I processi di maturazione non sono uguali per tutti, c’è chi piazza esordi miracolosi e poi si smarrisce e chi parte in sordina per arrivare a masterpiece leggendari. Quanto tempo ci voglia, è tutto da verificare. Nel caso dei Cattle Decapitation il fuoco ha covato sotto la cenere a lungo, prima che il quartetto vegano con passione smodata per il grind e il death passasse dall’anonimato dei primi lavori a questo ibrido indefinibile, psicotico, lacerante chiamato “Monolith Of Inhumanity”. La svolta c’era già stata, almeno dal precedente “The Harvest Floor”, ma credo se ne fossero accorti soprattutto i fans della prima ora e chi si era trovato davanti il gruppo dal vivo, e ne aveva sondato la personalità quanto meno esuberante.
Ora il mondo metal deve aprire gli occhi, non può più far finta di niente, e accogliere i Cattle Decapitation tra i leader assoluti dell’attuale scena estrema. L’ascesa ai vertici è riuscita senza snaturarsi, dato che l’identità grind è rimasta ben distinguibile e gli schemi promulgati nel nuovo lavoro, per quanto scaraventati in un futuro lontano e assurdo, sempre da lì arrivano. I blast-beat impazziti e le urla belluine strappacuore e polmoni rifulgono infatti in quasi tutto il lavoro, la velocità e la brutalità difficilmente scendono a livelli umani, ma gli elementi già noti si fondono a una marcata propensione all’avanguardismo e a sonorità siderali. Il riffing di Josh Elmore miscela crudezza grind-death e innovazioni cibernetiche, assoli da virtuoso e cascate di note che esulano dal contesto estremo, mantenendo comunque violenza suprema e una pulizia esecutiva clamorosa. Qualcosa già provato anche dai Cephalic Carnage e che non va tanto lontano dal Devin Townsend solista quando suona maledettamente metal, ma con una originalità molto spiccata. L’axeman apre e chiude porte su mondi nuovi e meravigliosi, incastonando le sue evoluzioni in uno scheletro ritmico intricato, tesissimo e dalle rare pause. Si nota in generale la propensione a costruire canzoni vere e proprie, non solo successioni di schegge impazzite, e si ha anche una certa ricerca del ritornello incisivo, favorita dalla mirabile versatilità del cantato di Travis Ryan. Questi mostra una sicurezza e una ferocia encomiabile sia nelle urla da scannatoio che nei growl catacombali, e lasciano ancora più basite certe vocine demoniache da gremlin e inaspettate clean vocals, che ampliano a dismisura il bagaglio vocale del singer: difficile trovare qualcuno più espressivo in ambito estremo. La spinta al delirio viene equilibrata da un songwriting attento al respiro melodico, enciclopedico nel delineare scenari via via più allucinati, morbosi, dei veri rompicapo di note composte, scomposte, riassemblate alla velocità della luce, con gusto e propensione all’omicidio di massa.
Non c’è un dettaglio fuori posto, una sequenza che non convinca, i Cattle Decapitation sono passati dall’essere dei buoni caporali a dei generalissimi da stato maggiore all’interno della scena death e grind. Sarebbe delittuoso ignorarli ancora.