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EARTHSHIP – Iron chest

Secondo album ufficiale per la band tedesca di recente formazione Earthship i cui membri, tra tour continui e sessioni in sala di registrazione, dimostrano una passione e un’attaccamento alla musica raro di questi tempi, in cui tutto sembra essere diventato un business e un prodotto preconfezionato da servire come se fosse un obbligo. Iron chest invece è un album genuino, sentito, onesto, in cui il trio dimostra di avere una propria personalità forte e si riesce a scrollare di dosso quella definizione dei più maligni che li vedeva semplicemente come una costola sludge degli Ocean. Robin Staps, che comunque già prima non era altro che la seconda chitarra live a conti fatti, se n’è andato per motivi di tempo (smentendo quindi le voci che lo vedevano come un cyborg!), lasciando campo libero al buon Jan Oberg di dimostrare tutto il suo valore come songwriter e frontman. Detto fatto, gli Earthship sfornano un nuovo album che è il proseguio del naturale cammino iniziato con il debut dell’anno passato, semplicemente più maturo, a tratti anche decisamente raffinato nonostante il genere proposto. Il bello del terzetto berlinese è che riescono a svicolarsi abbastanza facilmente da facili definizioni musicali, arrivando ad accorpare vari generi affini tra di loro con un gusto e classe in modo da riuscire ad avere una propria identità pur senza proporre niente di particolarmente originale. Se il territorio di provenienza nonché la base fertile su cui aggiungere altre stratificazioni sonore è il post-hardcore barbuto (non ridete, trovatemi un gruppo che suoni quel genere che non abbia una folta peluria!), gli Earthship declinano i brani a seconda delle esigenze alle volte con abbondanti dosi di sludge, altre con il buon vecchio stoner e addirittura in qualche frangente si avvertono spruzzate di doom, prog e un po’ di psichedelia. La varietà che si respira lungo tutto la durata di Iron chest è impressionante, ogni brano ha la sua precisa identità e finalmente si ha la sensazione che, nonostante ovviamente ci sia qualche canzone meno buona delle altre, non ci siano dei filler messi dentro per arrivare a fare numero. La registrazione è un altro valore aggiunto di questo disco anche se un po’ prevedibile e stereotipata, sostanzialmente sembra di sentire un po’ i suoni dei vari Baroness, Kylesa e Crowbar: chitarre spesse come una colata lavica, basso martellante e robusto, batteria secca e molto naturale. Ovviamente è adeguata al tipo di sonorità che propongono i tedeschi, ma mi sarebbe piaciuto sentire qualcosa di più personale, anche perché è tutto stato registrato e prodotto direttamente dal buon Jan nel suo studio personale. Evidentemente avrà voluto dare al disco un’impronta decisamente diretta e live, anche se poi sulle voci è stato fatto un lavoro giustamente curatissimo che mette in mostra la versatilità del frontman, capace di passare agevolmente dal growl tipicamente sludge che caratterizza buona parte dell’album a clean vocals in cui esibisce un timbro veramente bello che a tratti ricorda il compianto Layne Staley. Parlando delle parti melodiche, le ho trovate veramente belle ed azzeccate, un po’ forzate solo nell’opener “Old widow’s gloom” in cui la sensazione di volere a tutti i costi buttare dentro un ritornello affiora fortemente; nel resto dell’album invece si integrano perfettamente, creano meravigliosi contrasti tra parti sludge/hardcore e momenti psichedelici. La costruzione dei brani è un altra nota di merito nei confronti della band, che riesce sempre a creare una sorta di tensione all’interno di ogni canzone grazie all’alternanza tra le massicce parti strumentali e il già citato dualsmo sludge/psichedelia che tocca l’apice nella conclusiva e meravigliosa “Teal trail”. Qui i tempi più dilatati iniziali svelano l’amore della band nei confronti degli Alice in Chains che furono (che detto tra di noi non sono mai stati un gruppo solamente grunge) e della loro capacità di creare atmosfere umide e psichedeliche al tempo stesso, mentre il magnifico crescendo centrale è tutta farina del sacco degli Earthship. Splendidio modo di concludere uno splendido album, che come già detto in precedenza mette in mostra tutta la personalità di una band che riesce a costruirsi una propria identità senza dover inventare per forza niente di nuovo. Chiamatelo pure un barbatrucco, l’uovo di Colombo o in mille altri modi, ma Iron chest è un gran album.

  • 8/10

  • EARTHSHIP - Iron chest

  • Tracklist
    1. Old widow's gloom
    2. Athena
    3. Iron chest
    4. Boundless void
    5. Eyes in the night
    6. Brimstone
    7. Catharsis
    8. Silver decay
    9. Shattered
    10. Teal trail

  • Lineup
    Jan Oberg. chitarra, voce
    Sabine Oberg. basso
    Dennis Böttcher. batteria, voce