Tornano sulle scene i pugliesi Adimiron, e diciamolo subito, lo fanno come meglio non si poteva.
Attivi da oramai più di dieci anni i cinque pubblicano oggi il loro secondo full-lenght dal titolo When reality wakes up, a quasi un lustro di distanza dal precedente Burning Souls.
Cinque lunghi anni che hanno permesso al gruppo di cambiare pelle: formazione quasi interamente rivoluzionata, cambio di etichetta (da Karmageddon Media ad Alkemist Fanatix) ma soprattutto una nuova ed ambiziosa direzione sonora, testimonianza di un’ammirevole maturazione data soprattutto da una visione decisamente più ampia e consapevole di quel che la musica può essere, diventare e trasmettere.
Lo spirito dei Nevermore è quasi costantemente dietro l’angolo in questo WRWU, principalmente nelle ritmiche (ma ben più di una volta fa capolino anche nelle melodie e negli assoli) spesso debitrici anche alla claustrofobica potenza dei Meshuggah, che vanno ad incastonarsi con il flavour di Jack Daniels dei Pantera più southern e con le ottime e sempre protagoniste melodie del singer Andrea Spinelli – autore di una prova sopra le righe, in più frangenti accostabile a Phil Anselmo, al più rauco Matt Barlow o a Warrel Dane, ma anche capace di cambiare più volte registro, interpretazione e colore alla propria voce, adattandola perfettamente allo spirito camaleontico dei brani, con linee vocali mai banali nella loro semplicità -.
Molto sommariamente la proposta del combo brindisino potrebbe essere sintetizzata così, ma ciò non renderebbe giustizia al minuzioso lavoro che c’è dietro a WRWU, in cui ogni dettaglio è curato con il massimo della meticolosità e che, abbinato a una classe non comune, contribuisce ad aggiungere quel qualcosa in più ai brani e a caratterizzarli, conferendo ad ognuno un’identità propria ben riconoscibile. Se ascoltiamo attentamente il disco infatti possiamo trovare una grande quantità di influenze “minori” come i Sepultura di Roots, Fear Factory, Dillinger Escape Plan e un contatto mai invasivo e decisamente vincente con la musica elettronica, presente in piccole dosi e sempre da sfondo ma capace di donare ulteriore varietà e dinamismo alla proposta della band.
L’amore per questo tipo di musica lo troviamo anche nella cover di Spitfire dei Prodigy, mantenuta praticamente identica nella struttura, ma resa capace di buttar giù i muri dal groove che sprigiona con questo arrangiamento.
Descrivervi ogni singolo brano potrebbe essere avvincente per il sottoscritto tanto è l’entusiasmo che nutro verso questo disco, ma non farebbe altro che rompervi i coglioni e ci capireste comunque poco. Vi basti sapere, come ho già scritto, che ognuno gode di una propria identità, e dopo qualche ascolto ognuno vi entrerà nella testa, vuoi per il “ritornello”, per una melodia, una sequenza ritmica, un particolare arrangiamento o per quelle velate percussioni tribali che fanno capolino in quel punto. E per le prime otto dieci volte che il disco girerà nel vostro lettore, avrete sempre qualcosa di nuovo che colpirà la vostra attenzione.
Chiunque ami il metal e veda la musica come qualcosa di vivo, aperto e pulsante non si potrà mai pentire di aver dato una chance a questo disco.