L’InsideOut è andata a scovare a questo giro un gruppo singolare, composto da musicisti dediti finora alla composizione di colonne sonore per film e videogiochi, ambito non esattamente confinante col metal, ma nemmeno ad esso antitetico, a quanto pare. Dopo anni spesi a lavorare su tutt’altro, il trio israeliano ha deciso di osare l’approdo a sonorità metalliche, mantenendo però l’approccio concettuale della musica per film. Non è un esordio fatto così per caso, tanto per sperimentare qualcosa di diverso da quanto suonato di solito, ma un concept sul libro dell’Esodo, di cui Slaves for Life è solo il primo capitolo di una trilogia.
L’idea di base è quella di creare un’ideale colonna sonora per il racconto messo in scena, le partiture musicali mirano a descrivere nei particolari l’ambientazione della storia narrata; le stesse parti più metalliche sono viste come un accompagnamento delle lyrics e gli arrangiamenti quasi travalicano lo scheletro del brano, costruito su chitarre, basso e batteria rocciosi e potenti il giusto, ben bilanciati col resto della musica. Oltre al metal, la parte da leone la fa sicuramente la musica araba, che in alcuni pezzi, come l’opener o Zipporah, prende decisamente il sopravvento; davvero ricercate e roboanti sono le atmosfere cinematografiche create dalle tastiere, usate con molta fantasia e con l’intento di essere il più descrittive ed immaginifiche possibili, senza rendersi però ridondanti con barocchismi altamente tamarri, ma poco funzionali, in quanto i compiacimenti strumentali sono assolutamente banditi da questo album. Chitarre acustiche fanno spesso il proprio ingresso nel tessuto sonoro, a placare gli attimi più accesi, rumori di vita e lavoro ai tempi dei faraoni accrescono di fascino tracce generate per essere qualcosa di diverso da semplici canzoni, ma veri e propri capitoli di una grande storia.
Le sofferenze e le prostrazioni subite dal popolo ebraico sotto il giogo egizio necessitano di un cantore adeguato, e qui i musicisti ideatori del progetto hanno messo sul piatto un asso di tutto rispetto, Mats Levèn, ugola d’oro di molti gruppi dell’ultimo decennio, su tutti la band di Malmsteen, i Therion, i Krux e tanti altri ancora. Inutile dire che canta da Dio anche stavolta, rivelandosi una scelta azzeccatissima, mentre le parti dal sapore più orientale sono affidate al singer dei conterranei Orphaned Land, Kobi Fahri, altro grande talento messo al servizio dell’ambizioso progetto.
C’è da immergersi nel disco con la voglia di sondarlo nel profondo, di cercarne di carpire le fini tessiture, per poi lasciarsi trasportare nelle braccia di quella lontana epoca; ci si spingerà, grazie alle musiche di questa release, ad immaginare tutti i particolari di allora, gli odori, i colori e i sapori che contornavano la lotta per uscire dalla schiavitù del popolo prediletto da Dio, mentre gli Egizi non esitavano ad infierire su di loro con spietatezza. Non ci si lasci fiaccare dalla lunghezza davvero chilometrica della maggior parte delle tracce, né ci si lasci dissuadere dai tanti punti del disco in cui di metal ce n’è davvero poco e si sconfina nella soundtrack pura, perché poi rimane più arduo interrompere l’ascolto, che portarlo a termine.
Se proprio un punto a sfavore può esserci, è il fatto che gli strumenti metal, seppure molto potenti e presenti, non hanno la complessità e la ricchezza del progressive vero e proprio, ma sono la base di partenza per le incursioni, spesso assolutamente spettacolari nella loro imponenza, delle orchestrazioni; esse sono talmente non convenzionali in un contesto di musica dura, che non possono che essere ricondotte ad artisti dalle vedute molto più ampie di quelle che il genere di solito propone, e vanno a giustificare l’uso ben più parsimonioso di evoluzioni chitarristiche e ritmiche, che di solito infarciscono il progressive.
Lo stesso voto, applicato ad una release di tale originalità e arditezza, perde quasi di significato, mancano gli appigli e i punti di confronto per un qualcosa che non ha molti eguali nella scena odierna. In molti si allontaneranno spaventati, chi ha voglia di andare oltre ai soliti schemi lo faccia proprio e lo assapori in ogni singola nota.