeling, lustrate da vocals piene di pathos e lontane parenti delle ispide urla dei brani più serrati. La scelta di suonare il materiale meno thrash lascia interdetti coloro che sono maggiormente legati all’old-school, mentre gli altri, la minoranza, apprezzano il coraggio di riesumare una incarnazione sonora non esattamente baciata da ampi consensi all’epoca. Se la parte mediana del concerto vede quindi i Whiplash trasformarsi in una sorta di Down meno fangosi, con Portaro calatosi nella parte del singer introspettivo e amaro cantore dell’umana decadenza, l’ultima porzione di concerto vede di nuovo gran movimento sotto il palco, grazie allo snocciolamento in serie degli inni più noti di “Power And Pain”, con Power Thrashing Death e Nailed To The Cross a provocare deliziose mischie. Accontentati sia i fan intransigenti che quelli di ampie vedute, i tre del New Jersey possono lasciare serenamente l’Oltrepo’, applauditi da un nugolo di giovanissimi e da qualche metaller più esperto, tutti quanti soddisfatti da questa ennesima dimostrazione di vitalità della vecchia guardia thrash.